L’emigrazione “Padre padrone” [di Gavino Ledda]

emigrazione

Con questo brano tratto da Padre padrone di Gavino Ledda (Edizione Feltrinelli 1975 pagg 149/154) continua l’iniziativa “Memorie dall’emigrazione” promossa da SardegnaSoprattutto, in concomitanza con il Progetto “Uomini contro Carbone” a cui la Rivista sta collaborando. Chi vuole può scrivere a sardegnasoprattutto@gmail.com una memoria, la propria esperienza,  un ricordo personale o di famiglia sull’emigrazione. I pezzi non devono superare 3000 battute e possono essere scritti anche in lingua sarda nelle diverse parlate e nelle lingue alloglotte attestate in Sardegna, accompagnati dalla  traduzione in  lingua italiana. Si richiede una brevissima biografia dell’autore/autrice con la liberatoria per la pubblicazione (ndr).

Quella mattina, la piazzetta si riempì insolitamente di bambini, di donne, di uomini, di madri e di padri, di amici. Pianti, strida e lamenti di età e di sentimenti diversi si levavano sulla loro miseria da ogni parte: sull’innocenza di quei ragazzi condannati a rifugiarsi in terre ignote, ignari del loro futuro, senza sapere come avrebbero dovuto rinascere in un dove mai visto; in terre che si potevano solo immaginare.

Certo, l’America non era una terribile incognita per la popolazione sarda. E il dolore per il distacco non raggiunse mai la disperazione. Nella piazzetta vi erano molti vecchi reduci da emigrazioni in America agli inizi del secolo. Ed anche se eran lì come relitti di un lontano esilio, erano lo zucchero in mezzo all’amaro meno sopportabile. La gente vedeva e leggeva in loro la speranza del ritorno dei nuovi emigranti. L’emigrazione che ricordavo di più era quella per l’Australia del 1955. A differenza dell’America l’Australia era un paese sconosciuto ai contadini e ai pastori. Nessuno di loro vi aveva mai emigrato.

E nell’animo degli stessi emigranti e della popolazione produsse una desolazione tremenda. Questa volta il distacco fu tragico. – Australia! – – Oltre un mese di nave per arrivarci! – Polo sud! – Polo nord! Dov’è? – Questi non potranno più ritornare. Solo il viaggio costa il lavoro di un anno. Addio figli! Era una mattina di maggio. E verso le otto tutta la popolazione si riversò nella piazzetta di Sìligo. Gente di condizione diversa e di età: sorelle, fratelli, padri, madri, figli, mogli e bambini si erano radunati per salutare per l’ultima volta gli emigranti. La gente era veramente convinta che non li avrebbe più rivisti.

Le grida e il pianto mi ricordarono l’emigrazione in Canada. Solo che questa volta non c’erano gli zuccheri per inghiottire l’amaro. Non c’erano vecchi che potessero incoraggiare e rincuorare la popolazione. Mancavano i relitti che li facessero sperare in un lontano ritorno. La popolazione si raccolse nella piazza con il dolore dei funerali ai quali quegli emigranti, per privilegio della storia, partecipavano da vivi. Uomini che ebbero la ventura di vedere e sentire dalla propria bara il pianto e le lacrime della propria gente.

Fu quasi come se la popolazione fosse divisa in due schiere di cadaveri che dovevano autofuneralizzarsi a vicenda. Sìligo, morto per loro. Loro morti per Sìligo. L’unica speranza per gli emigranti era nella loro rinascita in una terra che non li avrebbe più cullati né cantati, ma solo usati e consumati come arnesi di lavoro. Da ogni angolo si levavano grida e lamenti disuguali, intonati a sentimenti diversi. L’unica nota fondamentalmente uguale (il pedale fisso di quel dolente concerto) era il pianto corale. Dalle grida e dai lamenti che uscivano da quelle bocche bavose ed asciutte, si poteva cogliere però lo sgomento e lo scompiglio che si stava consumando nel cervello sbrandellato di ognuno. – Restate qui! Non te ne andare figlio mio! – era l’esclamazione più frequente che si sollevava al di sopra del dolore comune. – Che avete fatto? Quale colpa avete commesso per essere espulsi dalle vostre terre? dalle vostre case? da

