Il fallimento del multiculturalismo [di Cecilia M. Calamani]
micromega on line 28 luglio 2016. Il multiculturalismo, così come l’Europa lo ha pensato e applicato negli ultimi decenni, ha fallito. È questa la tesi che Kenan Malik, filosofo britannico di origine indiana, sviluppa nel suo breve saggio “Il multiculturalismo e i suoi critici – Eipensare la diversità dopo l’11 settembre”, tradotto e pubblicato in Italia (maggio 2016) da Nessun Dogma. Il tema, in questo sanguinario periodo di attacchi terroristici sferrati al cuore laico dell’Europa, è di estrema attenzione e assume il carattere dell’urgenza. Malik fornisce una chiave di lettura tutt’altro che banale delle politiche europee che, nel nome dell’integrazione sociale e del rispetto della diversità, hanno generato risultati agli antipodi di quelli voluti o quanto meno dichiarati. Come scrive lui stesso nell’introduzione, «Questo libro è una critica al multiculturalismo. È anche una critica ai suoi critici». Naturalmente bisogna prima intendersi sui termini. E cioè su cosa si intenda per multiculturalismo e cosa per il suo contrario, due categorie di pensiero strettamente connesse a quelle di appartenenza politica. L’idea multiculturale, abbracciata dalla sinistra europea, promuove le iniziative mirate a gestire la diversità definendo e rispettando i bisogni e i diritti di ognuno. Ma ciò secondo l’autore porta necessariamente a inserire le persone in contenitori etnici e a rafforzarne i confini, siano essi fisici o culturali, anziché abolirli. In altri termini, riconoscere in un sistema legislativo la diversità di un gruppo di persone significa non solo rimarcarla, ma addirittura consolidarla. I detrattori del multiculturalismo, rappresentati politicamente dalla destra più radicale, sono invece quelli che intravedono nella mescolanza di culture, ossia nei fenomeni migratori, un attacco ai valori occidentali, concetto ben stigmatizzato da quella presunta “guerra di civiltà” diventata argomento portante in seguito al perpetuarsi di attentati terroristici di matrice islamica in Europa. Sono cioè i razzisti di oggi, che nascondono la loro intolleranza dietro a inesistenti pericoli di colonizzazione europea da parte dell’Islam. Alla base del multiculturalismo, seppur nelle sue varie sfaccettature, c’è un elemento comune che Malik mette in discussione: l’identità culturale degli individui. Che non è, secondo l’autore, un contenitore statico che impedisce a un essere umano di vivere felicemente in una cultura diversa dalla sua, bensì un bagaglio di pensieri e comportamenti soggetti all’evoluzione e al progresso attraverso il dialogo e la ragione. È qui che cade la pretesa di conservazione delle diverse culture brandita dai multiculturalisti. In ogni gruppo etnico non esiste una sola visione del mondo e creare comunità con regole ben definite che gli individui del gruppo dovrebbero rispettare si trasforma in una limitazione alla capacità di cambiamento propria di ogni essere umano. D’altronde, se la cultura di un popolo fosse davvero assimilabile al concetto di comportamento, esisterà sempre in ciò che le persone fanno e di conseguenza il problema della sua salvaguardia non sussisterebbe. E allora, si chiede l’autore, se una cultura non è determinata da ciò che i suoi membri fanno, cos’è? «La risposta definitiva è che sia determinata da ciò che i suoi membri dovrebbero fare». Ma questa interpretazione riporta il concetto di cultura a quello di discendenza biologica che, come scrive lo stesso Malik, è un modo garbato per dire “razza”. Il paradosso multiculturalista diventa così perfettamente evidente: per rispettare la cultura e le tradizioni dei diversi gruppi etnici, questi vengono chiusi in precisi recinti all’interno della comunità ospitante. Il che significa non solo ghettizzarli, ma anche creare micro società frammentate all’interno della stessa società con tutti i problemi di coesione civile connessi. Fin qui si potrebbe pensare che l’autore affronti il tema in chiave prettamente filosofica. Non è così. I capitoli centrali del libro analizzano i diversi approcci multiculturalisti adottati dai Paesi europei per fronteggiare i fenomeni migratori. In particolare, Malik si sofferma sulle strategie di Gran Bretagna e Germania, tra quelli a più forte affluenza migratoria sin dagli anni Cinquanta, la prima dalle ex colonie, la seconda da Italia, Spagna, Grecia e infine Turchia. Ripercorrendo le varie tappe delle politiche per l’integrazione, molto diverse tra loro, che i due Paesi hanno attuato da allora a oggi e le loro conseguenze – dalla rivolta di Brixton del 1981 che ha schierato bianchi contro neri in Inghilterra alla istituzionalizzazione di vere e proprie comunità turche in Germania in cui gli immigrati possono conservare la loro lingua e il loro stile di vita – l’autore trae le sue conclusioni: «La conseguenza in entrambi i casi è stata la creazione di società frammentate, l’alienazione di molte minoranze e la trasformazione degli immigrati in capri espiatori». Le politiche multiculturaliste, cioè, non hanno risposto alle esigenze delle comunità ma hanno al contrario contribuito a formarle imponendo un’identità culturale alle persone senza considerare le differenze tra gli individui che ne fanno parte, ignorando i conflitti che emergono all’interno e soprattutto