Mercoledì 17 agosto ad Ula Tirso si parlerà della “catastròfa” [di Umberto Cocco]
L’inviato del Corriere della Sera, Paolo Di Stefano, autore del più importante libro italiano su Marcinelle (La catastròfa, Sellerio 2011) è a Ula Tirso domani sera a ricordare l’emigrazione italiana in Belgio a 70 anni dagli accordi fra governi che dettero inizio a quel massiccio trasferimento di giovani uomini disoccupati anche dai paesi dell’interno della Sardegna, che non si sono mai ripresi. Chiamato a parlare del suo libro, con Maria Antonietta Mongiu, Nicolò Migheli, Ovidio Loi (sindaco del paese) dall’associazione Paesaggio Gramsci, precederà la proiezione del film che non è mai arrivato prima a Ula Tirso, Già vola il fiore magro, capolavoro di Paul Meyer girato alla fine degli anni ’50 in un villaggio minerario e che ha per protagonisti alcuni emigrati che andarono via da qui, Pietro Sanna e la sua famiglia, ripresi i figli nei giochi dei bambini sui cumuli di carbone, i genitori alle prese con la durissima vita nelle baracche, nella difficile conquista dell’integrazione, sullo sfondo della prima crisi delle miniere. Restaurato recentemente dalla Cinemateque Royale de Belgique, proiettato in prima mondiale il 1° giugno al Bozar di Bruxelles e in programmazione da allora nelle sale della capitale belga e nelle città della Vallonia, il film è lì in Belgio al centro delle manifestazioni per i 70 anni dagli accordi sull’emigrazione. Non ne esistono copie in DVD, di quella originale rimessa in circolazione dal regista alla metà degli anni ’90 dopo che riscattò i diritti, la Cinemateque ha inviato in Sardegna la copia in Blu Ray, che dopo Ula Tirso sarà proiettata al Centro Unla di Macomer il 30 settembre nell’ambito delle stesse manifestazioni. A Ula Tirso sarà preceduto da un breve documentario nel quale alcuni parenti e amici dei sardi ripresi da Meyer ricordano quei giorni a Flénu, nel Borinage, dove erano da poco arrivati da Ula Tirso, Samugheo, Sindia. Intervistata da Simone Cireddu, Andreina, cugina dei ragazzini che giocano e vanno a scuola nel film, racconta come il padre riprese tutta la famiglia e tornò indietro dopo qualche mese, forzando anche le regole che non consentivano il ritorno prima di 5 anni trascorsi in miniera, per chi accettava di entrarci. Ha visto Già vola il fiore magro a Cagliari nell’aprile scorso, ricordava vagamente come se ne parlasse in quei giorni. E’ ormai nota, almeno in Belgio, e la conoscono gli appassionati di cinema, la vicenda del film: commissionato come cortometraggio dal Ministero dell’Istruzione pubblica, doveva nelle intenzioni del governo belga, raccontare l’integrazione fra comunità di emigrati nel bacino minerario del Borinage. Ma divenne in corso d’opera qualcosa di diverso dal progetto iniziale. Fece in tempo appena uscito a vincere il Premio della Critica al primo festival di Porretta Terme, Cesare Zavattini si congratulò pubblicamente con il cineasta, la giuria composta da Visconti, De Sica, De Sanctis e Rossellini, ma il governo decise di ritirarlo nel 1963, decretando anche la fine della carriera del regista, obbligato a restituire a rate i soldi che gli erano stati anticipati. Meyer (morto nel 2007, a 87 anni), riscattò i diritti del film che venne distribuito nelle sale a metà degli anni ’90, con un enorme successo in alcune capitali europee (a Parigi rimase in programmazione per alcune settimane in decine di cinema) nonostante la difficile vicenda che racconta, in bianco e nero, con la lentezza e la poesia di un neorealismo vallone che ora fa scuola, pur senza mai indulgere alla crudezza della vita in miniera, e anzi stando sempre sulla superficie, tra le baracche, a scuola, fra i bambini che giocano, gli adulti delle diverse comunità che provano a intendersi nel tempo libero dalla fatica del lavoro. Il protagonista, Pietro, riceve alla stazione la famiglia proveniente dalla Sardegna, moglie e tre figli. Il maggiore di questi, Giuseppe, è destinato alla miniera, pur essendo ancora minorenne, mentre i due maschi, Attilio e Luigi, andranno, accompagnati da un ragazzo più grande, Valentino, alla scuola per emigrati, dove un maestro insegna loro i primi rudimenti del francese. La fatica è scarsamente retribuita e la chiusura di miniere non infrequente, tra uno sciopero e l’altro; in più i comprensibili problemi determinati dalle difficoltà di integrazione con i nativi. La giornata è pesante per i minatori, più spensierata per i ragazzi, che trovano nel gioco il loro svago, rotolandosi in gara con i compagni belgi giù da cumuli di carbone su cui già spunta l’erba. Mentre un gruppo di immigrati greci canta e balla in uno spazio fra le case, l’anziano Domenico – alla vigilia del suo sospirato rientro in Italia – va in giro sulle alture con il piccolo Luigi, per fargli comprendere cosa è veramente il Borinage ai loro piedi: per lui sinonimo di pericolo in miniera, di polvere nera, di lavoro pesante e di miseria. Furono molte decine di migliaia i sardi che emigrarono a cominciare dal 1946. Una ricerca di Martino Contu commissionata dall’Unione dei Comuni del Barigadu, finanziata anche dalla Fondazione di Sardegna, sta provando a ricostruire i dati. Ma furono centinaia a volte anche da singoli piccoli comuni. Andarono via in 90 da Ardauli, in 200 da Samugheo, un centinaio da Sindia, 250 da Siniscola. Molti tornavano, scartati alle visite mediche, altri scappavano. Sono rimasti in Belgio 30.000 sardi, ormai di seconda e terza generazione. Decine di minatori sono ancora vivi, ottanta e novantenni, sopravvissuti a incidenti, silicosi, e molti li hanno intervistati nei mesi scorsi Simone Cireddu e Barbara Pinna, in filmati di diversa durata che potranno essere visti a Samugheo il 20 agosto, ad Ardauli il 21, il 30 a Sorradile, e poi ancora per tutto settembre nei paesi del Barigadu, del Marghine, della Planargia, del Mandrolisai . |