La new age del lavoro servile [di Tonino Perna]
Il manifesto, 19 agosto 2016. Ciclicamente l’Istat ci aggiorna dei progressi o regressi registrati nel campo dell’occupazione e si scatena la solita bagarre tra i sostenitori e detrattori del governo Renzi e della sua creatura più famosa: il jobs act. Ma, quello che i dati quantitativi non ci dicono è come sia cambiata e sta cambiando la qualità dei lavori con cui devono confrontarsi le nuove generazioni. Soprattutto non ci dicono come sono cambiate le relazioni tra imprenditori e i lavoratori, ovvero come sono cambiate le relazioni nel mondo del lavoro (i rapporti sociali di produzione per dirla con Marx). Percorrendo, a volo d’uccello (rapace) la tradizionale visione “progressista” della storia umana, si può dire che il lavoro sia passato da una condizione di schiavitù”- età romana e grandi imperi- ad una condizione di servitù” – durante il Medio Evo – a quella dell’operaio moderno della catena di montaggio, per finire oggi in una condizione sociale in cui predominano i “lavoretti” nel settore dei servizi. La storia invece ci dimostra che sopravvivono formazioni sociali del passato che convivono, come sosteneva Nicos Poulantzas, il geniale filosofo marxista precocemente scomparso, con altre formazioni sociali che appartengono alla modernità. In altri termini: la storia non cammina lungo una linea retta, verso una progressiva liberazione dell’uomo, come voleva l’ottimismo messianico dell’800, ma avanza ed arretra, si sposta di lato come le correnti dello Stretto di Messina, potenti ed imprevedibili. Un buon esempio è costituito dalle dinamiche che hanno interessato il “lavoro servile” negli ultimi due secoli. Per la verità il “lavoro servile” non è mai scomparso dopo la rivoluzione industriale e l’avvento della borghesia al potere, ma è convissuto con l’instaurarsi, soprattutto nel settore manifatturiero, di rapporti di lavoro di matrice capitalistica. Come scriveva un grande osservatore ed analista del mercato del lavoro negli Usa: «Nei primi tempi del capitalismo, la moltitudine dei servitori personali era sia un’eredità dei rapporti feudali e semifeudali sotto forma di una vasta occupazione offerta dall’aristocrazia terriera, sia un riflesso delle ricchezze create dalla rivoluzione industriale nella forma di analoga occupazione…. Negli Stati uniti, secondo il primo censimento sulle occupazioni svoltosi nel 1820, l’occupazione nei servizi domestici e personali rappresentava i tre quarti di quella complessiva esistente nell’ industria manifatturiera, mineraria, della pesca e del legname; ancora nel 1870 tali occupazioni non erano di molto inferiori alla metà di quelle che si registravano in questi settori non agricoli» (Harry Braverman, Labor and Monopoly Capital, N. Y. 1974) Questa incredibile presenza quantitativa di domestici, sguatteri, servi a vario titolo era stata notata e criticata prima da Smith, come lavoro improduttivo e spreco di forza-lavoro, e poi da Marx che ne sottolineò il carattere complementare rispetto ai bisogni della borghesia: «Secondo l’ultima relazione sulle fabbriche (1861) il numero complessivo delle persone impiegate nelle fabbriche vere e proprie del Regno Unito (compreso il personale direttivo), ammontava a sole 775.534 unità, mentre il numero delle domestiche, nella sola Inghilterra, ammontava a 1 milione. Quante è bella questa organizzazione, che fa sudare per dodici ore un’operaia nella fabbrica, affinché il padrone della fabbrica, con una parte del lavoro non pagato di questa ragazza, possa assumere al proprio servizio personale sua sorella come serva, suo fratello come cameriere, e suo cugino come soldato, o come poliziotto”. (K. Marx, Teorie sul plusvalore, Editori Riuniti, p. 334). Marx nel Capitale fa una disamina articolata della composizione dell’occupazione nell’Inghilterra e Galles nel 1861, pari a circa 8 milioni di unità su circa 20 milioni di abitanti. Val la pena di rivedere questi dati: gli operai nelle manifatture del tessile abbigliamento, calzature erano 642mila, nelle miniere erano 565mila, nella industria metallurgica erano 396mila e quella che Marx chiama «Classe dei servitori» era composta da 1.208.648 unità. A circa ottant’anni dall’inizio della rivoluzione industriale nel Regno Unito, il numero dei “servi” , vale a dire dei domestici che lavorano nelle case dei “signori” era superiore a quello degli addetti dell’industria manifatturiera. Se poi aggiungiamo i “servi-pastori” o serve presso le fattorie, si arriva intorno ad 1,7 milioni di