Quell’uomo speciale [di Francesca Gallus]

omo

Incontrai quell’uomo una sera tardi, e non ero nella mia forma migliore. Portavo i capelli raccolti dietro la nuca, ed indossavo una specie di tunica gialla e verde. Il giallo ed il verde non stanno bene a nessuno, figurarsi l’effetto con la mia carnagione chiara, coperta di lentiggini delicate, che decorano la pelle di tutto il corpo; quel particolare punto di giallo e quel verde spento poi, che indossavo ormai da diverse sere e in tante città, non mi si addicevano affatto. Mi trovavo a disagio a breve distanza dagli estranei e ancor di più di fronte agli ammiratori che venivano a complimentarsi con me subito dopo la mia ultima uscita, fra gli applausi frenetici che riempiono i teatri di echi ogni volta che pronuncio l’ultima battuta della commedia.

Quell’uomo mi portò, come molti, dei fiori, che ora penso potessero essere dei gigli bianchi, fiori che odio, ma che il mio agente si è ostinato a pubblicizzare come i miei preferiti, alla ricerca di un segnale che potesse caratterizzare la mia personalità fuori dal palcoscenico, quando ancora nemmeno lui stesso aveva capito quanto alta sarebbe diventata la mia fama. Comunque sia sono ormai prigioniera di questa stupida leggenda e vengo normalmente sommersa da gigli bianchi alla fine di ogni recita, in qualunque città porti il mio spettacolo, anche la più nascosta città di provincia. Io credo che i fioristi del luogo dove è prevista la mia presenza si riforniscano di questi fiori in precedenza, per averne sufficienti il giorno in cui mi esibisco.

La mattina, dopo la recita, provvedo sempre che gli addetti del teatro distribuiscano fra i figuranti, gli attrezzisti ed il personale in genere tutti questi grandi mazzi maleodoranti. Non mi dispiace privarmi dei fiori e questo semplice gesto mi procura la benevolenza di coloro che devono ancora lavorare con me. Confesserò che talvolta quando mi sembra che l’occasione lo richieda, quando il personale del teatro è particolarmente numeroso o quando mi pare di non cogliere in ciascuno quella speciale ammirazione che in genere mi viene tributata, provvedo io stessa ad ordinare per telefono un po’ di fiori, per far sembrare ancora maggiore la mia munificenza e insieme l’adorazione del pubblico. Sono piccoli trucchi innocenti, meno di niente rispetto a chiamare i fotografi per vendersi un amore in esclusiva.(Sto divagando forse, mi fermi lei se desidera che sia più breve). Quell’uomo, devo dirlo, mi piacque subito.

È ben noto che finiva in quei giorni, fra ripicche e amarezza la mia relazione col Grande Regista e mi faceva comodo trovare un corteggiatore che mi comparisse accanto, adeguato alla mia bellezza. Quell’uomo, bisogna riconoscerlo è piuttosto bello, mani grandi e curate, qualche ruga, che dona ad una certa età, alto, ancora abbastanza magro e comunque senza traccia di quella pancia sporgente che rovina tanti. Era adeguato, diciamo; lo trattenni e lo invitai a cena, con una qualunque delle scuse che tengo pronte in questi casi. Parla bene, sa trovarsi a suo agio in una compagnia di sconosciuti e superò la prova.

Presi a vederlo e lo frequentai per tutto il periodo in cui ci fermammo nella sua città. Non dovevamo fermarci a lungo, e certe cose si dimenticano presto in genere. Vedendolo oggi mi è sembrato strano ripensare a quei giorni. Non rincontro quasi mai questo genere di persone ed è comunque sempre mio malgrado. Certo gli devo una qualche gratitudine: se il Grande Regista è oggi mio marito e la nostra coppia è così celebrata ed invidiata è merito un pochino anche suo, della gelosia che suscitò la sua presenza al mio fianco. (Si, ha ragione, non devo più parlare al presente, bisogna però che mi abitui all’idea, sa, non è facile, anche per una donna con le particolari risorse che ho io). Andammo ovunque in quelle giornate: in barca, in certi piccoli ristoranti dell’entroterra dove si trovava una cucina eccellente, in molti locali notturni, piuttosto particolari, che non sapevo si trovassero in quella città. Non è passato molto tempo dunque ne ho un ricordo abbastanza vivo. Finite le recite mi riposai per qualche tempo nella mia città d’origine. La mia famiglia si trova ancora lì, i miei amici d’infanzia, di prima che fossi celebre, mi sono ancora affezionati come se fossi ancora la semplice ragazza di una volta.

È una boccata d’aria fresca per me, abituata come sono agli adulatori, ai cavalier serventi, alle donne interessate a godere del riverbero della la mia grande notorietà. Si può capire che gioia sia stata per me vedere il Grande Regista fuori dalla porta di casa mia, con un piccolo dono tenero e prezioso fra le mani. Riconciliarci fu facile, ma mi sembrò opportuno fargli capire che la mia resa era condizionata e che avrebbe dovuto temere sempre di potermi perdere in qualunque momento. E trovandomi per le mani il numero di quell’uomo lo chiamai, invitandolo a raggiungermi, per passare ancora qualche giorno assieme. Non l’avrei fatto con un altro, ma lui mi piaceva (Si, l’ho già detto), e sapevo che avrebbe retto bene anche al frequentarmi in un ambiente semplice e familiare, tanto diverso dal mondo brillante che avevamo appena lasciato. Come avevo previsto rispose subito al mio appello e venne a prendere alloggio in un albergo nei pressi di casa mia.

