Kurdistan, sotto il tallone di Erdogan. Urbicidio a Sur – Diyarbakır [di Mireille Senn]
Eddyburg.it 21 Luglio 2016. Ampia e documentata illustrazione del processo di distruzione di un popolo, una nazione, una città e un immenso patrimonio storico che sta avvenendo in quello stato tiranno e omicida cui l’Europa, gli Usa e la Nato hanno affidato il ruolo di “bastione della civiltà occidentale.” Insieme, una richiesta di sostegno a chi tenacemente resiste Dall’inizio del 2015, la Turchia conosce una recrudescenza della violenza in tutto il paese. Atti di terrorismo e repressione poliziesca e militare si sono moltiplicati e hanno interrotto le fragili trattative di pace con i rappresentanti curdi. Queste erano state avviate nell’ autunno 2012 dal governo islamo-conservatore turco per tentare di porre fine ad una ribellione persistente nel sud-est del paese. La guerra in Siria e la fuga dei rifugiati, i successi dei combattenti curdi in Iraq e nel Rojava alla frontiera siriana con la Turchia, l’accordo sul programma nucleare iraniano e l’autoritarismo del presidente Recep Tayyip Erdoğan fanno parte delle spiegazione alla crescita delle tensioni fino ad oggi. Il clima delle elezioni legislative di giugno e di quelle anticipate di novembre 2015 è stato segnato da attacchi alla stampa dell’opposizione da parte del governo AKP [1], e alle sede del partito filocurdo HDP [2] da partigiani del presidente o dai nazionalisti del MHP [3] di estrema destra. Nell’estate 2015, attentati commessi in Turchia dal gruppo Stato islamico, e altri commessi dal PKK [4] contro poliziotti e militari in ritorsione all’attitude al meno tollerante del governo turco verso i jihadisti islamici di Daech e dell’ISIS si sono susseguiti. In risposta, alla fine di luglio, l’aviazione militare turca ha iniziato dei bombardamenti sulle basi dei jihadisti in Siria, ma anche su quelle del PKK nel nord dell’Irak, rompendo la tregua che durava dal 2013. “L’aumento delle misure di sicurezze al confine siriano” – come dichiarato dall’allora Primo Ministro Ahmet Davutoğl – ha incluso anche l’imposizione di coprifuochi in diverse città curde: Cizre, Silopi, e nel quartiere di Sur a Diyarbakır già dall’inizio di settembre 2015. L’attentato di Ankara del 10 ottobre 2015, che ha colpito i partecipanti a una marcia per la pace organizzata dai sindacati di sinistra e dal HDP ha cristalizzato ancora di più le posizioni degli oppositori al governo. Da allora, veri e propri atti di guerra fra le forze di sicurezza turche e i gruppi armati che operano nella regione si sono svolti a porte chiuse : nell’ambito delle cosidette operazioni di sicurezza, sono stati officialmente confermati 65 coprifuochi “24 ore su 24” per una durata senza scadenza che ha variato da alcuni giorni a diverse settimane e persino a vari mesi. Le conseguenze sulle popolazioni locali sono state particolarmente pesanti : secondo i dati raccolti dalla Fondazione per i Diritti Umani di Turchia, da gennaio alla metà di aprile 2016, sono stati uccisi dalle forze dello stato turco nella regione curda 353 civili e feriti 246 (senza contare le centinaie di militanti armati e di soldati caduti nei combattimenti). Attacate con armi pesanti, numerose città del Kurdistan sono state severamente danneggiate. L’ampiezza delle destruzione delle città si sono rivelate quando i coprifuochi sono stati revocati. Ma la fine degli scontri armati non significa il ritorno alla pace per gli abitanti dei quartieri danneggiati : è cominciata oramai la lotta contro la gentrificazione e l’urbicidio voluti dal governo del onnipotente Erdoğan. Diyarbakır, città millenaria sulla lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco. Diyarbakır (chiamata anche Amed dai curdi) è una città del sud-est della Turchia con una populazione di più di un millione e mezzo di abitanti. È considerata dai