La Catastròfa di Marcinelle ci riguarda ancora? [di Maria Antonietta Mongiu]

Antine

Mercoledì 17 il percorso “Uomini contro carbone, a 70 anni dall’accordo Italia-Belgio sull’emigrazione”, nato dalla sinergia tra una rete di Comuni del Barigadu, che si va allargando, e associazioni farà tappa a Ula Tirso. Un piccolo quanto fecondo contributo della Fondazione di Sardegna,  un fruttuoso lavoro di volontariato, e una densa trama di relazioni hanno dato vita al calendario che proseguirà oltre ottobre.

Nel luogo di  ogni possibile “sagrificio”, può infatti accadere il miracolo che si possano organizzare iniziative che prendano qualche distanza dalle reificazioni autoreferenziali che hanno trasformato la Sardegna estiva, come ha detto un cantante in una televisione locale, nell’ ”isola del buonumore”. Voleva dire delle  ”marchette” ma non poteva essere ingrato con i sardi “ospitali” e generosi che trovano spazio per ogni artista variamente titolato e pagato con soldi pubblici. Altrimenti deficitari.

Al netto degli annunci, l’imbarazzante sold out  “caraibico” dell’isola non riesce ad aumentare di un niente il Pil della Sardegna o a contenere l’emigrazione dei giovani compresi i laureati o infine a modificare gli esiti delle valutazioni Invalsi o OCSE Pisa dei nostri studenti.

La serata del 17 esordisce con una pubblica discussione sul bel libro “La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956” di Paolo Di Stefano, edito da Sellerio nel 2011. Il libro torna di stringente attualità insieme a quello di Toni Ricciardi “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone”, edito quest’anno da Donzelli, perché sono i giorni del 60° della tragedia di Marcinelle e  del 70° degli accordi  Italia- Belgio sull’emigrazione. Entrambi ci riguardano e sono da studiare in tutte le scuole della penisola. Per non dimenticare.

Il giornalista de Il Corriere della Sera proprio l’8 agosto, anniversario di quella tragedia,  dalle pagine del suo giornale ha posto la questione della rimozione della prima grande tragedia europea dopo la fine della guerra. Una rimozione che sottende quel grumo inesplorato che è il razzismo  in Belgio verso gli italiani. Da qualsiasi regione provenissero. Verso i meridionali e i sardi quando i contadini ed i pastori, dopo essere diventati minatori, divennero in seguito operai nel nord d’Italia. Inverosimile tanto più perché entrambi gli esodi, quasi una “deportazione”, furono indotti dal governo.

Della deportazione c’erano le stimmate: il volere del decisori, l’incolpevolezza di chi partiva, l’inconsapevolezza geografica della meta,  il treno da cui non poter scendere, l’ossessione dei controlli sanitari, il non ritorno prima di cinque anni (diventato una sorta di “fine pena: mai”), i campi di baracche in bocca di miniera, fino a poco prima campi di concentramento.

Quello che accadde con l’emigrazione fu una catastrofe antropologica che non è stata ancora elaborata. Come ci insegna la tragedia greca, deve essere ancora consumata la catarsi. Necessaria perché agisca la pratica dell’oltrepassare. L’unica che consenta la riconciliazione. Con quest’intendimento un gruppo di intellettuali e di amministratori ha ben pensato di interrogarsi, nelle piazze dei nostri paesi, su quegli eventi e sulle ragioni di una radicata e pervicace rimozione. Persino istituzionale. Il medium non può che essere il dialogo nelle comunità da cui provengono i protagonisti di quel complesso processo.

Il libro di Paolo Di Stefano è un buon viatico. Ha l’andamento della tragedia antica in cui il racconto ex post dei sopravvissuti si alterna alle testimonianze di allora dei capi del cantiere. La dialettica che lo scrittore cerca di attivare ora per allora – qui consiste la sua somma bravura – non porta al reciproco riconoscimento o ad una sintesi definitiva. Fa intravvedere l’inevitabilità di un destino in cui l’incendio e la morte di centinaia di persone si risolvono persino come l’inizio di un riscatto, di un riconoscimento, dell’autocoscienza che da infelice, col tempo, si fa consapevolezza.

La presa di coscienza in Sardegna sta iniziando, pur in ritardo, nel modo migliore. Le interviste di due giovani studiosi ai sopravvissuti sardi e ai loro discendenti e  il capolavoro “Già vola il fiore magro” di Paul Meyer, nella versione originale e non taroccata, sono la prosecuzione dell’opera meritoria di Paolo Di Stefano e di Toni Ricciardi. E’ il caso di rilanciare quel gioiello che è il lavoro di Nereide Rudas sulle lettere degli emigranti sardi.

Siamo certi che le nostre comunità che assisteranno alla sequenza degli eventi vivranno quel processo di mimèsi che è il primo passo per conoscere, identificarsi, non negare quanto è accaduto in chi se ne è andato e spesso non è più tornato e in chi non è mai partito. I sentimenti di rimpianto e di risentimento non sono quelli giusti. Sospendiamoli.

L’approccio più giusto è quello storico e comunitario. C’è un‘urgenza che non può essere rimandata. E’ quella di parlare di quella fase lasciando da parte l’enfasi mitopoietica della cosiddetta  “rinascita” ma anche del “ruralocentrismo” e della “costante resistenziale”. Ci vuole coraggio. Basta iniziare.

Foto: Costantino Nivola, Times Square, 1943

 

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