Gramsci in cella e in clinica. I paradossi di una prigionia [di Franco Lo Piparo]

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Corriere della Sera 30 maggio 2016. Il leader comunista dopo la condanna. L’ipotesi di una rete protettiva in suo favore. «Per venti anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». È la frase che avrebbe pronunciato il pubblico ministero nel processo contro Gramsci. In tanti c’è capitato almeno una volta di citarla. La notizia la dà Togliatti nell’articolo scritto nel 1937 per commemorare la recente morte del compagno. Quella frase non è stata mai detta da nessun giudice. Chi volesse controllare non ha che da leggere gli atti del processo pubblicati da Domenico Zucaro nel 1961.

Il falso storico del 1937 è il punto di partenza di altre falsificazioni su Gramsci e il fascismo. Molte sono note anche se non sono mai state adeguatamente valorizzate. Ne ricordo alcune tra le più eclatanti. Ancora Togliatti, nel 1944 appena arrivato in Italia, scriverà che la cognata Tania i Quaderni era riuscita «a trafugarli dalla cella la sera stessa della sua morte, grazie al trambusto creatosi». Gramsci non è morto in una «cella» ma in una delle cliniche più costose di Roma, la Quisisana.

Era accusato di avere attentato alla sicurezza dello Stato. In presenza di un tale capo di imputazione anche i regimi liberal-democratici adottano misure di rigido controllo di ciò che il detenuto scrive. Mussolini, se avesse voluto sequestrare i Quaderni, non aveva che da applicare leggi e regolamenti. Nessuna astuzia di compagni e cognata sarebbe stata efficace. I Quaderni uscirirono dalla clinica col consenso o nel disinteresse totale del fascismo. Perché? Escluderei il ricorso all’inefficienza dell’apparato repressivo.

La documentazione disponibile mette sotto gli occhi un paradosso che attende una spiegazione. Gramsci al momento dell’arresto era coperto da immunità parlamentare. Il suo arresto fu illegale, la sentenza o infondata o eccessiva. Una volta condannato (ecco il paradosso) si ha la sensazione che si sia formata una specie di rete protettiva governata direttamente da Mussolini. I fatti che orientano verso questa supposizione sono tanti.

Gramsci dispone di una cella tutta sua che, stando alla descrizione che il detenuto fa alla madre il 31 settembre 1931, è «una cella molto grande, forse più grande di ognuna delle stanze di casa». La lettera non trascura alcuni particolari: «ho un letto di ferro, con una rete metallica, un materasso e un cuscino di crine e un materasso e un cuscino di lana e ho anche un comodino».

A partire da febbraio 1929 può usare carta, penna e libri diversi da quelli della biblioteca del carcere. Privilegio non concesso agli altri detenuti politici. A volte il direttore gli proibisce la lettura di determinati libri. Gramsci scrive direttamente a «S.[ua] E.[ccellenza] il Capo del Governo» e l’autorizzazione alla lettura arriva. Nella lettera dell’ottobre 1931 indirizzata a Mussolini, ad esempio, scrive: «Ricordando come ella mi abbia fatto concedere l’anno scorso una serie di libri dello stesso genere, La prego di volersi compiacere di farmi concedere in lettura queste pubblicazioni». Tra esse ci sono: La révolution défigurée di Trotsky, Le opere complete di Marx e Engels, le Lettres à Kugelmanm di Marx con prefazione di Lenin.

Non pare proprio che Mussolini abbia voluto impedire al cervello di Gramsci di funzionare.

A partire dal dicembre 1933 fino alla morte (aprile 1937) Gramsci non è più in carcere ma nella clinica Cusumano, a Formia, prima, nella costosa clinica romana Quisisana dopo. Dodici dei trentatre quaderni a noi pervenuti non hanno timbro carcerario e sono stati interamente redatti nelle cliniche. Correttezza filologica vorrebbe che venissero chiamati Quaderni del carcere e delle cliniche.

La conoscenza del periodo delle cliniche è molto lacunosa. Il cordone protettivo si rafforza. Ruoli importanti vi svolgono l’economista Piero Sraffa e lo zio Mariano D’Amelio, senatore e primo Presidente della Corte di Cassazione. È un periodo che presenta molti buchi neri e che potrebbe riservare sorprese.

Prendiamo gli ultimi venti mesi prima di morire, dal 24 agosto  1935 al 27 aprile 1937. Li trascorre nella clinica Quisisana frequentata dalla buona borghesia romana. Al mantenimento delle spese contribuisce la Banca Commerciale Italiana tramite il banchiere Raffaele Mattioli. Il Ministero dell’Interno dispone la vigilanza solo esterna. La Questura più volte scrive al Ministero per lamentarsi che, date i numerosi ingressi della clinica e il poco personale disponibile, non è nelle condizioni di garantire un vero controllo.

Cito un passaggio della Nota riservata della Questura datata 14 novembre 1935: «la vigilanza esterna non offre neppure la possibilità di alcun controllo sulle persone che si recano a visitare il Gramsci, in quanto trattasi di una clinica vasta, di lusso, in cui sono ricoverati numerosi malati di agiate condizioni e che quindi vengono visitati da persone che vi si recano quasi sempre in automobile». Non risulta che il Ministero abbia risposto o preso provvedimenti. Segno che così era stato deciso nelle alte sfere del governo.

Il fascismo è crollato da più di settanta anni. Dalla morte di Gramsci sono passati settantanove anni. Il muro di Berlino è stato abbattuto ventisette anni fa. I tempi sono più che maturi per esplorare senza pregiudizi ideologici un capitolo fondamentale della storia d’Italia. Se non ora quando?

 

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