Curdi la capitale del Kurdistan turco. Il distretto di Sur, situato su un altopiano basaltico al di sopra il fiume Tigri, è la parte di città storica intra-muros di Diyarbakır. Alcuni storici fanno risalire la prima colonia sul Monte Amida a 5000 anni avanti Cristo, e attribuiscono la prima struttura di fortezza agli Hurriti circa 3000 a.C.. Chiamata Amida nell’Antichità, fu capitale del regno arameo di Bet-Zamani nel XIII secolo a.C. Data la sua posizione geostrategica all’intersezione dell’Ovest e dell’Est, era già la principale piazzaforte della Mesopotamia nel IV secolo a.C. Dal II secolo a.C. al II secolo dopo Cristo fu una delle città maggiore del Regno d’Armenia. La regione diventò in seguito una provincia dell’Impero Romano e nel IV secolo fu una fortezza frontaliera nella valle superiore del Tigri, posta sotto assedio e presa della forze dell’Impero persiano dei Sassanidi. Dal XI al XII secolo fu sottomessa alla dinastia curda dei Marwanidi per poi passare sotto l’autorità dei Turchi Oghuz. Diyarbakır fu integrata all’Impero Ottomano nel 1534 e dopo un’annessione temporanea dall’Impero persiano Safavide, tornò sotto la Sublime Porta e diventò capoluogo del vilayet di Diyabakir nel 1864. La storia di Amida è anche un susseguirsi di influenze religiose: centro religioso legato al patriarcato siriaco-ortodosso di Antiochia, fu in seguito sede del partriacato della Chiesa cattolica caldea dalla fine del XVII secolo all’inizio del XIX secolo, e fino ai massacri che iniziarono alla fine del XIX secolo e che culminarono nel 1915, la regione era densamente popolata da Armeni e da diverse altre minoranze cristiane. Se l’antica Amida prese la forma di una cittadella, dopo la Prima Guerra Mondiale e l’avvenimento della giovane Repubblica turca, la combinazione fra il bisogno di spazi dove costruire i nuovi edifici pubblici, la creazione della rete ferroviaria (che portava in se la speranza di uno sviluppo economica per la città), e l’edificazione di case e di caserme per l’esercito e il personale dell’amministrazione spinsero l’insediamento degli abitanti al di fuori della mura. Nel 1930, il Governatore Nizamettin Efendi mandò giù pezzi di muraglie nelle parte nord e sud della fortezza per dare aria alla città storica : nuove strade furono create che prolungarono l’asse di scambio tradizionale interno. Il quartiere interno alle mura fu chiamato Suriçi (sur = mura e iç = dentro), detto anche Sur. Con l’apertura e l’espansione della città, i proprietari delle case della parte storica cambiarono : i nuovi migranti delle zone rurali sostituirono gli abitanti più abbienti che andarono ad abitare nei nuovi quartieri. Un’altra parte della popolazione rurale si installò in baraccopoli con piccoli giardini nell’area compresa tra le case tradizionali e le mura della città. Dagli anni 1960, lo sviluppo urbano proseguò e si estendò al nord-est della città, sulla pianura. La città si costruì sulla trama di un piano ortogonale, ritmato da viale che prolongarono le breccie della città intramuros; strade secondarie servono di limiti a grandi isolotti dove grande torri sorgessero. Negli anni 1980-90, la città conobbe una vera e propria esplosione urbana. Il conflitto armato, opponendo lo Stato turco al PKK nelle montagne dell’est e del sud-ovest della Turchia, diventò molto forte, constringendo la popolazione rurale ad un esodo verso le grandi città del paese. Diyarbakır tornò ad essere città di rifugio e i quartieri di Bağlar (all’ovest di Yenişehir), di Fiskaya e di Ben-U-Sen emergessero ai confini del tessuto urbano. La forma urbana rimase la stessa di quella iniziata negli anni 1960 e la forma architettonica declinò all’infinito degli ettari di torri alte dagli 8 ai 15 piani, interrotti da isolotti di gated communities per le classi sociali più ricche. Sur si ritrovò a dover accogliere una parte