Vogliamo provare a parlare di politica? [di Carlo Arthemalle]
Vogliamo provare a parlare di politica? È doveroso cimentarsi perchè questo fondamentale strumento della civiltà umana serve a far funzionare la democrazia e la democrazia – come diceva Winston Churchill – pur essendo un pessimo sistema di governo, è il migliore tra quelli sperimentati sino ad ora. Gli italiani che hanno fiducia nella politica e nelle istituzioni in generale sono meno del 50% e la drastica diminuzione dei partecipanti alle elezioni testimonia quanto sia entrato in crisi il rapporto tra i cittadini e le élite che vorrebbero disporre della loro esistenza. L’astensionismo elettorale dice anche quanto sia scettico il cittadino sulla possibilità di incidere sul “palazzo” utilizzando le elezioni. A indagare sul perché ci hanno provato in tanti, concordando sul fatto che in Italia si sono deteriorati gli strumenti di mediazione tra cittadini e potere che avevano funzionato per decenni. In altre parole sono entrati in crisi i partiti, le entità che ci hanno dato Repubblica e Costituzione, hanno tirato su il Paese dalla guerra e lo hanno accompagnato tra i dieci paesi più importanti del mondo. I partiti moderni, in Italia, sono nati tra Ottocento e Novecento quando l’aumento della manodopera salariata, la nascita dei sindacati, la marcia verso il suffragio universale e altro ancora, hanno reso necessari gli strumenti del confronto tra le classi sociali e consentissero di allargare la platea da cui attingere la classe dirigente. Il fascismo ha costituito un tentativo di bloccare questo processo ma il partito unico e il culto del capo non hanno impedito che nella clandestinità maturassero uomini e idee capaci di guidare l’Italia verso la Repubblica e la Democrazia. La seconda metà del secolo scorso è stata caratterizzata da un duro scontro tra le forze sociali in campo e tra i partiti che a queste forze facevano riferimento. Gli italiani, per quattro decenni, sono stati capaci di combattersi sulle grandi opzioni ideali che dividevano il mondo, su come doveva essere distribuita la ricchezza prodotta, sugli ordinamenti civili che dovevano essere inseriti nella legislazione. Le divisioni non hanno impedito che si trovasse la forza e l’unità necessarie a difendere la comunità che si era andata costruendo. Le prove più pesanti si chiamano terrorismo, servizi segreti deviati, malavita organizzata, clientelismo e corruzione diffusa. Qualcuna di queste battaglie è stata vinta, su qualche altra si è segnato il passo e su qualche altra ancora si è andati persino peggiorando. Ma in quegli anni, la dialettica si è sviluppata in un paese vitale, ricco di contraddizioni ma anche di valori civili. L’Italia è stata un paese che aveva un’anima, in cui la lotta tra il positivo e il negativo non aveva soste, passando per i partiti e molto spesso all’interno dei partiti stessi. Con la voglia di intraprendere, la mobilità sociale, il manifatturiero che andava alla conquista dei mercati esteri, gli americani che venivano da noi a studiare l’esperienza dei distretti industriali …Qualcuno, certamente esagerando, ha detto che in quei decenni si ritrovasse un poco dello spirito del Rinascimento. Ci domandiamo come sia stato possibile il salto all’indietro, con l’Italia che torna ad essere l’ “italietta” , con l’edonismo come modello di vita e la spesa pubblica abbandonata a se stessa. Come sia stato possibile provocare un cambiamento così profondo della morale corrente da far accettare l’dea che la furbizia sia una virtù e che alcune forme di illecito possano essere spacciate come conquiste del liberalismo? Le risposte agli interrogativi sono tante. Conta che gli stravolgimenti si sono verificati in un’epoca di cambiamenti a livello mondiale, con la fine della guerra fredda e il fallimento del socialismo reale, con la finanza che subentra come potere dominante al lavoro industriale, con la classe operaia che perde centralità e lascia che a permeare la società venga chiamata una media borghesia dai tratti indistinti, gravata da un bagaglio di spinte individualiste e anarcoidi. Questi erano i temi che mi passavano per la mente alcune settimane fa durante un’ assemblea di iscritti in un circolo del PD del Campidano di Cagliari. Si erano autoconvocati per protestare contro la dirigenza del partito il cui segretario regionale si era dimesso lasciando la propria organizzazione allo sbando in un momento delicato, mentre erano in corso dove si era votato le trattative per la composizione delle giunte comunali. Gli iscritti lamentavano la scarsa cura nella gestione dei circoli e degli iscritti e una sostanziale assenza di democrazia nella gestione del partito. Infatti i meccanismi per determinare le scelte politiche e per selezionare le cariche pubbliche sono solo frutto di trattative che si svolgono tra i capi corrente mentre gli organismi statutari e le organizzazioni di base sono chiamate a sanzionare, a cose fatte. Questo modo di agire è il contrario di una politica trasparente e corretta e lascia spazio a operazioni familiste come, tra le altre, la nomina del figlio di un capo corrente nella giunta comunale di Cagliari. Nel circolo di cui parlo convivono, uomini e donne di varia estrazione con alle spalle esperienze politiche diverse. Tra loro ci sono pensionati, ex operai, laureati e un paio di giovani appena affacciatisi alla politica. Hanno scritto a Renzi, questi cittadini, chiedendogli di intervenire in Sardegna. Speriamo che il segretario capisca che nell’isola il patrimonio da salvaguardare sono loro e non i capi corrente e intervenga per davvero.
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