Locale è sempre meglio? La questione del cibo e i Sardi [di Giuseppe Pulina]

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I movimenti locavori, cioè dei fautori del consumo di cibi esclusivamente locali, stanno diventando sempre più diffusi nei Paesi sviluppati. Le ragioni su cui basano le scelte dei loro aderenti sono a prima vista ampiamente condivisibili: cibo migliore, più sano, prodotto con saperi locali, in grado di migliorare la gestione del territorio e di distribuire con più equità il valore economico nella catena di produzione dai campi alla tavola.

Si tratta, in realtà, di una reazione all’esproprio della sovranità alimentare che le grandi multinazionali hanno progressivamente attuato, a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso,  in nome del profitto, non garantendo il rispetto dell’ambiente, l’attenzione alle condizioni di  lavoro e l’equa distribuzione del valore fra i players della filiera. La concentrazione del “potere del cibo” in mano a pochi ha portato l’ecosistema nutritivo, l’ambiente cioè nel quale gli abitanti hanno possibilità di rifornirsi di cibo, delle aree periferiche delle grandi metropoli, ad assomigliare sempre più a “deserti alimentari”, con poca scelta, cibi pesantemente manipolati e prevalenza di discount e di fast food.

E’ noto che in tali deserti alimentari, le patologie legate all’alimentazione, prima fra tutte l’obesità infantile, diventano il problema epidemiologico-sanitario principale. Contro la sottrazione della sovranità alimentare, allora, i movimenti locavori hanno incentivato gli Stati all’assunzione di idonee leggi che promuovono le produzioni di prossimità, hanno favorito i farm markets e i circuiti brevi (a km zero, diremmo noi, sulla scia di una riuscita iniziativa di Coldiretti) anche nella ristorazione collettiva a carattere pubblico (scuole e ospedali). Tuttavia, locale è un termine ambiguo: ciascun posto è locale per chi ci abita e non lo è per chi non vi abita!  Con la conseguenza che tutti i cibi sono locali a casa loro (parafrasando un noto slogan della  Lega), cioè tutti buoni per definizione, basta che siano consumati in loco.

La letteratura scientifica definisce locale un alimento prodotto nel raggio di 100 miglia (ma alcuni consumatori pensano al paese, alla regione, allo stato e così via in termini di locale).  Vediamo se il locale soddisfa tutti i requisiti attesi: più sano, organoletticamente migliore, meno inquinante (minore impatto del trasporto) e più equo (e solidale).  La letteratura scientifica, sintetizzata in una notevole review di Ewards-Jones e colleghi del 2008 (Testing the assertion that local food is best; Trends in Sci Food Tech., 19), non ha elementi dirimenti per affermare che vi sia un rapporti diretto fra  produzione locale e salute o qualità organolettiche dei cibi.

Gli stessi autori e il World Watch Institute (DeWeerdt, 2013) sostengono, inoltre, che l’impronta del carbonio (ovvero la quantità di CO2 emessa per kg di prodotto alimentare che arriva in tavola) dovuta ai trasporti rappresenta appena il 10% di quella del ciclo produttivo totale, per cui il pomodorino locale trasportato via autostrada è molto più impattante di quello che arriva da una distanza 10 volte maggiore via treno (e 25 volte via nave) oppure se prodotto in maniera inefficiente emette molta più CO2 (in loco) rispetto a quello remoto prodotto con efficienza.

Patricia Allen, ricercatrice dell’Università di Santa Cruz in California, nel suo articolo “Realizing justice in local food system” (Camb. Jour. Reg. Econ. Soc., 2010), smonta anche la pretesa della maggiore equità dei sistemi alimentari locali rispetto a quelli globali: “Local food systems serve many purposes and improve the quality of life for many people. However, they do not automatically moves us in the direction of greater social justice. In particular, workers, as actors and justice as principle, are often missing both theory and practices of alternative agrifood consumer efforts”. E conclude: “In the face of global desperation and intensifying crisis, we must both work at the local level and create solidarities with those in other localities”.

 In poche parole, senza uno sguardo lungo ai disequilibri planetari, la teoria “locale è meglio” può trasformarsi nello slogan superconservatore “locale e basta!”. Infatti, le analisi al 2050 della capacità del nostro pianeta di sfamare 10 miliardi di persone mostrano che il peggiore scenario è quello della regionalizzazione (chiusura dei mercati globali) che condannerebbe alla fame (e alla migrazione) miliardi di persone delle aree più povere del mondo (van Dijk e Meijerink, A review of global food security scenario and assessment studies: results, gaps and research priorities, 2014).