di questi arrivi massicci e venne densificato al massimo: le case tradizionali di basalto furono consolidate e sopraelevate, nuove case aggiunte al tessuto già denso. Dall’inizio degli anni 2000, la maggior parte delle famiglie solvibili o abbienti lasciarono Sur e andarono ad abitare nei condomini e nelle residenze chiuse degli quartieri più in vista della città in continua espansione. Queste traiettorie residenziali hanno reso Sur un distretto uniformemente povero. Diyarbakır continua ad estendersi al di fuori delle muraglie antiche, spinta verso nord-ovest dalla valle del Tigri e dall’aeroporto militare che chiudono ogni possibilità di estensione altrove. La straordinaria storia di questa città multiconfessionale ha lasciato un patrimonio architettonico molto ricco – muro di cinta quasi intero, chiese e moschee, caravanserragli, antiche case – che venne riconosciuto di interesse mondiale col l’iscrizione sulla Lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco il 4 luglio 2015 come Paesaggio culturale della fortezza di Diyarbakır e dei Giardini dell’Hevsel. Le muraglie e le sue torre storiche vengono ormai protette in quanto classificate “sito urbano“, l’Içkale (la fortezza) di Amida in quanto “sito archeologico di prima classe” e due zone tampone vengono delineate, una esterna alle mura, l’altra essendo costituita dal distretto di Sur. Il contesto politico L’HDP è alla testa della municipalità metropolitana di Diyarbakır dal 2009. Da allora, è riuscita a menare un’azione politica volontaristica con l’apertura di centri sociali o culturali per gli abitanti, insistando sul passato multiconfessionale e multiculturale, ma anche sul carattere profondamente curdo della città. Pezzi del patrimonio non-musulmano (come la chiesa di San Ciriaco) sono stati rinnovati, anche se le communità contano ormai solo alcune famiglie. Una nuova generazione di uomini politici e di responsabili di associazioni e organizzazioni non statali, che non hanno vissuto la lotta armata, ha vivacizzato una società civile diventata intraprendente. L’iscrizione della città al patrimonio dell’Unesco in 2015 è stata una tappa importante di questo percorso. All’inizio del 2014, i tre cantoni di Rojava (Afrine, Kobane e Jazire, nel Kurdistan siriano) annunciarono la creazione di una regione federale nelle zone sotto il loro controllo nel nord della Siria. La federazione in comuni autonomi e l’adozione di un contratto sociale che stabilì una democrazia diretta e una gestione egalitaria delle risorse sulla base di assemblee popolari costituì una speranza per i Curdi della Turchia che seguono con attenzione la situazione dall’altra parte della frontiera. Il progetto politico del PYD [5] è quello di un confederalismo democratico con strutture federative e auto-organizativi per permettere l’organizzarsi di una società plurale in maniera più equa a tutti i livelli. Cioè l’antitesi dei principì fondatori della Stato turco nazionalista e patriarcale incarnato oggi dal l’AKP del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Anzi, il governo turco è stato accusato a diverse riprese di sostenere i jihadisti contro i combattenti curdi del YPG [6] – il braccio armato del PYD – al fine di indebollire l’autonomia curda in Siria: anche quando l’esercito turco ebbe in linea di mira diretta i combattenti dello Stato islamico, non fece nulla per respingerli. Durante l’occupazione di Kobane da parte dell’ISIS, il presidente Erdoğan aveva posto le condizioni per il suo sostegno ai resistenti curdi: creare una zona cuscinetto nel nord della Siria (sostanzialmente un’occupazione turca); l’unione dei curdi con l’opposizione araba siriana, e la presa di distanza del PYD dal PKK. Termini che sono stati respinti dai curdi del Rojava in quanto inaccettabili. Nell’ ottobre 2014, manifestazioni di sostegno a Kobane e di protesta