rafforzando le figure dei loro esponenti, ossia i membri più reazionari e conservatori, che sono divenuti i loro portavoce ufficiali senza che ne rappresentassero realmente le esigenze e le concezioni. Un esempio significativo – e tragicamente premonitore della strage dei redattori del settimanale francese Charlie Hebdo avvenuta due anni dopo l’uscita del libro di Malik in Gran Bretagna – lo troviamo nella polemica scaturita dalla pubblicazione, da parte del giornale danese Jyllands-Posten nel settembre 2005, di alcune vignette che raffiguravano Maometto. Lì per lì, denuncia l’autore, non ci furono reazioni di sdegno da parte dei musulmani, neanche in Danimarca. Ma le successive interviste pubblicate da vari quotidiani ad alcuni imam, primo fra tutti Ahmad Abu Laban, scatenarono il putiferio. Non solo Abu Laban si autoproclamò portavoce dei musulmani danesi, ma chiese ufficialmente le scuse del primo ministro. Un paio di mesi dopo gli stessi imam intervistati redassero un documento sulle vignette, lo presentarono al summit dell’Organizzazione della conferenza islamica e lo fecero circolare in Nord Africa e Medio Oriente. A quattro mesi dall’uscita del Jyllands-Posten il caso era montato al punto di suscitare le proteste indignate di vari Paesi tra cui India, Pakistan, Indonesia, Egitto, Afghanistan, Libia, Siria e Iran. Risultato: le ambasciate danesi a Beirut, Damasco e Teheran furono date alle fiamme in un’ondata di violenza integralista che portò 250 vittime. Intanto Abu Laban aveva guadagnato la fama di autentica voce dell’Islam, nonostante le sue concezioni rappresentassero ben pochi individui della sua comunità. A questo episodio, che sintetizza anche il potere dei media nel conferire ai soggetti più reazionari dei vari gruppi l’autorità di rappresentare il sentire dei suoi componenti appiattendolo sulle posizioni integraliste, l’autore si aggancia per affrontare il tema della libertà di espressione, altro scontro aperto all’interno delle varie istanze del multiculturalismo. Alcune correnti di pensiero sostengono la necessità di limitare le critiche nei confronti di altre culture per rispetto verso la diversità. L’ormai famosa dichiarazione dell’attuale papa a commento del brutale assassinio dei redattori di Charlie Hebdo nel 2015 sintetizza bene questo assunto: «Ognuno ha non solo la libertà e il diritto, ma anche l’obbligo di dire ciò che pensa per aiutare il bene comune. Avere dunque questa libertà, ma senza offendere». Per far capire meglio cosa intendesse per “libertà senza offendere”, Bergoglio osservò che se qualcuno avesse insultato sua madre si sarebbe dovuto aspettare un pugno. Questo episodio non è contenuto nel libro, in versione originale antecedente a quei tragici fatti, ma fa meglio capire la tesi che Malik sviluppa a tal proposito: «Una delle ironie del vivere in una società pluralista, sembra, è che la salvaguardia della diversità ci impone di lasciare meno spazio alla diversità di vedute. […] L’idea di creare offesa suggerisce che certe credenze siano così importanti o preziose, per certe persone, che dovrebbero essere protette dall’eventualità che possano essere vilipese, rese una caricatura o anche solo contestate. L’importanza del principio di libertà di espressione risiede proprio nel fatto che rappresenta una costante sfida all’idea che alcune questioni siano fuori discussione e quindi rappresenta una costante sfida all’autorità». La libertà di parola è dunque non solo un presupposto essenziale per la sussistenza della democrazia, ma anche per dar voce a quelle comunità escluse dai processi democratici. Ma l’idea populista di una presunta islamizzazione dell’Europa ha fatto e continua a fare il gioco delle destre più illiberali che sulla paura dell’invasione musulmana fondano il loro successo elettorale. Significativo, a tal proposito, il tweet di una militante del Front National di Marine Le Pen subito dopo l’attentato di Monaco del 22 luglio scorso: «Speriamo siano stati gli islamisti, fanno guadagnare voti». L’autore non dispensa ricette risolutorie, bensì invita ciascuno di noi a riflettere su questioni complesse – e alla luce dei fatti odierni sanguinarie – che affondano le loro radici ben più in profondità di quanto noi stessi percepiamo di fronte alle cronache sbalorditive che ci vorrebbero schierati dall’una o dall’altra parte. In appena un centinaio di pagine Malik è capace di portarci dentro al problema sfrondando la maggior parte dei falsi miti che, dai multiculturalisti ai loro critici, pervadono con faciloneria l’opinione pubblica. La coesistenza democratica di popoli e culture, l’applicazione di un concetto di tolleranza che non leda i diritti di alcuno e al tempo stesso non crei ghetti sociali, la revisione di logiche di integrazione inadatte a far fronte al fenomeno migratorio sono oggi necessità impellenti per fermare sia il terrorismo di stampo fondamentalista sia – come proprio la strage di Monaco dimostra – l’odio ugualmente spietato figlio del disagio esistenziale delle minoranze. Ma c’è ancor di più. Ognuno di noi è chiuso nella propria gabbia culturale e il confronto con il diverso ci dà la possibilità di ridiscutere valori e credenze, comportamenti e stili di vita. Ci fornisce cioè la chiave per il progresso, come singoli e come società. La Storia lo insegna da sempre. |