Guerra e politica: la strana coppia [di Mario Rino Me]

Pelo

Rivista Marittima Giugno 2016. La genesi (1) Come osservava il feldmaresciallo B. Montgomery «la guerra esercita un richiamo, e può diventare persino divertente… All’origine (di essa), vi è un eccesso di popolazione, un reciproco desiderio di possesso di piccole estensioni… Fino a quando i capi politici non troveranno qualche modo ragionevole per comporre le dispute internazionali, la guerra resterà tra noi» (2). Vista in chiave moderna, si comprende che la formulazione clausewitziana della guerra come semplice «atto» ovvero «continuazione della politica con la combinazione di altri mezzi» (3) per risolvere forti contrasti tra Stati, sia da intendere oggi come metodica diretta di «maniere forti» non necessariamente o esclusivamente militari, inclusive dunque di quelle forme ibride oggi di moda. Del resto, la conflittualità è uno degli aspetti salienti della natura umana, «un aspetto endemico» per dirla alla Weber, che riprende quel carattere di ineluttabilità delineato nel quarto secolo a.C. da Tucidide.

Fino alla Guerra Fredda, l’immaginario collettivo ha associato l’incedere della storia alla sequenza delle grandi guerre che hanno scandito le varie epoche. In effetti, la mappa della geografia politica, i singoli Stati e le istituzioni che noi conosciamo ci sono stati tramandati da un continuo succedersi di conflitti con una varietà di scenari e dinamiche legate a contesti e circostanze. A conferma di quanto sopra, un giornalista americano, A. Bierce, reduce della Guerra di Secessione dove aveva combattuto per l’Unione, e noto per la sua satira e sarcasmo, aveva definito il proietto come «arbitro finale nelle dispute internazionali», e la polvere da sparo come «agente impiegato da nazioni civili per la risoluzione di dispute che, se lasciate a sé, possono diventare fastidiose» (4).

Per estensione, l’insieme, che si sintetizza nel cannone, è associabile al simbolo di strumenti dalle maniere forti per rettificare uno stato di fatto. Visto che le dispute dell’epoca avevano alla radice questioni fisiche di territorio, nella prospettiva irriverente di A. Bierce, quel genere di strumenti veniva utilizzato per la rettifica forzata delle linee di confine. Il Generale John F. Fuller, icona del pensiero strategico britannico del primo dopoguerra, li concettualizza, nell’aggregato, come «master weapon», ovvero il sistema principale su cui impostare l’attività tattica. Infatti, dopo il cannone, si profilava all’orizzonte l’accoppiata carro armato-aeroplano, già impiegati con funzioni autonome durante la Prima guerra mondiale, e poi in azioni congiunte, che saranno facilitate con l’immissione in servizio della radio campale.

Con l’analogia al mondo della chimica, guerra e politica si combinano in una sorta di reazione che ha come catalizzatore quello stato di percezione del pericolo già intravisto da Tucidide (5) , e che portava M.T. Cicerone a domandarsi «quae est enim ista securitas?» (6). La guerra è stata dunque un comune denominatore nell’evoluzione delle entità sociali delle loro architetture istituzionali (gli Stati), tanto che, nei momenti cruciali dello scontro tra mondi diversi, la stessa caratterizzazione identitaria delle entità sociali coinvolte, è stato influenzata successivamente dal verdetto sul campo (basti pensare alle guerre greco-persiane, a quelle romano-cartaginesi, ai Campi Catalaunici della nuova realtà romano-gotica dell’Impero d’Occidente contro gli Unni di Attila, all’epico scontro a Roncisvalle ecc..). Persino una situazione di conflittualità strisciante, ma non combattuta se non a parole, come la Guerra Fredda, si è conclusa con il suo esito di geografia politica, dinamiche sociali e con uno strascico di risentimenti sull’utilizzo (o abuso) politico del risultato.

Del resto, la stessa origine semantica greca dei termini guerra (πόλεμος) e politica (πολιτική) prefigura una radice pressoché identica e dunque un legame comune tra le due manifestazioni. Un legame, che, come si dimostrerà, è rimasto indissolubile. Per un certo tempo, mentre nel lessico corrente il termine guerra è stato abusato fino alla banalizzazione, in quello formale delle istituzioni è quasi venuto a mancare, in quanto essa esprime, all’estremo, l’azione esterna ed estrema dello Stato, che, al verificarsi di condizioni lesive della sua sicurezza, mobilita tutte le forze necessarie alla sua sopravvivenza. Ma, riflettendo, non si tratta di una mera coincidenza se la stampa occidentale, e persino alcuni studiosi, utilizzano il termine guerra, come un richiamo emotivo ad attività belliche, per descrivere l’attuale situazione.