Sìligo? dal vostro nido che noi facemmo con tanto amore? – E noi che abbiamo fatto per non godere dei nostri figli? Non ricordo di aver fatto alcun male. Mai! Così nelle mie rievocazioni solitarie mi si profilavano quei padri e quelle madri che colti dalla disperazione, nel momento del distacco, imploravano i propri figli di accettare ciò che non avrebbero potuto loro offrire: rimanere con loro negli ovili e lavorare la terra. Le botte, le grida rabbiose di sempre e le minacce che abitualmente scagliavano sui loro figli, non esistevano più avanti alla loro tomba.

Il momento del distacco, anzi, sembrava suscitare in essi un certo complesso di colpa. Forse si sentirono padri incapaci di sistemare i propri figli. E in uno slancio disperato di amore paterno, sia pure timido, volevano quasi effondere ai propri figli tutto quell’affetto che mai avevano potuto dare. La corda della loro morale tesa fino allo spasimo dalla miseria, per la prima volta si allentò e poté “suonare” in una tonalità più dolce. E per la prima volta i patriarchi divennero padri. I rapporti tra padre e figlio si umanizzarono e almeno durante i reciproci funerali la loro austerità abituale svanì.

E in uno slancio di tenerezza le braccia nerborute e le mani callose, che avevano sempre picchiato, avvinghiarono affettuosamente i propri figli: le loro labbra per la prima volta s’incontrarono reciprocamente e si baciarono per l’ultima volta così come quando si bacia il cadavere di un congiunto nella cappella del cimitero prima di affidarlo alle zolle. Le urla delle donne colpivano anche quella parte della popolazione che per un motivo o per un altro la storia per allora aveva risparmiato da quel terribile esodo oceanico. Fu così un pianto accorato e corale.

Il grido di un popolo sconvolto si levò nell’aria che non aveva mai potuto accogliere le sue risate e le sue gioie. Tutti si stringevano. Genitori e figli, amici e compagni si abbracciavano. Non esistevano più né odi né litigi. Le brighe e le zuffe, gli insulti e le percosse che spesso si eran date in campagna per difendere il proprio pascolo, svanirono come per incanto di fronte alla sventura. C’era posto solo al lamento e al dolore. Fu come se tutti volessero far la pace.

Solo gli emigranti, orgogliosi e fieri (al pari dei padri), trattenevano a stento le lacrime che i loro cervelli piangevano solo con gli occhi del cuore. I loro occhi dolenti non potevano piangere davanti alle loro madri. Anzi dovevano emanare una luce di contentezza. Il volere della storia però, era inflessibile. Essi lo sapevano e il loro imperativo era emigrare: andar via dalla Sardegna per far fortuna altrove. Finalmente si udirono le trombe del pullman. Spuntò dalla curva e in un baleno s’immerse in tutta la sua lunghezza nella folla concitata della piazza. Il pullman eccitò maggiormente gli animi: il tempo stringeva inesorabilmente.

Quella mattina, però, vi sostò più del solito. La folla doveva farsi i funerali: la funzione non era finita ancora e ritardava la partenza. La popolazione sconvolta voleva rinviare almeno di un attimo la partenza dei propri sventurati. Il pullman prima di giungere a Sìligo naturalmente, lungo il suo percorso, aveva fatto il pieno di emigranti nei vari paesi portandosi il pianto di mezza Sardegna. E gli emigranti degli altri

centri naturalmente non volevano far notare il proprio pianto a quelli di Sìligo. Vincevano il dolore ostentando una falsa baldanza. Il fattorino chiuse gli sportelli e così la bara fu chiusa anche per gli emigranti di Sìligo. La bara finalmente si scosse. Si mise in moto e si fece largo separando il pianto dal dolore e il dolore dal pianto: i figli dai padri e il popolo dal popolo. Un altro boato di urla concitate di età diverse e di emozioni diverse si mescolò ancora al turbine del dolore.