contro l’inazione turca si sono tenute in tutto il paese e hanno dovuto far fronte agli interventi violenti delle forze dell’ordine turche. A mettere olio sul fuoco, le dichiarazioni dei rappresentanti dello Stato che presentarono l’YPG come un’organizzazione più pericolosa che l’ISIS. Le ripresaglie contro la polizia e i militari da parte di militanti pro-curdi si molteplicarono, a cui le forze di sicurezza turche risposero a loro volta. L’ingranaggio della violenza era di nuovo in atto, ma la speranza di trovare delle soluzioni pacifiche non era ancora svanita. Il 26 gennaio 2015, arrivò l’annuncio della liberazione di Kobane. Le forze curde, con l’aiuto della coalizione sotto commando americano, hanno ripreso la città sotto assedio da più da 4 mesi dai jihadisti dello Stato islamico. Lo stesso giorno, la Turchia ha aperto il più grande campo per i profughi siriani a Suruç, a pochi chilometri di Kobane da dove sono arrivati circa 200 mila rifugiati. Come in altre città curde, migliaia di persone si sono radunate nella città di frontiera per festeggiare la vittoria su Daech ma anche per tentare di raggiungere la città siriana ormai liberata. Vengono fermate dalle forze di sicurezza turche che disperdono la folla. Il 28 febbraio 2015, la stampa nazionale e internazionale annunciò la rilancia dei negoziati con i ribelli curdi del PKK. “La Turchia è più vicina che mai dalla pace” – rilasciarono, ottimisti, i deputati del partito HDP all’uscita dell’incontro col vice-Primo ministro, Yalçın Akdoğan, al palazzo di Dolmabahçe. La riunione diede luogo ad una dichiarazione congiunta storica e alla lettura di un messaggio del capo del PKK, Abdullah Öcalan, che lancia alle sue truppe, dalla sua prigione, un appello a deporre le armi. Se, in un primo tempo, il presidente Erdoğan qualificò l’appello di “molto importante“, appena alcuni giorni dopo prese le sue distanze da l’iniziativa. L’avvicinamento delle elezioni di giugno non fu estraneo a questo fatto : per non perdere voti, Erdoğan non vuole mettere la questione curda al centro del dibattito politico. Al contrario, il presidente turco si lanciò nella campagna elettorale – malgrado la neutralità richiesta dalla sua funzione – enfantizzando una polarizzazione della società sul modo del bene contro il male: laici contro religiosi, alevi contro sunniti, Curdi contre Turchi. Violenza di discorso che finì per tradursi sul terreno. Gli attacchi agli candidati e alle sede del partito filo-curdo HDP si ripeterono. Malgrado le intimidazioni, i risultati delle elezioni vedono l’entrata storica in parlamento del’HDP che oltrepassa la soglia dei 10% imposta ai partiti per entrare in camera, e la fine della maggioranza assoluta per l’AKP. Il 22 agosto, passato il termine di 45 giorni previsto dalla legge, l’AKP non avendo trovato nessuna coalizione con gli altri partiti, Erdoğan convocò elezioni anticipate per l’inizio di novembre 2015. Nel frattempo, la violenza era esplosa sopratutto nel sud et nel sud-est del paese. Il 20 luglio 2015, 32 volontari della Federazione delle associazioni dei giovani socialisti venuti a Suruç per partecipare alla ricostruzione di Kobane sono uccisi in un attentato attribuito all’ISIS. Il giorno dopo, in tutte le città del paese, manifestazioni furono organizzate dalle organizzazioni di sinistra. Ovunque si sentirono le grida di accusa al governo turco per complicità con i combattenti islamici radicali. Il 22 luglio, il PKK rivendicò la morte a Ceylanpinar di due poliziotti in rappresaglia alla morte dei giovani di Suruç. Il 24 luglio, la polizia turca lanciò una vasta operazione antiterrorista in 13 provincie, e l’aviazione militare turca colpì le posizioni dell’ISIS nel nord della Siria, approfitando dell’occasione per effettuare anche dei raid contro il Kurdistan irakeno e i campi del PKK. Quest’ultimo dichiarò