E noi Sardi, così attenti all’identità da confonderla, ahimè, troppo spesso con il localismo? Sempre più spesso si sente affermare, anche da maître à penser o da autorevoli rappresentanti di organizzazioni sindacali di settore, che in Sardegna si importa l’80% di ciò che ogni giorno compare sulle nostre tavole. Il che significa che l’agricoltura isolana produce soltanto il 20% di ciò che noi mangiamo! Questa affermazione, di per se abnorme (si pensi che il Giappone importa meno del 50% di ciò che mangia), è diventata talmente diffusa che ormai la si prende per vera, senza effettuare i dovuti controlli .

Lo statunitense Edward Deming (1900-1993), statistico e scienziato dei sistemi produttivi, affermava “In God we trust (motto che appare sul dollaro USA); all others bring data”. Ebbene, se andiamo a controllare i dati del sistema agroalimentare della Sardegna ci rendiamo conto che l’affermazione secondo cui siamo pesantemente deficitari in questo comparto è totalmente sbagliata. Alcune avvertenze.

Primo:  a meno che non si voglia tornare all’economia curtense, è pacifico che i mercati aperti garantiscono una migliore ripartizione delle risorse a livello globale, per cui anche il cibo viaggia per il mondo (per esempio, il nostro Pecorino Romano va in Nord America).

Secondo: la bilancia agroalimentare non è una questione di volumi (quante tonnellate di cibo si importano e quante se ne esportano), ma di valori (saldi commerciali attivi e passivi), per cui, per restare sui prodotti di alta qualità, sistemi di trasformazione locale, quali le IGP che utilizzano conoscenze legate al territorio su materie prime extraterritoriali, convivono tranquillamente con le filiere totalmente locali rappresentate dalle DOP; l’importante è che il valore aggiunto resti nel territorio generando ricchezza e occupazione.

Per la nostra analisi utilizziamo i dati ufficiali ISTAT e uno splendido lavoro – “Principali statistiche strutturali ed economiche sulla filiera Agrifood in senso stretto in Sardegna” – passato totalmente sotto silenzio,  prodotto dal Servizio Statistico Regionale e pubblicato sul sito della Presidenza [http://www.sardegnastatistiche.it/index.php?xsl=1952&s=313493&v=2&c=10273]. Secondo l’Istat, nel 2014 la spesa agroalimentare delle famiglie sarde, compresa quella per i ristoranti e affini, è stata  di 3,9 miliari di euro, pari all’11% del PIL isolano.

Nello stesso anno, sempre secondo il nostro Istituto di Statistica, la produzione aggregata agricolo-industriale sarda ha raggiunto il valore il 2,07 miliardi di euro; poiché, secondo le stime del Ministero per l’Agricoltura, il valore prodotto nella catena agri-food (ovvero: come si dividono 100 euro pagati dal consumatore?) è ripartito per il  25,8% all’agricoltura e per il 24,2% all’industria di trasformazione (commercio 31,2% e ristorazione 18,8%), va da sé che il valore complessivo del sistema agri-food sardo è di 2,07/0,50 = 4,14 miliardi di euro, superiore a quello dei consumi alimentari delle famiglie, per effetto, ovviamente,  della componente della ristorazione che si rivolge anche a consumatori non sardi.

Se si analizzano i dati del Servizio Statistico Regionale, riferiti sempre al 2014, si vede che le importazioni di cibo fresco o trasformato, assommano a circa 312 milioni di euro, mentre le esportazioni annuali ammontano a circa 205 milioni, con un saldo negativo di 105 milioni di euro, pari in valore al solo 5% dei consumi delle famiglie. Per quanto attiene i soli prodotti trasformati, poi, si scopre che il saldo commerciale è attivo per 41 milioni di euro, certificando la forte propensione dei sardi a mangiare locale (ma non dimenticando i cibi “esotici”) e a esportare i nostri prodotti (pecorino in particolare).

In definitiva, se usciamo dai luoghi comuni e guardiamo la realtà dei dati, scopriamo che la Sardegna è in grado di sfamare i propri figli e che i Sardi, al contrario di un altro luogo comune, sono degli ottimi imprenditori, almeno nelle filiere agri-food.

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