Raggiunse il pullman come per fermarlo. La rabbia degli emigranti però era più intensa del dolore di Sìligo. E la popolazione tra il pianto generale ebbe solo la consolazione di vedere le mani agitate fuori dal finestrino della sepoltura comune. Quelle mani che divenivano sempre più sottili consumandosi e scomparendo nell’infinito, nel loro triste e desolato futuro inesorabile, nelle nuove tanche senza querce e senza uccelli, nel loro tetro cimitero del silenzio cruento delle fabbriche che li attendevano nell’Oceania. I funerali finalmente erano finiti e quasi tutti seguendo le donne sotto gli scialli neri, si rintanarono nelle case, lasciando la piazza come quando si lascia il cimitero dopo avervi accompagnato un congiunto morto nel fiore degli anni.

Queste rievocazioni nel loro silenzio riflessivo mi rapivano al punto da farmi rivivere veramente tutte quelle scene. Ora che per un giovane sano e robusto come me era necessario emigrare se non venivo assorbito nelle forze dell’ordine. E questa necessità sopraggiungeva

inesorabile soprattutto dopo che le emigrazioni in Canada e in Australia avevano rotto il ghiaccio, avevano indicato un varco. Dal ’55 si emigrò in continuazione. Non si piangeva più il distacco come prima. L’emigrazione divenne abituale e perse quel senso tragico e dolente anche perché si emigrò più vicino, in Europa. Addirittura ora emigravano persino le ragazze. Quello che restava era un mondo già mutilato.

Solo i vecchi, i bambini e lo scarto fisico e psichico che ne risultava in seguito alle selezioni delle emigrazioni e delle forze dell’ordine, si aggiravano in quei campi privati dei giovani sani. Durante gli ultimi due anni potevo notare questo stato pietoso di un mondo invalido. Vecchi malati, storpi, gobbi e paralitici, consumati dall’età e dalla natura, rigati e rugosi dagli anni e dal male, popolavano i campi come larve umane, sfidando le intemperie della natura. Per le strade dondolati energicamente dalla vigoria dei loro somari, si vedevano vecchi di settantacinque ottanta anni, dimezzati dalle fatiche ansimanti e morituri che svolgevano regolarmente la loro regolare attività fino all’ultimo respiro. – L’altro ieri, – mi sentii dire un giorno, – è morto thiu Pepe. L’hanno trovato morto per il campo.

Evidentemente non ce l’ha fatta a raggiungere la capanna. Il freddo della notte, poi, lo avrà congelato. Poveretto. Aveva ottant’anni e ha conosciuto solo il culo della pecora. Ora avevo 19 anni e sentivo più forte che mai la tragedia che incombeva. – Io non voglio fare la fine di thiu Pepe, morto dal gelo. Lo potevano divorare anche i cani, i corvi, gli avvoltoi. Ahh! No! Io me ne vado via di qui. Ma nei carabinieri non ci posso andare, come hanno fatto quasi tutti i miei cugini. Loro sono tutti alti. Qui conta anche la statura. Io sono basso. E poi ci vuole la V elementare e io non so né leggere né scrivere. Qui bisogna emigrare. Eh, là non conta la statura, no! Basta che tu sia sano e lavori!

Così nell’autunno del 1957 venne l’ora anche per me. Con un amico di Sìligo mi balenò l’idea di emigrare in Olanda a fare il minatore.