allora la fine del cessate il fuoco in vigore da due anni. Così, nel momento in cui l’HDP guadagnava legitimità col suo risultato alle elezioni di giugno, la ribellione curda cadeva nella trappola tesa dall’AKP, quella del ricorso alla violenza. La retorica usata da Erdoğan e dal suo Primo ministro che presentò l’HDP come succursale del PKK fece strada. L’AKP vinse le elezioni di novembre 2015 col 49,3% dei voti: abbastanza per governare da solo ma non per modificare la Costituzione. Dichiarando “la guerra fino in fondo” contro i ribelli curdi e bombardando le loro posizioni in Turchia e nel nord dell’Irak, Erdoğan aveva trovato la simpatia della destra nazionalista, fortemente opposta a ogni concessione verso la minorità curda. Fra il 7 giugno e il 1 novembre 2015, l’HDP perse un milione di voti ma riuscì comunque a mantenersi al Parlamento con il 10,4% dei voti e 56 deputati. Tra l’autunno e l’inverno 2015, la ripresa della repressione da parte delle truppe turche incitò gruppi di giovani curdi alla guerigla urbana. Le vittorie dei combattenti curdi nel Rojava in Siria hanno ispirato questa generazione che vive nel mito della guerilla e del sacrificio dei suoi genitori e hanno aumentato le loro aspirazioni all’autonomia e all’autogestione del Kurdistan. Aggiunta la mancanza di prospettive di futuro, si capisce che sono stati spinti ha vivere il “loro” Kobane, fosse lanciandosi in combattimenti nelle città con discutibile pertinenza strategica, a meno che sia stata sacrificiale. Un centinaio di giovani guerriglieri curdi scavarono trincee e proclamarono l’indipendenza del quartiere, ma non ottennero il sostegno della popolazione. Se gli abitanti di Sur avevano votato in modo massiccio per l’HDP (più del 70%) la loro aspirazione a vivere in pace non li resero pronti alla rivolta popolare sperata dai giovani guerriglieri, anche dopo il succedersi dei coprifuochi dettate dalle forze di sicurezza turche nelle zone all’Est del distretto. Le forze armate di Stato che avevano di fronte a loro piccoli gruppi di combattenti per la maggior parte dilettanti che avrebberò pottuto vincere in poco tempo. Ma sembra che abbiano fatto durare gli interventi a bella posta: si può ipotizzare che a Sur, il bersaglio dello Stato turco era la città storica in se stessa. L’impatto dei combattimenti su Sur Dopo la sua visita di alcuni giorni in Turchia in aprile 2016, Nils Muižnieks, Commissario ai Diritti Umani del Consiglio dell’Europa, dichiarò che la caratteristica la più saliente delle operazioni antiterroriste – riprendendo la denominazione ufficiale del governo turco – in atto da agosto 2015, fu l’instaurazione di coprifuochi sempre più lunghi, 24 ore su 24, e illimitati nel tempo, in quartieri o città intere del sud-est della Turchia. Il Commissario si pose anche la questione della proporzionalità delle operazioni delle forze di sicurezza : “Durante la mia visita sul sito dell’assassinio di Tahir Elçi a Sur, ho potuto avere un quadro della proporzione molto sconvolgente della distruzione in certe zone. Il governo mi ha informato che 50 terroristi sono stati uccisi durante le operazioni a Sur; tuttavia, almeno 20 mila persone sono state spostate, inumerevoli edifici sono stati distrutti, e numerosi civili hanno indubbiamente molto sofferto a causa dei terroristi e dei danni collaterali.” Un rapporto di fine marzo 2016 della Municipalità Metropolitana di Diyarbak fa un breve elenco dei guasti e delle distruzioni causati dai combattimenti: la moschea di Kurşunlu di Fatih Paşa, la moschea Sheikh Muhattar e il suo famoso minareto a quatro pilastri, i negozi storici classificati situati nella strada Yeni Kapı vicino alla chiesa di San Ciriaco (la più grande chiesa armena della regione) e della chiesa caldea Sant’Antonio, l’Hamam Paşa, ma anche esempi di architetture civili tradizionali come la Casa e Museo