Di fatto, la comunità scientifica ha lungamente dibattuto su quali condizioni siano necessarie perché si parli di guerra e il denominatore comune è stato trovato in un certo numero di parametri, quali i numeri dei combattenti coinvolti (oltre 50.000 (7)) nonché «una misura sostanziale di organizzazioni da entrambi i lati» (8). Va da sé che il termine guerra era riferito a una questione fra Stati, che implicava operazioni militari di forze regolari protratte nel tempo, di ampiezza, intensità e profondità adeguate. Eppure, nel corso dell’evoluzione delle società, nel solco tracciato dalle forze della modernità, anche il Diritto  internazionale si è adeguato alle nuove tendenze con l’istituzionalizzazione dell’espressione «conflitto armato», più generica e inclusiva. Nell’uso corrente, il riferimento agli eventi bellici riguarda la tipologia delle guerre classiche, tra Stati, nella formulazione Tomistica inter nationes liberas, culminate, in un crescendo iperbolico di violenza e distruzioni, con le due Guerre mondiali dal 1914 al 1945.

Non a caso, il Generale de Gaulle, le associava a una riedizione della Guerra dei Trent’anni (9), per cui, inquadrate nella prospettiva europea, esse potevano essere annoverate come «guerre civili». Infatti, proprio quella Guerra, considerata l’ultima delle guerre di religione che dilaniò protestanti e cattolici nella deflagrazione di una miscela infiammabile di religione e politica, devastò la Germania, ma, alla fine, con il capolavoro diplomatico del Trattato di Westphalia produsse le fondamenta dello Stato moderno. Parimenti, i risvolti delle riedizioni in chiave moderna di quella sventura, impastata con la miscela degli «ismi» del XX secolo, fornì lo spunto ai padri fondatori per creare i presupposti del grande progetto politico Europeo. Che nella voglia generale di ricostruire del dopoguerra, sembrava dar garanzie di sviluppi futuri positivi.

L’evoluzione della Guerra e delle operazioni militari. I grandi mutamenti politico-sociali, la nascita delle Nazioni Unite, le missioni dei Caschi Blu, una nuova cultura promossa dalla mondializzazione degli scambi a tutto campo, e una crescente giurisdizzazione internazionale, hanno ridotto notevolmente la probabilità delle guerre inter-stati e il termine stesso di guerra, che con l’opposto di pace costituisce per dirla alla N. Bobbio «un tipico esempio di antitesi», è stato istituzionalmente condannato e socialmente esorcizzato fino alla rimozione. Ma, come nel passato, il perdurare di tensioni e conflittualità nel mondo reale sempre più mutevole, dimostrano che principi acquisiti, come per esempio, l’intangibilità delle linee confinarie esistenti, incapsulate in tutti gli ordinamenti, sono tutt’altro che scontati.

Prova ne sia il fatto che le dinamiche sociopolitiche presenti nel sistema di Stati del Levante e delle sponde Meridionali, venutosi a determinare un secolo fa, prima sulle ceneri dell’impero Ottomano e poi con il processo di decolonizzazione, ha messo in luce la fragilità di certi modelli statuali posticci di fronte all’erosione degli scenari del post-Guerra Fredda. Senza poi perdere di vista, le percezioni di sicurezza dei perdenti di quella Guerra (la Russia) vis à vis le successive dinamiche sprigionate dalla nuova geografia politica del continente europeo: un senso di accerchiamento di fronte all’allargamento (10) dell’organizzazione Politico-Militare permanente con strutture integrate e armamento pronto all’uso, la NATO.

Non di meno, come già avveniva dai tempi delle guerre dinastiche del Rinascimento e quelle di Religione, già dal secolo XIX e fino a oggi, l’incremento delle relazioni politiche e commerciali e delle interdipendenze, nonché la rivoluzione del digitale, hanno lasciato ampi spazi alle forze positive dello spirito di cooperazione. Esse hanno contribuito alla costruzione del sistema internazionale, attraverso un’architettura quasi-integrata di istituzioni politiche di sicurezza collettiva, e di strutture economico-finanziarie e giuridiche. In effetti, la teoria sociale ha dimostrato che gli esseri umani (sia a livello individuale che di gruppo), sono spinti a cooperare in quanto ritengono che i loro interessi possano essere perseguiti anche cooperando con altri per fini simili o complementari.

In altre parole, il comportamento pro-sociale e perseguimento di interessi non sono in contrasto. Oggi poi, parafrasando un termine coniato a proposito dell’impossibilità di fallire delle grandi Banche, gli Stati del novero dei Grandi (G) sono «troppo grandi per farsi la guerra tradizionale». Sulla sfondo di rapidi mutamenti, si è poi modificata e ampliata la gamma e la geografia delle dinamiche transnazionali, talvolta intrecciate, portatrici di sfide, rischi e persino minacce dichiarate, come quella promossa dalle varie sfumature del fanatismo religioso (islamismo, jihadismo) che persegue fini politici ricorrendo anche al terrorismo. Per cui, come si vedrà in seguito, la dinamica ciclica di guerra e pace ci fa vedere che ci troviamo in un perenne transiente tra i due assoluti. Ne è prova la dialettica a distanza tra il Premier Russo D. Medvedev, che, riferendosi di recente all’attuale contesto ha parlato di «nuova Guerra Fredda», il politologo Ian Bremmer, ha ribattuto parlando, invece, di «pace Rovente» (11).

