Sardi nelle miniere del Belgio ne sono morti prima e dopo Marcinelle [di Umberto Cocco]
Oggi la tv italiana, i giornali, Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera e Guido Crainz su La Repubblica, una pagina di Unione Sarda, suscitano emozioni anche in Sardegna, al ricordo della tragedia di Marcinelle. Non c’erano sardi in quel pozzo, anche se nell’elenco figura un Salvatore Ventura, nato nel 1920 in un paese non identificato, mentre almeno un conterraneo fu presente tra i minatori che disposero le squadre di soccorso. Ne parlò in un’intervista a Giampaolo Meloni 10 anni fa sulla Nuova Sardegna, Salvatorico Serra, storico, dell’iglesiente, con origini sassaresi. I sardi erano a migliaia in Belgio, a decine di migliaia, c’erano stati prima a Bois du Cazier, ci sono andati dopo, sino alla chiusura, nelle squadre di soccorso, appunto, nel ripristino delle gallerie. Moltissimi si riunirono in quelle ore e nei giorni successivi nel piazzale della miniera, venivano dai paesi e dai pozzi vicini, con le loro mogli, i figli. Lo raccontano nelle interviste che stanno raccogliendo da alcuni mesi Simone Cireddu e Barbara Pinna nei paesi del Barigadu, del Marghine, della Planargia, del Mandrolisai, per conto dell’associazione Paesaggio Gramsci e dei Comuni. Alcune decine sono vivi, in Sardegna, minatori ottanta e novantenni scampati agli incidenti e alla silicosi, le loro mogli, alcune vedove, molti figli. Sardi nelle miniere del Belgio ne sono morti prima e dopo Marcinelle. Non se ne conoscono tutti i nomi, nemmeno tutti i decessi. Accade così agli italiani: le statistiche ufficiali parlano di 867 morti dal 1946 al 1963, vittime dirette di incendi, frane, scoppi di gas, cadute di ascensori. Escono da questa contabilità tutti quelli uccisi dalla silicosi, ma sono senza nome più di un terzo dei morti pure ufficiali. E’ un buco non chiarito nemmeno dagli storici. I giornali se potevano tacevano, in Belgio e in Italia. Dal 1946 al 1950 è come se non ci fossero stati incidenti. L’apice fu raggiunto nel 1956, con altri 51 morti oltre i 262 di Marcinelle. Morire dopo un ricovero più o meno breve in ospedale in seguito a un incidente in miniera, voleva dire che quella morte non era attribuita a un incidente sul lavoro. Un giornalista bellunese, Walter Basso, sta per pubblicare un libro con la lista dei minatori italiani deceduti e su questa lacunosa e colpevole memoria ufficiale. Ci sono anche i sardi nelle liste faticosamente ricostruite da Basso. Un minatore di Sedilo, Salvatore Carta, ucciso da una pietra in galleria dopo Marcinelle, nel gennaio del 1957, poco lontano da Bois du Cazier, a Monceau Fontaines: si seppe solo da un trafiletto dell’Unità, anche i parenti non ricordano, o non ricordano volentieri. Marcinelle fu uno spartiacque nella durissima esperienza migratoria in Belgio soprattutto degli italiani. Cambiarono le politiche della sicurezza nel lavoro, cambiò la percezione degli italiani da parte dei belgi, come si direbbe adesso: non più sales macaronìs, non più scritte sulle porte dei locali: né cani né italiani. Venne messa la parola fine al patto del 1946 che scambiava ciascun operaio con 2400 chili di carbone all’anno a vantaggio dell’Italia che lo aveva “venduto” al Belgio, giovane, sano, senza vene varicose, sotto i 35 anni d’età. Cominciò una difficile integrazione per quelli che sono rimasti (sarebbero 30mila i sardi oggi residenti in Belgio), anche se la storica più autorevole nella materia delle migrazioni in Europa, Anne Morelli, dell’Università di Bruxelles, attesa a Zuri il 23 settembre con Adriano Prosperi, Carla