Mehmed Uzun o la strada coperta Kabaltı, un raro esempio del tessuto urbano tradizionale. Il decreto porta la data del 21 marzo 2016, il giorno di Newroz, la festa del nuovo anno curdo. Tuttavia, diversi giuristi e associazioni civili constestano la sua legalità, sollevando il fatto che il governo può emettere espropriazioni urgenti solo in caso di catastrofe naturale o di guerra, termine che si rifiuta di usare nel caso delle operazioni nel sud-est del paese (che qualifica invece di “antiterrorismo“). A seguito di questa decisione, la Camera degli Architetti di Turchia, instituzione riconosciuta d’interesse pubblico dalla Costituzione turca (Art. 135) e interlocutore degli esperti del patrimonio mondiale, ma anche numerosi cittadini hanno avviato una procedura contro le espropriazioni. Si può dire che il governo islamista dell’AKP sta approffitando delle distruzioni per smantellare la parte storica e popolare della città di Diyarbakır, favorevole al movimento di liberazione curdo. Il proggetto di trasformazione urbana, negoziata da una decina di anni e suscitando forte divergenze tra le autorità municipali e quello dello Stato turco sembra ormai definitivamente piegare a favore di quest’ultimo. E allora, la nozione di urbanicidio – se si intende come destruzione intenzionale di quello che fonda l’urbanità di una città – sembra appropriata a quello che sta accadendo a Sur. I combattimenti hanno provocato lo spostamento di almeno 30 mila abitanti. E vista l’ampiezza delle distruzioni (70% degli edifici nell’Est della città storica) è chiaro che tutti non potranno tornare ad abitare nelle loro case. In aggiunta, oltre ai danni sulle strutture architetturali, le violenze hanno anche provocato la rottura della vita sociale nel quartiere : interruzione delle attività artigianale e chiusura dei commerci di prossimità, spaccatura delle rete tradizionali di aiuto reciproco e di mutualizzazione delle rissorse (com’era il caso per i tandır – forni comuni per il pane). In una dichiarazione ripresa dal New York Times del 23 aprile 2016, l’ufficio del governatore locale difende la decisione di espropriazione dicendo che il bersaglio principale è quello di portare il potenziale di Sur come quartiere storico alla luce, restaurando gli edifici e sostituendo le strutture irregolari con delle nuove, che corrisponderanno al tessuto storico della città, aggiungendo che le proprietà verrebbero restituite una volta retaurate. Ma l’esperienza dei quartieri di Sulukule, Tarlabaşı e Okmeydani a Istanbul, che hanno vissuto un brutale stravolgimento della loro popolazione residente e una gentrificazione sotto una pressione economia forte, non lascia grande speranza agli abitanti di Sur. La politica eseguita dalla TOKI (l’Amministrazione Pubblica dell’Alloggio Collettivo) in partenariato con appaltatori e imprenditori privati è chiaramente dettata dal profitto che si può trarre dalla speculazione immobiliare e finanziaria. Sotto il governo dell’AKP, i dirigenti della TOKI si sono felicitati della promolgazione della rivitalizzazione urbana come tecnica di emancipazione per i poveri, e per le communità e le popolazioni marginalizate. A questo scopo la TOKI offre ipoteche fino a 25 anni che permettono (o che così fa sembrare) a una popolazione con redditti bassi di diventare proprietari. Ma di fatto, il partenariato privato-pubblico ha generato più ineguaglianza : sotto la volontà di risolvere la crisi dell’alloggio nei centri delle città turche, il governo a distrutto i gecekondu e altre forme di abitazioni informali, gettando per strada molti ormai senza tetto e trasformando le zone liberate in siti prospizi alla speculazione e alla rendita immobiliare. Inoltre, le ipoteche a lungo termine operano come una tecnologia governativa: gli agenti della TOKI possono esercitare un vero potere sugli ipotecati, attraverso