In definitiva, se non è zuppa è pan bagnato; dunque, resta ancora valida la celebre frase del maître à penser Raymond Aron che fotografava lo stato di stasi con la celebre frase «Paix impossible, guerre improbable». Ma nel mondo contemporaneo, come del resto nel passato, accade anche questo: molti dei patti/trattati, siglati sul filo del rasoio dell’ambiguità, non contemplano casi di crisi perturbanti i già difficili equilibri. A dispetto delle aspettative, gli accadimenti seguono il loro corso, per cui, quando arriva l’imprevisto i nodi vengono al pettine nell’impreparazione generale. Figuriamoci quando questo accade in condizioni estreme di accelerazione del tempo, che sotto l’urgenza delle circostanze contrae la scala della tempistica del processo decisionale, a tutti i livelli.

Condizione quest’ultima che i Latini avevano raffigurato come motus in fine velocior e che Von Clausewitz associava alla nozione di «attrito». Oggi infatti in uno scacchiere chiave, il Mediterraneo Allargato, cerniera di tre continenti e spazio di accumulazione delle relative tensioni e contraddizioni, un tormentone, iniziato con gli auspici delle Primavere Arabe, è evoluto verso una connotazione geopolitica di Risveglio Arabo, risvegliando tuttavia le tensioni settarie latenti. Al punto che oggi si parla di «avvizzimento arabo» (12). L’irruzione, guarda caso, nel crocevia Mediterraneo, di potenze esterne come la Russia, ci riporta indietro a quanto accadde nel 1630 con l’incursione della Svezia nella citata Guerra dei Trenta Anni.

Essa infatti produsse l’internazionalizzazione e politicizzazione del Conflitto, orientandone i fini al contenimento degli Asburgo e mettendo in secondo piano gli aspetti confessionali che l’avevano innescata. Nel frattempo, il bellum canonico delle regole e princìpi che lo hanno in un certo senso addomesticato per controllarne ampiezza e tendenze ascensionali, oggi si presenta in forme ibride, e, con l’aggiunta di attori non statuali, ha perso la sua connotazione militare, dove lo status del combattente è magistralmente descritto nei vangeli come sub potestate constitus (13).

Nel nuovo millennio, e, in particolare, a partire dagli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, replicati una dozzina di anni dopo da un terrorismo militarizzato elusivo e presente anche all’interno delle società vittima, si è venuto a determinare un continuum tra sicurezza interna ed esterna, che implica sinergie tra i relativi apparati, e qualcos’altro.

Oggi quel genere di «militare responsabile », professionista, si trova a confrontarsi nei vari interventi con miliziani, combattenti irregolari improvvisati e delinquenti di ogni risma. Da una lato, la brutalità (14) è divenuta una sorta di leitmotiv spiralizzando, peraltro il fenomeno fuori controllo delle guerre intestine, sempre più uncivil wars (15) dall’altro, l’ossimoro della «guerra umanitaria» dà adito a dubbi sulla maschera delle vere intenzioni, ma non solo (16). Peraltro lo stesso modus operandi non-convenzionale seguito dalle nazioni trainanti che combina l’eccentricità tattica delle Forze speciali con la spregiudicatezza operativa e le tecnologie avanzate (robotica dei droni), mette in risalto la potenziale dicotomia che si viene a determinare in qualche scenario (presenza testimoni locali e rischi delazione) tra etica professionale e successo della missione «coperta».

Il New York Times ha recentemente svelato che l’intervento improvvisato in Libia del 2011 è nato con una sorta di scommessa strategica su un incombente «intervento umanitario», sulla base dell’impegno di un leader dell’opposizione a M. Gheddafi di assicurare «tutte le attività volte a sostenere la democrazia, l’inclusione e l’impianto delle istituzioni libiche (17). Ma, oramai, si guarda al futuro: dopo le storiche decisioni del Senato che ha votato una proposta legge che espone la casa Saudita a reclami legali dalle vittime/loro eredi degli spettacolari attentati dell’11.9.2001 (18) e una legge del Congresso (19) sul blocco degli aiuti militari al Pakistan, l’umore sembra cambiato nei confronti di due storici e, tanto, discussi alleati. Cambio di rotta? Ancora presto a dirlo, ma il segnale è forte e chiaro; per il caso Arabia, si vedrà al Congresso, sorgente vera di politica estera (20).

Anche perché, nel caso specifico, non si può trascurare che la vendita di materiali di armamento americani è stata quintuplicata. Il ripensamento alla base del rebalance della postura militare oltremare (21) nasce anche all’insegna delle alleanze del momento (shifting alliances), situazione questa che pone non pochi problemi al pianificatore operativo. Se vogliamo non c’è nulla di nuovo. Solo che queste pratiche appartenevano alla vecchia Europa; Lord H. Palmerston le aveva sdoganate, affermando, più o meno, che «solo gli interessi nazionali sono eterni».

Ma qui, parafrasando la dote dello staying power nella Contro-Insurrezione, nel caso politico-militare dello spread dell’affidabilità dei legami, la questione appare sotto la prospettiva di steadying power. Le forze del processo di mondializzazione hanno messo in evidenza la profondità strategica degli oceani e con essa la pertinenza della marittimità; di fatto, incremento dei flussi di traffico marittimi, nuove dinamiche nonché attriti di lotta per il potere, collocano un mare sempre più res omnium nelle questioni strategiche (22). La disponibilità di risorse preziose alla vita e mobilità, il volume dei transiti dei flussi transcontinentali di merci (circa l’88% del traffico mondiale (23)), la presenza nelle coste di grandi strutture sensibili, li rende spazi appetibili e, visto che la liquidità del mezzo non consente la definizione di confini, contesi.