One Comment

  1. Taccas de chie addurat

    Torrare est unu cossolu

    Ammento una domo in foras de ‘idda chi fit serente sa posta vetza ‘e sos postales. Dae una ventana aberta miraias su caminu e intennias su tumbu sichitu de sa lestresa ‘e sos passos. Tanno sos bisos de una vita ispantosa a cudd’ala ‘e su mare juliaian che sirena dae fundos de chelu. De iverru, semper viu e mai istutatu, in cudda domo bi fit in s’apposentu prus vritu unu brajeri chin su coro allutu aspeanneti onzi die a torrare. Como chi de cussa braja sa chisina est soverana, imbetzanne si presentan mesuratos sos annos de sas pinnicas de sa vita. E ti dimannas si vita senas tue as donatu canno s’apposentu in ateros tempos fit cumbeniosu in cudda domo chi cumparit in ruina in foras de ‘idda chin sepe de icumurisca. Credo, ca su tempus suprit paris chin sos passos tuos, chi si ghiras a bidda as a imbennere manos abbretiosas a isterrere una nova cupertura,a cucutzare totu sos muros e a tancare sa janna chi a foras si presentat galu oje che unu garriu de muros rutos e sapis intro ‘e te onzi proite. Ma in cussa pala de luche soliana as a istare cuntentu a foras de ‘idda torrannela intrea che nidu caente, ponenne ritzas chin sa carchina pretas supra sas pretas, ca isco sicuru chi ses mastru ‘e muru balente e sa virtute tua in cudda domo fit de eternare sas mentzus istorias chi jumpan s’iscuru.

    Ritornare è un conforto
    Ricordo una casa in periferia che stava vicino alla vecchia stazione delle corriere. Da una finestra aperta, osservavi il cammino e sentivi il rimbombo continuo della velocità dei passi. Allora i sogni di una vita meravigliosa oltre il mare erano un richiamo che veniva come una sirena dal profondo del cielo. D’inverno, semprevivo e mai spento, in quella casa c ‘era nella stanza più fredda un braciere con il cuore acceso, aspettando ogni giorno il tuo ritorno: Ora che di quella brace la cenere è sovrana, invecchiando avanzano con prudenza le pieghe della vita: E ti chiedi se vita anche tu hai donato quando la stanza in altri tempi era confortevole in quella casa che appare in rovina nella periferia del paese con i cespugli di fichidindia. Credo, perchè il tempo avanza insieme ai tuoi passi, che se ritorni in paese troverai mani capaci per stendere un nuovo tetto, a coprire tutti i muri e chiudere la porta che fuori presenta ancora oggi un cumulo di muri cadenti e sai dentro di te ogni percè. Ma in quel pendio nella periferia solatia resterai contento.ricostruendola integra come un nido caldo, mettendo ritti i muri con la calce pietra su pietra, perchè so che sei un maestro di muoro valoroso e la tua virtù in quella casa era di tramandare le più belle storie che superano il buio.

    Pessos, lepios, si pesan

    Sas pitzinnias pertas in sas domos in ruina dormin serratas in s’ammentu cun sas fertas dolorantes. Si annaiat tandho da unu apposentu a s’ateru pro murare jannas e ventanas in palas a chie fuiat a punta ‘e die cun manos pienas de appretu. Ma si ghiras como chi su tempus at crujatu onzi isempiu e caminas in cussas carreras che bentu lezeru pessos lepios si pesan. E contan de veturas in fila garricas de zente in sas anderas dudosas de sa chirca. E ischis chi de tantos chin gana ‘e visiones e ocros abertos a foras de ‘idda, s’est perta sa vigura si puru bivos in locos anzenos. Peri custas sun paraulas chi bardian sas biddas chi campan mori mori in chima ‘e sos monticros.

    Pensieri, lievi, si levano
    Le infanzie perdute nelle case in rovina dormono chiuse nel ricordo. Si andava allora da una stanza all’altra per murare porte e finestre dietro a chi fuggiva all’alba con mani piene di bisogno. Ma se rientri ora che il tempo ha sanato ogni cicatrice e cammini in quelle strade come vento leggero pensieri lievi si levano. E dicono di autocarri in fila carichi di gente nelle strade incerte del cercare. E sai che di tanti con fame di sogni e occhi aperti al mondo si è persa la figura se pure vivi in luoghi stranieri. Anche queste sono parole che allarmano i paesi che vivono moribondi in cima alle colline.

    Vittorio Sella, giornalista pubblicista, insegnante e autore di racconti e poesie in lingua sarda e italiana. Si autorizza la pubblicazione per Sardegna Soprattutto

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