Un paese civile è tale se sa proteggere i più deboli [di Anna Maria Busia]

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Vanessa aveva 6 anni compiuti da un paio di mesi quando la mamma fu uccisa. Stava guardando i cartoni animati alla TV, nel soggiorno di casa. Da sola. Il padre era andato in camera da letto, dove riposava Anna Maria, la mamma di Vanessa, e le aveva sparato un colpo a bruciapelo, in testa. Con la pistola d’ordinanza. Poi aveva preso  la figlia, l’aveva portata dai nonni e aveva chiamato i carabinieri. Era il 1998. Da questo momento Vanessa Cardia inizia una battaglia che ancora non è finita.

Dopo l’arresto del padre viene affidata agli zii materni. Inizia il processo, poiché viene esclusa la premeditazione ed ha scelto il rito abbreviato, la condanna è di 14 anni e 8 mesi di reclusione. Tra indulto e benefici vari sconta in carcere poco più di sette anni e poi esce. È di nuovo un uomo libero, o meglio semilibero. Scrive all’ Inpdap per chiedere che gli venga assegnata la pensione di reversibilità della moglie che ha ucciso, nonostante egli sappia bene che fino a quel momento quei denari erano andati a Vanessa e che erano l’unica sua fonte di reddito.

Non solo. Pierpaolo Cardia che mai si è occupato del mantenimento della figlia, non ha mai provveduto a risarcire i danni riconosciuti a seguito del delitto, pone in essere una serie di intralci affinché Vanessa non ottenga ciò che le spetta, in qualità di erede di Anna Maria Mele. No all’eredità, no alla casa, no alla modesta pensione di reversibilità. Vanessa reagisce, si rivolge ad un avvocato, pone in essere le azioni che sono necessarie perché i suoi diritti vengano riconosciuti.

Si rivolge al giudice perché il padre venga dichiarato indegno a succedere, questi infatti ha anche l’impudenza di avanzare pretese sulla porzione di eredità che spetterebbe solo a Vanessa. Si rivolge all’ente previdenziale per avere i soldi che le consentono di continuare a studiare e a vivere. Ma la legge non prevede il superamento di questa ingiustizia, la pensione rimane al padre. Inizia per Vanessa una nuova battaglia, l’ennesima, dolorosa e faticosa, per cambiare la legge.

Bisogna impedire che chi uccide il proprio congiunto poi usufruisca della sua pensione. Insieme al suo avvocato si rivolge a due parlamentari sardi perché depositino la proposta di modifica della legge alla Camera e in Senato.  Ma non basta, la battaglia deve essere anche sui media perché aiutino, perché facciano sentire la voce di tutti, perché la proposta arrivi quanto prima all’ordine del giorno. E ce la fa, Vanessa, che nel frattempo ha voluto cambiare cognome e non si chiama più Vanessa Cardia, ma Vanessa Mele. Il cognome della mamma.

La proposta diventa legge e da allora dal 2011 coloro i quali uccidono un proprio congiunto non possono diventare beneficiari della pensione di reversibilità. È la prima importante vittoria di Vanessa. Ma le battaglie legali non sono finite. Alcune le vince, ma non bastano ancora ad ottenere ciò che le spetta. Il padre viene dichiarato indegno da un giudice, ma si oppone al pignoramento che lei ha fatto sulla casa, residenza della famiglia fino al 3 dicembre 1998.

Nel frattempo (dal  giugno 2004 ad oggi, prossimo rinvio al 2017) nella vicenda processuale si inserisce anche Equitalia. La beffa ulteriore. Il padre non ha mai pagato le imposte relative alla casa e l’ente di riscossione che fa? Profittando della procedura esecutiva iniziata anni prima da Vanessa e finalizzata alla definitiva assegnazione della casa in cui ha vissuto i primi sei anni di vita con la mamma, si inserisce nella procedura, e vantando crediti privilegiati, pretende, a fronte di un debito di 32 mila euro, di potersi rivalere sull’appartamento.

Il danno, la beffa, la vergogna di un Paese che non sa proteggere i più deboli. Queste le ragioni che impongono un intervento legislativo come quello che è stato individuato con la proposta di legge depositata e presentata i giorni scorsi. Vi è la necessità che per queste persone, questi bambini orfani due volte per lo stesso delitto, vi siano una serie di automatismi giuridici che consentano il superamento di ostacoli procedurali permeati da un pesante carico di ingiustizia.

Un sistema che non sia in grado di garantire la giustizia in senso sostanziale e non solo formale è un sistema che ha fallito il suo principale compito.

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