E qui, nelle acque calde e fredde, viene a innestarsi una pericolosa competizione per marcare la presenza e il controllo. Le opportunità della nuova era richiedono un ambiente favorevole, la continuità per dei flussi e l’accesso a risorse strategiche; il che non può che derivare dalla messa in opera di un’adeguata cornice di sicurezza. Purtroppo, con la contrazione della presenza delle navi «da guerra» (24) che, per consuetudine riconosciuta dalle varie Convenzioni, sono considerate come rappresentanti privilegiate degli Stati, i mari sono divenuti spazi spesso incontrollati e i vuoti di sicurezza o di capacità degli stati interessati di esercitare la sovranità, sono stati sfruttati per attività illecite di ogni sorta, a partire dall’antica pirateria. Male che, per ironia, la burocrazia della Commissione Europea nel 2008 definì questo storico fenomeno come «una nuova dimensione della criminalità organizzata» (25).

La tanto esaltata Rivoluzione negli Affari Militari (RMA) della diffusione dell’informazione, ha portato a un’ampia «tecnologizzazione» delle operazioni e «non-convenzionalità» di certe tipologie di esse (teleguerra con i droni e robotizzazione in tandem con «forze speciali»), a nuove frontiere (come per esempio lo spazio cibernetico) e, con la comparsa di nuovi attori, a forme di privatizzazione della sicurezza (contractors ecc..), rendendola sempre più come una sortadi business.

Se, da un lato, le nuove tecnologie creano grandi opportunità, dall’altro, si vengono a determinare nuove vulnerabilità da non trascurare. Per altro verso, la cosiddetta «Rivoluzione negli Affari Politici», che dal 2006 ha trasformato il «diritto di ingerenza umanitaria» (26) in «responsabilità di proteggere» (nota con l’acronimo R2P), non ha prodotto granché all’atto pratico: le predette formule, per quanto appetibili, da sole non bastano, e giusti princìpi, come appena detto a proposito dell’intervento in Libia, possono avere un’applicazione impropria.

Qui, le dinamiche di sicurezza si intrecciano con quelle sociali, le finalità possono mutare in corso d’opera e prevalgono le domande senza risposta sul cosa fare dopo la fine dei combattimenti. Nell’intervento all’interno degli Stati per trasformarne il governamento, mentre le dinamiche di sicurezza si intrecciano con quelle sociali proprie dei luoghi, col conseguente rischio di rimanerci coinvolti, senza chiari obiettivi. Per contro, nell’istituto della R2P e della teoria della Contro-Insurrezione, cambiano i paradigmi: in un quadro di condivisione di obiettivi, e di atti coerenti, non c’è spazio per linee d’intervento alla divide et impera, regolazione di conti in sospeso o per tattiche proprie di conflitti convenzionali.

Qui, è di fondamentale importanza perseguire l’unità nazionale e far si che «la vittoria… in sè crudele non possa privare il nemico di ogni speranza» (27), come ha scritto R. Montecuccoli. In altre parole, la legittimità deve andare di pari passo con la legalità, nel più ampio significato del termine. Vale a dire che, in una prospettiva clausewitziana, il concetto operativo alla base dell’impresa deve essere pienamente coerente con le finalità dell’intervento in R2P, come pure lo devono essere gli obiettivi tattici all’interno di esso (in bello). Fermo restando poi che nella predetta «trasformazione politica» del paese assistito, le Forze Armate di sostegno sono una componente, peraltro essenziale, di un’impresa generale al di fuori del loro controllo e portata.

Ma pur sempre una parte: uniquique suum dunque, anche perché, nella confusione dei ruoli, è facile imbarcarsi in «impossible missions». Nella sostanza, il tema della guerra è perenne: sul campo di battaglia è un lotta armata di grandi proporzioni, il cui bilancio di vittime coinvolge sempre più civili: dinamiche securitarie, si intrecciano con tematiche sociali, come la migrazione. La costante evoluzione dell’applicazione tecnologica alle armi, che ha modificato il carattere della realtà fenomenica, ci fa vedere che gli scambi balistici sono passati dalle pietre, alle frecce e giavellotti, poi, con la polvere da sparo e la metallurgia alle armi da fuoco fino ad approdare, nel laissez faire politico, all’impiego, di quella che nelle parole del filosofo Theodore Adorno diventerà la «megabomba», che, a suo dire aveva aperto «possibilità abissali di male» (28).

L’uso di questo strumento della politica e l’applicazione della tecnologia distruttiva delle armi di offesa rientrano dunque in una dimensione etica. Un grande presidente degli Stati Uniti, Dwight Eisenhower, sullo sfondo di un crescente complesso militare-industriale, cui si è opposto, ha dichiarato: «Odio la guerra, come solo un soldato che ha vissuto il possibile, come uno che ha visto la sua brutalità, la sua inutilità, la sua stupidità». Ancor più nel mondo globalizzato e interdipendente, per garantire la sostenibilità ell’ecosistema, occorre che fini politici della ricerca nonché applicazione tecnologica siano ricondotti in un tracciato etico.