i tassi di interesse, mettendoli sotto il controllo della benevolenza della regia di Stato che può esercitare in questo modo una pressione sulla loro vita quotidiana e sulle loro decisioni politiche in periodo di elezioni. In un’intervista rilasciata al giornale The Guardian a febbraio 2016, il direttore del Dipartimento del Patrimonio Culturale e del Turismo della Municipalità di Diyarbakır, Nevin Soyukaya anticipava : – È ridicolo dire a queste persone “Possiamo portarvi una nuovo economia e più commerci con questi proggetti”; questa è una città che rissale a 7.000 anni, un centro di cultura e di commercio. La gente qui ha la memoria di questo. Se gli forzate a lasciare la zona, o di cambiare il loro stile di vita e la loro ambiente, distruggete la loro memoria storica, la loro cultura e il loro modo di vivere. Questo non è più una questione solo di Curdi e della popolazione di Diyarbakır. Sur è una parte della Mesopotamia, la culla della civilizzazione, così è un problema di livello mondiale; è importante per la storia dell’umanità e la sua destruzione sarebbe un crimine internazionale.” Dal 10 al 20 luglio 2016 è in corso a Istanbul la quarantesima sessione del Comitato del Patrimonio Mondiale dell’Unesco durante la quale è esaminato se i beni iscritti sono – o no – sotto protezione, e se strategie di salvaguardia debbono essere definite per i beni in situazione di pericolo. Nel caso di Diyarbakır, il rapporto specifica che lo Stato contraente ha creato un gruppo di lavoro per valutare i danni, il quale ha concluso che non esiste nessun deterioramento maggiore del bene nelle zone tra cui la fortezza di Diyarbakır, l’Içkale e i giardini dell’Hevsel. Misure di conservazione temporanee hanno dovuto essere prese per proteggere il bene per ragioni di sicurezza a causa di incidenti terroristici. Delle situazioni di degrado sono state segnalate nella zona tampone in particolare nel quartiere di Suriçi. Il Primo ministro turco si è ingaggiato ad applicare un piano di riabilitazione per Suriçi, compresa la sua conservazione. La racomandazione di decisione si limita a chiedere allo Stato contraente di fare una valutazione dello stato di conservazione del bene “non appena le condizione di sicurezza lo permettano” e di produrre un rapporto per il 1 febbraio 2017. L’urbicidio di Sur, nel frattempo, è proseguito a colpi di bulldozer che hanno raso al suolo tanti edifici nelle zone colpite dai combattimenti e portato in discarica decine di tonnelate di detriti mescolati. Le operazioni di sgombero dei materiali si svolgono su un sito urbano protetto e dovrebbero rispettare misure specifiche di protezione, che non sono state prese. La perdita di alcuni materiali è ormai definitiva. Ormai, anche se lo Stato turco rinunciasse alle sue velleità di trasformazione della città storica, la ricostruzione di Sur non potrà più essere fedele a quello che era prima dell’estate 2015. Numerose abitazioni non saranno mai più ricostruite e anche se lo fossero, le famiglie che hanno dovuto trovare una sistemazione altrove non è sicuro che tornino. Il tentato colpo di stato del 15 luglio 2016 e le misure di ritorsione del governo di Erdoğan rendono il futuro ancora più incerto, ma non devono far dimenticare che l’epurazione è cominciata da anni e non fa che proseguire. Oggi, le priorità sono moltiple. Fra queste, la possibilità per la società civile di presentare un piano urbanistico alternativo di ricostruzione di Sur, un progetto che tenga conto della realtà sociale che fù prima dell’estate 2015, cercando di ridarle vita. A questo scopo, l’aiuto e la solidarietà di professionisti – urbanisti e architetti – da l’Italia e d’altrove non sarà certo un peso, ma al contrario un sollievo e un segno di speranza in questo periodo buio per la Turchia. NOTE
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