Arte tra le rovine. Se l’antico diventa un set del contemporaneo [di Tomaso Montanari]

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La Repubblica, 7 agosto 2016. È la moda del momento: da Pompei a Roma l’arte contemporanea si insedia tra le rovine antiche con mostre, eventi, proiezioni. Come mai? La nostra cultura artistica si sente forse così fragile da aver bisogno di un ritorno alle radici, o così forte da volersi misurare sul metro della classicità?

Domande legittime. Ma, come ha scritto Aby Warburg, «ogni epoca ha la rinascita dell’antico che si merita»: e oggi il rapporto tra l’arte viva e i resti dell’antichità non sembra passare attraverso la profondità di un dialogo formale. No, ora le rovine sono semmai usate come una cornice legittimante in cui inserire qualcosa di completamente irrelato. Una magnifica scenografia per un presente narcisistico.

È l’estrema evoluzione del crossover antico-moderno all’interno dei musei, o nei centri storici: una moda che già nel 1962 Giovanni Urbani bollava come “estetica del catenaccio” (descrivendo così – un poco rudemente – l’inserzione di novanta sculture contemporanee tra le pietre antiche di Spoleto).

Ad essere ottimisti si potrebbe pensare che il movente culturale di questo nuovo matrimonio tra arte e rovine sia la natura di frammento che segna ogni opera dell’arte d’oggi: frammenti moderni tra i frammenti del passato, dunque. Ma è impossibile non vedere come in realtà si tratti di una sottospecie di un fenomeno più generale: che è l’uso dei grandi complessi archeologici come location per eventi di ogni tipo. Pompei è oggi il set di continui concerti (popolari per tipo di musica, ma esclusivi per i biglietti a tre cifre), mentre il Colosseo, con la sua ricostruenda arena, viene reimmaginato letteralmente come “cornice” di spettacoli e i Fori romani vengono manomessi per allestirvi – nel modo più invasivo, improprio, imprudente – concerti di beneficenza mediatica.

È questo il contesto in cui si colloca l’ambiziosa mostra “Par tibi Roma nihil” («nulla è degno di confrontarsi con te, o Roma»): lo schiacciante titolo cita l’entusiasmo di un visitatore altomedioevale): trentasei opere di artisti di oggi tra le rovine monumentali del Palatino (fino al 18 settembre). Scopo dell’esposizione è tradurre in pratica la linea culturale racchiusa in una sentenza che i curatori hanno posto ad epigrafe del catalogo: «Una delle vocazioni italiane è favorire la creazione contemporanea e metterla in relazione con il nostro patrimonio».

Come dissentire? La sfida, tuttavia, è racchiusa nella parola che dovrebbe dare il senso ad ogni mostra: “relazione”. E dunque la domanda è: Par tibi Roma nihil riesce davvero a costruire una relazione tra il Palatino e le opere che vi espone? A mio avviso, non ci riesce. E le lunghe didascalie che cercano di mettere in parallelo la lettura della singola opera e un’apertura sul mondo antico rischiano troppo spesso di evocare l’ironica constatazione di Umberto Eco per cui «tutto ha misteriose analogie con tutto».

Che senso ha collegare le porte cinesi moderne replicate in gomma uretanica da Loris Cecchini con qualche cenno sui rapporti tra l’Impero romano e la Cina? O come leggere la presenza della cancellata sottratta ad una chiesa napoletana, e coronata di lattine vuote, da Giulio Delvè? O, ancora, è davvero utile collegare il bel filmato di Marinella Senatore su un gruppo di ex minatori analfabeti con una riflessione sull’uso del dialetto in Italia? E i due video digitali con un’alba e un tramonto mandati in loop su due iphone 5 da David Horvitz traggono forse un qualche profitto dall’accostamento con una pagina sul culto del sol invictus in età imperiale? E si potrebbe continuare molto a lungo: per concludere che no, questo sistema di relazioni non è affatto convincente, ed anzi appare del tutto posticcio.

Questo esito problematico è frutto della singolare situazione dichiarata dal catalogo: «Le opere esposte provengono dalla collezione della Nomas Foundation», vale a dire dalla fondazione di cui la curatrice della mostra, Raffaella Frascarelli, è presidente. Nutro personalmente molti dubbi sull’opportunità che un luogo come il Palatino divenga la straordinaria location dell’esposizione (e dunque, inevitabilmente, della promozione) di una collezione privata. Ma qui vorrei soprattutto sottolineare che l’assenza della relazione tra i luoghi e le opere dipende proprio dal fatto che nessuna di queste ultime è stata pensata e creata per l’occasione.

Non mancano, naturalmente, esiti felici: come nel caso dell’intervento di Kounellis (che potrebbe passare per site specific, tanto bene si adatta al passaggio in cui è stato collocato), in quello di Le voeu, lo struggente video dei Masbedo che allegorizza con rara finezza il nostro rapporto con la tradizione classica, o ancora nel caso dell’illuminante filmato di Elisabetta Benassi sulla fruizione della Gioconda.

Ma si tratta di corrispondenze che appaiono quasi fortuite, dato che si contano sulle dita di una mano. Non per caso l’unica opera davvero site specific, cioè le bandiere di Daniel Buren, è anche l’unica che davvero funzioni: sposandosi poeticamente con le rovine, il cielo e lo spazio.

Morale: se le rovine sono un testo vivo da interpretare i frutti possono essere vitali, ma se invece diventano un set quei frutti rischiano di essere avvelenati. La morale di Par tibi Roma nihil sembra, dunque, suo malgrado racchiusa nella prima opera che accoglie il visitatore.

Si tratta di una grande iscrizione rossa – realizzata, in legno e plastica, dall’artista serbo Marko Lulic’ nel 2009 – in cui si legge: «Death of the monument». E come muoiono i monumenti? Per incuria e abbandono, o per riforme sbagliate: e in Italia accade ovunque, appena fuori dalla luce degli eventi. Ma muoiono anche per banalizzazione, per riduzione a musica di sottofondo. I monumenti muoiono quando non parlano più: e non possiamo illuderci che ridurli a quinte mute e irrelate di una rappresentazione che celebra solo il nostro presente sia farli vivere. Perché abbiamo bisogno di relazioni: non di locazioni.

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