Dal canto suo, la superbomba, divenuta, come noto, una sorta di regolatore dei rapporti di potenza, ha cambiato per oltre 50 anni il paradigma della strategia. Ora però, le nuove tecnologie spaziali applicate alla difesa contro missili balistici, facendo intravedere la possibilità di intercettare le ogive nucleari multiple ad altissima quota (29), mettono in risalto le prestazioni delle difese attive. Se oltre un secolo fa la prevalenza dell’aggregato delle armi difensive riuscì ad arrestare le manovre strategiche terrestri, oggi la prevalenza delle strategie di interdizione potrebbe mettere in secondo piano il fattore datato della deterrenza, o dissuasione, che, tutto sommato, ha sinora funzionato.

In effetti sotto i nostri occhi si sta schiudendo una nuova era del nucleare, carica di sfide e rischi. Nel quarto di secolo trascorso dal termine della Guerra Fredda, si è passati dai nobili (sic), e costosi, fini di fattore di «prevenzione della guerra», in grado di dissuadere avventure belliche basate su scommesse strategiche, alla corsa a uno strumento sia equalizzatore e, al contempo, simbolo della sfida per la cosiddetta Comunità Internazionale (IC). Questa nuova formulazione, che sostituisce la precedente di «sistema internazionale», riflette le dinamiche di vari tentativi di fornire un quadro di riferimento alla politica internazionale, al fine di garantire il governamento globale.

Tuttavia, mancando le regole e le linee guida rigorose, essa non si è rivelata in grado di gestire, figuriamoci poi controllare, le gravi crisi regionali e i conflitti irregolari dell’asimmetria. Senza poi perdere di vista i rischi del passaggio dei rapporti di potenza dagli equilibri numerici della deterrenza (o dissuasione) alla correlazione tra le dinamiche della corsa alla postura militare d’interdizione e la ricaduta sull’architettura dei vari trattati, come, ma non solo, quelli relativi alla Non-Proliferazione (NPT) e al bando sugli esperimenti nucleari (CTBT).

 Si possono dimostrare i limiti della teoria di Von Clausewitz? Come ci ricorda lo storico Christian Malis, l’icona francese del pensiero militare Jacques de Guibert, scrisse che «la vera perfezione dell’arte della guerra è quella di rendere la difesa più forte dell’offesa, dal momento che protegge le nazioni dalla (tentazione di) invadersi reciprocamente» (30). A parte l’inevitabile corsa agli armamenti, possono anche aumentare i rischi di abbagli nell’apprezzamento dell’avversario; anche se, per altro verso, non si può escludere che la paura degli effetti di massa possa ancora esercitare il suo potere.

La soglia del nucleare trascende i livelli operativi: una volta superata, nell’immaginario collettivo non è più una questione di potenza di resa dell’arma. Siamo dunque al punto e a capo. Quel che appare certo però è la constatazione che sin dall’esordio della teoria strategica, da Sun Tzu ai tempi nostri, in una continuità di pensiero che trascende le dimensioni spazio-temporali, i capi militari non hanno mai smesso di sottolinearne i lati oscuri del fenomeno e di trattarlo come atto serio ed estremo. Come diceva W. Chrurchill, sui politici «essi devono capire… avere l’abilità di anticipare quello che succederà domani, tra una settimana, il prossimo mese, e avere l’abilità di spiegare perché non è accaduto» (31).

Le riflessioni del presidente Obama sulla realtà attuale di caos e di guerra in Medio Oriente, che, quasi a togliersi qualche sassolino dalle scarpe, puntano il dito contro «portoghesi (free riders)», che o non adempiono agli impegni (ndr, tra cui quelli conseguenti all’invocazione della R2P per il citato intervento in Libia, spinto da Francia e Regno Unito), o non sono ancora in grado di «condividere il vicinato e istituire una sorta di pace fredda» (come i perenni «duellanti» dell’omonimo film di Ridley Scott, Arabia Saudita e l’Iran), sono la cartina di tornasole dello stato di confusione che regna nella politica internazionale. Questo riflette la dicotomia ricorrente nelle Relazioni Internazionali tra il diritto e la giustizia, tra interessi nazionali e interessi della comunità delle nazioni, come una vasta aneddotica ci ricorda.

Oggi, nella deregulation delle relazioni, la citata formula di Aron dovrebbe essere modificata in «paix impossible, guerre probable». Il che ci riporta al nostro punto di partenza, all’insegna di Von Clausewitz, il cui teorema ruotava sulla constatazione che «la politica è il grembo in cui si sviluppa la guerra» (32). Di fronte alla misera realtà di un sistema internazionale affetto da crisi sistemica, dove i Grandi e gli aspiranti tali non sono riusciti a emanciparsi dagli interessi di parte, il vecchio saggio H. Kissinger, che di crisi se ne intende, sostiene che, «l’obiettivo della nostra era è quello di trovare un equilibrio, tenendo a freno i mastini della guerra» (33).