Cantone, l’ex parlamentare europea Giovanna Corda, dice: «Della piena cittadinanza europea che pure gli italiani hanno fatto di tutto per costruire, non c’è segno. Purtroppo, oggi numerosi sono gli italiani espulsi ogni anno dal Belgio, per “mancanza di mezzi economici”. E’ una battaglia odierna della Cgil in Belgio, per fare conoscere questa realtà e combattere contro queste espulsioni». Ne sono tornati molti, in Sardegna, nei paesi che lasciarono nel corso del decennio del secondo dopoguerra. Spesso i vecchi qui, a Samugheo, Ardauli, Siniscola, Sindia (da dove erano partiti a centinaia, letteralmente, 200 da Samugheo, 250 da Siniscola, 90 da Ardauli), i loro figli e nipoti in Belgio. Molti si sono fatti sintonizzare l’apparecchio di casa sulla televisione belga, per sentire ricordare la loro avventura umana. La Regione Sardegna, che finanzia ogni genere di sagra, zero sostegno a questa memoria. In Belgio, è al centro delle manifestazioni per il 70° anniversario degli accordi sull’emigrazione un film capolavoro del neorealismo, Già vola il fiore magro, di Paul Meyer, che ha per protagonisti una famiglia di sardi e altri emigrati di Sindia, Samugheo, Ardauli, Chiaramonti. Lo si potrà vedere in piazza a Ula Tirso il 17 agosto, dopo un dibattito con Paolo Di Stefano, autore del libro La catastròfa, (Sellerio, 2011) sulla tragedia di quell’8 agosto di 60 anni fa. Oggi Di Stefano sul Corriere ragiona su cosa resta nella memoria dei giovani, dell’emigrazione in Belgio, dell’incidente di Marcinelle. Non solo i giovani. E’ come se si volesse rimuovere un ricordo che non si lega più alla narrazione che italiani e sardi vogliono fare di sé. Fossero i minatori che non vogliono ricordare. Invece, dice Simone Cireddu al termine della prima lunga serie di interviste: «All’inizio diffidenza. Chi siete, cosa fate, perché siete venuti, cosa volete fare, cosa devo dire se non ho niente da dire? E due ore dopo: quando tornate, grazie a voi, è importante quello che state facendo è importante, grazie, quando tornate? E una volta: vi dobbiamo pagare qualcosa?» «Ci aprono le case e ci accolgono – continua il regista – e ogni volta è diverso. Quando andiamo via ci sembra sempre che lì dentro sia successo qualcosa, sono trascorsi decenni in un’ora, e noi andiamo via sempre stanchi e i minatori pieni di energia che vorrebbero parlare ancora per ore». I minatori intervistati stanno parlando dagli schermi collocati nelle piazze dei piccoli paesi del Barigadu in queste sere (è già successo a Nughedu Santa Vittoria, a Neoneli, prossimi appuntamenti a Ula Tirso il 17 agosto, a Samugheo il 20, ad Ardauli il 21, a Sorradile il 30, a Busachi il 2 settembre, a Bidonì il 7, a Fordongianus il 16, ad Austis il 24, a Macomer il 30, a Sedilo il 1° ottobre), in primi piani in bianco e nero e come discutendo fra loro: interessantissima memoria. Dal ricordo dell’inferno dello scavo: «Un lavoro come i topi in mezzo alla polvere» (Basilio Patta, Samugheo), «Si doveva strisciare come un serpente» (Sebastiano Frongia, Teti), alla trasfigurazione, sino al fantastico di questo racconto: «Il sole in Belgio non si vedeva mai. Non vedevano mai il sole lì. Io mai visto lo avevo. Le stelle, mai viste. Ha cominciato ad arrivare nel 1959, quando mi sono sposato io. Dall’anno è venuto il sole. I belgi, contenti… Le donne, le vedevi sbracciate: è arrivato il sole come in l’Italia – dicevano. Comme en Italie… Le soleil, le soleil, che bello! E ballavano, fuori. Davvero. Allora adesso arriva anche lì il sole. Adesso arriva, perché il globo si è spostato» (Salvatore Carta, Austis)
|