Il Grande Regista lo conobbe, ebbe modo di apprezzarne lo spirito e la bellezza e temendone la concorrenza mi chiese di sposarlo. Facemmo tutte le carte in tempi brevi, il suo divorzio era stato perfezionato da tempo, e, nonostante quell’uomo non fosse scomparso dalla mia vita, ci sentimmo di nuovo innamoratissimi e felici come i primi tempi del nostro amore. Il giorno del matrimonio fu magnifico, un vero sogno, una favola. Avevo un abito creato per me in esclusiva, nonostante i tempi ristretti, di altissima sartoria. I dettagli di quell’abito erano su tutti i giornali e si son viste già le prime brutte copie in altri matrimoni di minore rilievo o di gente comune. Fu tutto come l’avevo sognato: i miei genitori, fieri e commossi, i suoi figli, sereni e graziosi, per quanto l’adolescenza lo consenta, bella gente, bei posti, buon cibo. Eleganza, classe, discrezione, non siamo star della tv.

Purtroppo la chiesa era piena di gigli bianchi, il mio agente l’ha preteso, e vivaddio, qualcosa bisogna pur sacrificare alla celebrità. Quell’uomo non fu invitato al matrimonio, ci vuole misura e un po’ di buon gusto in queste cose, ma non aveva ancora lasciato l’albergo e pochi giorni dopo venne personalmente a presentarci, con un munifico dono di nozze, i suoi auguri (Vuole vedere cosa ci regalò?, non è importante? È un oggetto molto bello, comunque).

L’inattività ed il riposo, lontano dalle scene, possono essere terribilmente noiosi alla lunga, e non basta la felicità di un recente matrimonio per riempire la vita di una coppia come quella che formavamo io ed il Grande Regista. Certo, leggere copioni e mandarli a memoria, provare davanti allo specchio un gesto nuovo sono qualcosa, così come annotare le pagine di un testo, chiamare gli scenografi, parlare con i musicisti, ma manca lo smalto e l’euforia della ribalta, si può sbagliare qualche mossa, agire con leggerezza senza capirlo subito.

La compagnia di quell’uomo divenne preziosa per noi; in poche settimane crebbe la familiarità nel nostro gruppo di tre persone e la sua ironia, la sua particolare esuberanza, lo resero sempre più caro a mio marito, che ne cercava la compagnia anche in mia assenza (Voglio precisarlo, noi siamo persone rette: non immagini sesso selvaggio, partouze, toccatine. Qualche allusione, qualche scherzo, ma niente volgarità, niente eccessi).Poi sono partita per prendere accordi sul prossimo spettacolo, decidere il cast, incontrare gli autori, le solite cose che precedono le prime prove.

Ho fatto acquisti anche, vestiti, scarpe, le cose indispensabili per una come me; ho visto alcune case, da scegliere per fissare la nostra residenza, che fossero abbastanza grandi e abbastanza lussuose. Ho parlato con gli arredatori, ho visto stoffe e mobili; ho telefonato di continuo e mio marito mi ha sempre risposto. La voce era triste è vero, un tono senza smalto, ma l’attribuivo alla mia assenza: io riempio la vita, sono solare, allegra, affettuosa (Le lacrime mi vengono giù da sole, non riesco a fermarle. Andrei in bagno a lavarmi il viso, ma non posso passare da quella stanza, mi capisce vero?). Avrei dovuto intuire, forse, ma non mi vengono in mente nemmeno ora quei piccoli gesti, quegli indizi che a posteriori si dicono rivelatori (Negli ultimi giorni forse posso aver notato silenzi più lunghi, sguardi più assenti, ma cose di poco momento). Stamattina, al rientro, la casa sembrava vuota. Ho chiamato, ho posato i miei pacchi. Era tutto in ordine, ma i fiori, nei vasi (Sono le rose, sa, i miei veri fiori preferiti), erano secchi e avvizziti, non, come di solito accade al mio ritorno, rinnovati per me. Questa casa è piccola e modesta, l’ho ereditata dalla nonna, e mi ha sempre fatto piacere tenerla così, com’era quando l’abitava lei.

Ho cambiato solo qualcosa, i colori, le tende, qualche mobile, per farla più luminosa, meno da vecchi, più moderna. C’è quel piccolo ingresso, dove posare le chiavi, c’è il soggiorno che dà sulla cucina e dall’altra parte sull’unica stanza da letto col bagno in camera. Ho chiamato di nuovo, non mi aspettavo di non trovare nessuno ad attendermi, ad abbracciarmi sorridendo.  In pochi passi ho raggiunto la stanza da letto, dove altro dovevo andare? Ho aperto la porta, era socchiusa, e ho visto il flacone, il biglietto, le mani unite, il pallore dei corpi nudi. (Vederli così, su quel letto, Commissario, quell’uomo e mio marito, nella casa di mia nonna, con quella coreografia dozzinale, da teatrino di quart’ordine, è più patetico che terribile, è soprattutto di cattivo gusto).

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