È una chiosa non dissimile, da quella fatta molti anni prima dal citato Michael Walzer, che concludeva la sua opera seminale osservando che la «restrizione all’uso della guerra è l’inizio della pace» (34). I due politologi contemporanei, da buoni realisti, intravedono dunque la via d’uscita alla drammatica bagarre di contrapposizioni di ogni sorta e alla «nebbia» strategica, sempre di clausewitziana memoria, nell’idea di un vero governamento mondiale; idea che, tradotta dal linguaggio felpato della Politica a quello «operativo» della Strategia, di cui quest’ultima è l’espressione dinamica, comporta meno interesse di parte e più condivisione.

In questo campo le teorie non sono assolute. Si basano sulla realtà che dipende dalle circostanze e dalle persone: quindi hanno dei limiti. Cambiando cultura in senso comunitario, si potrebbe allora constatare, con una logica controfattuale alla tesi Clausewitziana, che «la guerra non è la continuazione della politica con la combinazione di altri mezzi». Teoricamente questo suonerebbe da vaticinio, dato che il percorso storico dell’essere umano lo colloca nella categoria delle note ipotetiche di terzo tipo (ovvero impossibili).

In effetti le scienze sociali rientrano nel novero delle sciences molles, ovvero non esatte. La corrispondenza telegrafica intercorsa «i cugini imperiali» (35) di Germania, Russia e Gran Bretagna, anche a causa di false impressioni dei loro governi e vertici militari, non evitò lo scoppio delle ostilità nell’agosto del 1914.

Ma oggi molte cose sono cambiate. Intanto nell’intreccio dei legami internazionali poi, col passaggio dalle masse alle società della connessione istantanea globale (36), si assiste a repentine trasformazioni nella sfera socio-antropologica. In effetti, le stesse società sono cambiate: con le alterazioni sociali indotte dalle dinamiche transnazionali, hanno perso l’impronta quasi monolitica celebrata nella teoria clausewitziana della guerra trinitaria; sfiducia verso le classi dirigenti dei partiti tradizionali e, in Europa, avversione marcata alla burocrazia comunitaria, si combinano con l’avversione alla retorica del politically correct.

Purtroppo, incertezze, ambiguità e «guerra a pezzi» si verificano in concomitanza con la crisi sistemica in atto nelle Relazioni Internazionali, riconducibile alla «paralisi globale» (37), che affligge il Consiglio di Sicurezza (condizione questa non prevista dalla Carta), nel pieno svolgimento di numerose missioni militari, marittime e terrestri, cui partecipa attivamente anche in nostro paese. Queste ultime ci ricordano che l’azione militare, combinata all’azione soft della diplomazia e dell’economia, resta una componente importante della sicurezza. In questo vuoto di governance planetaria, forme irregolari di perseguimento di obiettivi strategici si intrecciano con i numerosi conflitti, che affliggono il pianeta.

Come scrive Jean Marie Guéhenno, «l’abbrivio è della guerra e non della pace» (38). La guerra senza limiti e in spregio delle regole, è un fatto abitudinario, una norma. Nelfrattempo l’Occidente e, in particolare la debole Unione Europea si trova a un punto di svolta della storia: come riporta il famoso istituto SIPRI di Stoccolma, a partire dal 2012, le spese militari complessive dell’Asia hanno superato quelle europee. Nel 2014, la spesa militare in Asia si attesta sui 344.000.000.000 $, contro 286 miliardi per l’Europa (39). E non c’è dubbio che questo dato costituisce un elemento di riflessione strategica per il futuro: nelle aree «calde» di tensione aumentano i rischi della militarizzazione della politica.

Ma, a similitudine dell’antica guerriglia, la recente asimmetria, ha messo in risalto i limiti della componente regolare con le sue macchine tecnologiche e le manovre; qui la comunicazione mediatica, diventa cruciale nella dimensione dei «cuori e delle anime», che si rivela un altro fronte da vincere, anche a casa. Senza poi perdere di vista le sfide di quella dimensione dei bits, che offre grandi vantaggi e presta il fianco a vulnerabilità da tenere sotto controllo. Nelle more del concerto mondiale auspicato da H. Kissinger, Papa Francesco, a sorpresa, propone un sinodo sulla Pace, mentre a Istanbul si apre il primo vertice umanitario mondiale(40). Nel tempo dei nazionalismi etnico-confessionali e delle contrapposizioni a tutto campo, il Papa propone «coalizioni, ma non quelle tradizionali politico-militari, bensì “culturali educative, filosofiche, religiose… per la pace”».

La sua ricetta: «armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro» (41) evitando inefficaci trinceramenti. Di fronte a una nuova epoca, perché alla fin fine di questo si tratta, anche B. Obama, a Hiroshima, nella duplice veste di Presidente e premio Nobel, parlando di «risveglio morale» (42), si unisce ai saggi che chiedono un cambiamento culturale, quel «nuovo umanesimo» invocato da Papa Francesco. Riuscirà l’insieme delle predette iniziative, che sa di ultima spiaggia, a scuotere le coscienze? In questa prospettiva, un vecchio e crudele istituto potrà finalmente scendere la Cour des adieux? Sarà la fine delle manovre oscure internazionali?