addetti, superiore a tutti i lavoratori dell’industria manifatturiera ed estrattiva. Va precisato subito che per “lavoro servile” non si intende un particolare tipo di lavoro, ma la relazione che si crea tra datore di lavoro e lavoratore. Così, ad esempio, i servizi domestici di pulizia possono essere svolti in una relazione personalizzata tra padrone di casa e cameriere/a in cui conta molto la qualità del rapporto che si instaura, la capacità del “servo” di ingraziarsi il padrone, oppure da una ditta di pulizie che manda delle persone a svolgere questa mansione senza che tra essi ed il padrone di casa ci sia una relazione. Ora, come sappiamo, nello sviluppo del capitalismo l’occupazione nel settore industriale cresce fino ad un certo punto, che varia da paese e paese, e poi comincia a declinare a favore dell’occupazione nei servizi, secondo la nota legge di Colin Clark. Ma, questo non significa che nei servizi non si instaurino rapporti di tipo capitalistico. Anzi. L’enorme espansione della Grande Distribuzione ha ridotto fortemente il ruolo del piccolo commercio dove persistevano rapporti tradizionali “servo-padrone”, così come la nascita di grandi agenzie nel settore della sicurezza e della pulizia ha eliminato una parte di lavoratori in proprio o di rapporti di servitù che esistevano precedentemente. Di contro, la dissoluzione dei legami familiari, dei legami di comunità, ha fatto nascere nuovi bisogni che spesso vengono soddisfatti ricorrendo a rapporti di lavoro semi-servile se non del tutto “servile”. Ci riferiamo al lavoro di badante, baby sitter, dog sitter, accompagnatore, ecc….. In altri termini, mentre da una parte il modo di produzione capitalistico distruggendo la piccola impresa artigianale o commerciale elimina i rapporti semifeudali che persistevano, dall’altra parte i nuovi bisogni sociali legati alla dissoluzione dei legami sociali fa riemergere rapporti di lavoro di tipo servile. In Italia abbiamo circa 1,2 milioni di badanti, 500 mila tra baby sytter e figure assimilabili, poco meno di 1 milione di domestici e circa 450mila camerieri “registrati” e 102 mila baristi, ed altrettanti in “nero”. E qui ci fermiamo. Quello che conta è la relazione tra datore di lavoro e dipendente. Così ci sono camerieri di grandi catene alberghiere che godono di un contratto di lavoro nazionale, che hanno un classico rapporto di lavoro capitalistico, e ci sono camerieri che lavorano in piccoli bar di periferia, in nero, con un rapporto “servile” col proprio padroncino. Quello che può sembrare incredibile è che anche in un settore moderno come i call center, che hanno tutte le caratteristiche della fabbrica fordista- per ritmi e divisione del lavoro, alienazione, ecc – si vanno instaurando rapporti di lavoro “servile” tra i giovani lavoratori e il team-leader, che diventa una figura sociale simile ad un “caporale” nel mondo bracciantile. E’ quanto emerge da una ricerca sul campo su alcuni call center in Calabria e Sicilia, regioni dove lavorano nei call center circa il 20% degli 80.000 addetti in Italia. Ed è a nostro avviso una tendenza di fondo delle politiche del lavoro in Italia come nel resto d’Europa: ritornare a rapporti di lavoro individuali, personalizzati, che servono non solo a dividere e mettere in concorrenza i lavoratori fra di loro (nei call center, per esempio è spietata la concorrenza tra questi lavoratori precari e super sfruttati), ma a creare quello che Adam Smith riteneva un rapporto iniquo, perché asimmetrico in termini di rapporti di forza : «I padroni sono sempre e ovunque in una specie di tacita ma non per questo meno costante e uniforme coalizione volta a impedire il rialzo dei salari al di sopra del loro livello attuale. (…) entrano poi spesso in coalizioni particolari volte ad abbassare ulteriormente il livello dei salari». (Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, ISEDI, p. 67) . Il riemergere alla grande del rapporto di lavoro “servile”, non di rado anche semischiavistico (come ad es. nella piana di Gioia Tauro-Rosarno), taglie le gambe ai sindacati ed alle altre forme di aggregazione dei lavoratori e si traduce nella sfera politica nella ricerca di un padronage che possa migliorare la propria condizione, a livello locale, o di un salvatore della patria, a livello nazionale. Pertanto, non facciamoci impressionare solo dai dati quantitativi della disoccupazione/inoccupazione, è alla qualità del lavoro ed ai rapporti di lavoro, ai diritti dei lavoratori che dobbiamo guardare con più attenzione ed agire di conseguenza. |