Se ciò accadesse, e questo è davvero un grande se, la Bismarchiana «corrente della storia» si ripeterà? Una prima risposta provocativa sarebbe quella di provare con i fatti, e in antitesi a Clausewitz, che «la guerra è la discontinuità della politica con il ricorso ad altri mezzi». Per esempio, con un rifiuto generale della guerra, da recepire in ogni ordinamento nazionale, a similitudine di quanto fatto dai Padri Costituenti con l’articolo 11 della nostra Costituzione (43). Sarebbe una sorta di normalizzazione dell’azione esterna degli Stati in linea con quelle tendenze omologanti di quello strano equalizzatore che è la globalizzazione.

Ma questa è teoria astratta. In effetti, come diceva realisticamente André Malraux, «l’uomo è innanzitutto ciò che fa» e, visto il tacitiano repetendum videtur, aggiungo, continua a fare. Mi si potrà solo obiettare che la storia, a differenza degli storici, non si ripete allo stesso modo. 

NOTE

(1) Vedi Saggio Autore «Guerra e Politica», Rivista Informazioni Difesa 1-2013.

(2) Bernard Montgomery, «Storia delle Guerre», Rizzoli editore Milano 1970, pag. 23.

(3) Diversi autori, tra cui John Keegan, riferendosi al testo originario tedesco («mit einmishung anderer mittel»), forniscono l’interpretazione sopra riportata. Nel

mondo anglosassone si fa riferimento alla traduzione di Peter Paret; peraltro, molti colleghi tedeschi mi hanno confermato di farlo anche loro, in particolare in quei

passaggi critici che il linguaggio convoluto rende difficoltosi da comprendere. Del resto, la formulazione sopra riportata rende comprensibile il concetto della continua

presenza della politica-diplomazia «in bello».

(4) Ambrose Bierce, «The Unabridged Devil’s Dictionary», Feather Trail Press riprod. 2009, pag. 35-73.

(5) Tucidide, «La guerra del Peloponneso», Edizione a cura di Luciano Canfora, Einaudi Gallimard, Parigi 1996, pag. 179.

(6) Marco Tullio Cicerone, «Laelius sive De Amicitia Dialogus», XII.

(7) Quincy Wright, «Study of War», University of Chicago 1965.

(8) Evan Luard, «War in International Society», I. B. Tauris & Co Ltd, London 1986, pag. 6.

(9) Http://www.bvoltaire.fr/paulmariecouteaux/la-grande-guerre-ouverte-en-1914-dure-30-ans,40936. Une nouvelle «guerre de Trente Ans allant de 1914 à 1945».

Secondo l’autore, Paul Marie Couteaux, il Generale, concentrandosi sull’imperialismo germanico, intendeva «superare la colorazione politica che socialisti e comunisti

intendevano dare alla “resistenza” al nazismo».

(10) Sottolineo «allargamento» e non «espansione» in relazione al fatto che ciò è avvenuto in esito a decisione di stati sovrani.

(11) Ian Bremmer, Mai più Guerra Fredda, c’é una pace rovente sulla scena mondiale, CorSera, 5 Marzo 2016.

(12) Roger Cohen, «The Arab withering», NYT May 12, 2016.

(13) San Matteo, cap 8, 7-8, «homo sum sub potestate constitutus, habens sub me milites».

(14) A. Bierce, citato «The Unabridged Devil’s Dictionary», «Inhumanity, One of the signal and characteristic qualities of humanity».

http://www.amerlit.com/humor/HUMOR%20Bierce,%20quotations.pdf.

(15) Vedasi saggio autore, La terza Guerra mondiale a pezzi e la bagarre multipolare, Rivista Marittima, luglio-agosto 2015.

(16) Basta vedere le condizioni da rispettare per l’esercizio di una corretta pratica di R2P: just cause, right intention, right authority (reminiscenze della teoria tomistica

della Guerra Giusta, e last resort, proportional means and reasonable prospects, esplicitano quanto già previsto in termini di Dottrina della Chiesa Romana.

(17) Jo Baker and Scott Shane, «Hillary Clinton “Smart Power” and a dictator’s fall», NYT, feb. 27 2016. L’accusa rivoltale, tra l’altro è quella di non essersi domandata

se quel Consiglio di Transizione rappresentasse davvero un paese lacerato o una regione e se ci fosse un piano per il dopo. Ne derivò «una decisione affrettata per

entrare in guerra» in una «shadow of uncertainty». Nel contempo Francia e Gran Bretagna «were pushing hard for a Security Council vote». La missione si sposterà

verso il «regime change» e alla notizia della morte del rais pare che essa, parafrasando Cesare, abbia osservato, cinicamente «we came, we saw, he died». Purtroppo

non succede nulla di quanto promesso. «Le milizie non accettano di disarmare, i vicini alimentano una guerra civile e lo Stato Islamico vi trova rifugio».

(18) Mark Mazzetti, Senate passes Bill exposing Saudi Arabia to 9/11 legal claims, NYT May 17, 2016.

(19) National Defence Authorisation Act 2017.

(20) Charles W. Kegley Eugene R. Wittkopf, «American Foreign Policy»,4th Ed., S.Martin Press, New York, 1991, pag 406. Viene ricordato il noto detto, che Les

Aspin ha sintetizzato come «The president proposes, Congress disposes».

(21) Vedasi saggio autore, Riflessioni sul Mediterraneo ai tempi del Califfo, Rivista Marittima, Marzo 2016.

(22) Invero Raymond Aron, osservando che, nel mondo che si stava schiudendo, «le linee di comunicazione e, per lo stesso motivo, quelle strategiche, non sono

più quelle di ieri… il mare appartiene a tutti… anche l’aria, a causa dei satelliti», Paix et Guerre entre les Nations, Calman Levy, ottava ed. Parigi 1992, pag 214.

(23) L’eventuale apertura delle rotte artiche, appare come una speranza legata alle prospettive del riscaldamento termico nel quadro dei cambiamenti climatici.

L’apertura delle rotte dovrà peraltro esser accompagnata da strutture per la sicurezza marittima come il SAR ecc…

(24) Vedasi saggio autore, Strategie di Sicurezza e Cultura Marittima, Tecnologia Trasporti Mare, gennaio 2011-052.

(25) Www.satcen.europa.eu/key_documents/report%20on%20the%20implementation%20of%20the%20ess.pdf, pag 8.

(26) Http://www.diploweb.com/Le-principe-juridique-d-ingerence.html. Nasce con richiami di Henry Lévy e del movimento dei Médicins sans Frontières (che elabora

«la giustificazione filosofica attraverso l’idea di una nuova morale delle Relazioni Internazionali».

(27) Raimondo Montecuccoli, «Delle Battaglie, Primo Trattato», Ufficio Storico SME, Volume II. Roma 2000, pag. 100-109.

(28) Frase citata dal Santo Padre, www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/articoli/articolo390334.shtml.

(29) Nella tecnologia hit to kill, restano ancora da risolvere i nodi delle false testate (esche), che non assicurano la certezza di discriminazione degli ordigni veri da

quelli fasulli.

(30) Christian Malis, «Guerre et Stratégie», Fayard, 2014, pag. 116.

(31) Http://www.brainyquote.com/quotes/quotes/w/winstonchu135267.html#opXKv5RJPICdgIfW.99.

(32) Karl von Clausewitz, translated by Peter Paret, Book III, Chapt 3, «Everyman’s Library», Princeton University Press, 1979, pag. 173.

(33) Henry Kissinger, «World Order», Penguin Books, London, 2014, pag. 374.

(34) Michael Walzer, «Just and Unjust Wars», third Ed., Basic Books, New York 2000, pag. 335.

(35) C. L. Moway (a cura di) «Storia del mondo Moderno», Cambridge University Press, Garzanti, 1972, Vol XII, pag. 189.

(36) Joseph Nye (Soft Power) riporta che, nel 2014, 1/3 della popolazione globale è interconnesso mentre nel 2020 egli ne prevede 2/3, all’incirca 5 miliardi.

(37) Vedasi saggio autore, «The Mediterranean Dilemma, Containing or confronting ongoing Conflicts», Special Issue CeMiSS, CASD Roma, febbraio 2016.

(38) Http://foreignpolicy.com/2016/01/03/10-conflicts-to-watch-in-2016/.

(39) Http://www.sipri.org/research/armaments/milex/milex_database.

(40) 23 maggio 2016. Sotto gli auspici delle NU, con l’obiettivo di «prevenire e ridurre la sofferenza umana» in quella che viene definita «la più grande crisi umanitaria dei

nostri tempi». Www.worldhumanitariansummit.org. La più nota organizzazione Médicins san Frontiers ha disertato l’evento definito come a «fig-leaf of good intentions»

(http://www.msf.org/en/article/msf-pull-out-world-humanitarian-summit) anche in relazione al bombardamento di 75 suoi ospedali, anche da parte forze governative.

(41) Andrea Riccardi, L’Alleanza del Papa per un’Europa Nuova, CorSera 7 Maggio 2016.

(42) Ibidem.

(43) Che nella continuità dell’enunciato lascia aperta la porta alle operazioni per la Pace delle Organizzazioni Internazionali.

(*) Ammiraglio di squadra in riserva, laureato in Scienze Marittime e navali, in Scienze delle Relazioni Internazionali presso lEUniversita di Trieste, ha successivamente conseguito un master in strategia delle risorse nazionali presso la National Defense University di Washington DC e la Specializzazione superiore in sistemi di Artiglieria e Missili DT.S. Ha effettuato il comando dellEIncrociatore Vittorio Veneto, Fregata Sagittario, Dragamine Oceanico Storione ed e stato Capo Ufficio Nuove Costruzioni di Maristat e Capo dipartimento Politica delle Alleanze-Pianificazione Strategica-Controllo Armamenti. Si occupa di affari internazionali dal 1998, come assistente del Capo di SMD, e in seguito, assistente del Presidente del Comitato Militare della NATO. Opinionista e conferenziere su questioni relative alla sicurezza, collabora per diversi giornali e riviste a livello nazionale e internazionale. Attualmente e titolare della cattedra di Politica Militare presso il Centro Alti Studi Difesa di Roma nonche conferenziere presso il NATO Defense College. ˚ membro dell’Istituto Internazionale di Diritto Umanitario di Sanremo e collabora con la Rivista Marittima dal 1999.

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