Programmi, qualche domanda a Raggi [di Arturo Celletti ed Eugenio Fatigante]
Avvenire, 8 settembre 2016. Ci sono due aspetti che colpiscono nello psicodramma capitolino di M5S. C’è la sconcertante serie di tossine, rivalità, gaffe, equivoci, dimissioni e camarille intorno e dentro la squadra di governo cittadino di Roma, che rischiano di far assomigliare il tutto a una pochade politica dai sapori forti. E c’è il coro, unanime, degli altri, partiti e dei mass media, lesti a “sparare” sulle inadeguatezze del Movimento e dei suoi rappresentanti, prefigurandone un rapido tramonto. Virginia Raggi siede in Campidoglio da nemmeno 80 giorni, forte di un consenso superiore al 67% dei voti. E ai cittadini è stato sinora offerto uno spettacolo non certo edificante, soprattutto se si pensa che la sindaca e i suoi hanno avuto dodici mesi per prepararsi (la vittoria elettorale di M5S era scontata). Ma è anche vero, dopo anni e anni di mala gestio della “vecchia politica”, quella più tradizionale, che il tempo passato è troppo poco per pretendere già di buttare dalla rupe Tarpea un’esperienza, quella del Movimento ispirato da Beppe Grillo, che resta innovativa soprattutto per la scelta strutturale di impegnare «cittadini» che – coi loro limiti e le loro virtù, senza aver mai avuto prima esperienze di governo – si attivano “dal basso” nell’amministrazione della cosa pubblica. Chi già prefigura una prossima «fine» dei cinquestelle lo fa perché spera di recuperare voti – populisti o pseudo tali – che però difficilmente torneranno alla base sic et simpliciter o magari perché tifa per vecchie logiche, quelle che hanno purtroppo dominato nella città di “mafia capitale”. La sua chance, però, la sindaca eletta a furor di popolo deve ancora sapersela meritare. Senza evocare a ogni difficoltà Grillo come deus ex machina. Senza costruirsi alibi a base di ostili «poteri forti» (che ci sono, ma per tutti). E senza straparlare, come fa Di Maio, di «casi montati dal sistema dei partiti e dell’informazione» (il caso, invece, c’è tutto…). Diceva di sé una grande donna di potere, Margaret Thatcher: «Non sono un politico che si basa sul consenso. Sono un politico che si basa sulla persuasione». Il consenso Raggi l’ha avuto. Le fa difetto la persuasione. Il vero pasticcio di questi giorni nasce dal fatto che, al di là della fumosa «visione biocentrica» esposta nel primo discorso al Consiglio comunale, non ha ancora comunicato ai cittadini romani – suoi elettori – una sola idea forte programmatica. Qual è la sua idea di Roma? Quali i suoi progetti? Che cosa prepara per rifiuti e trasporti, o per affrontare i tanti malesseri sociali della metropoli? E ancora, che cosa vuol fare per le Olimpiadi 2024? Se ha una sua linea, la sviluppi e se necessario la imponga. O ha paura di fare come Pizzarotti a Parma? Più che l’azzeramento delle nomine chiesto dal «direttorio» pentastellato, costruisca la sua “indipendenza” con un momento alto di trasparenza, quella trasparenza che il Movimento proclama tra i propri principi ispiratori. Va in questo senso il messaggio video che la sindaca ha lanciato ieri su Facebook. E mezzi ancora più efficaci sarebbero un passaggio in Consiglio comunale per un chiarimento istituzionale e, magari, una sorta di “discorso alla città”. Idem sulle nomine. Per Roma è tempo di governare, non di trastullarsi in una sarabanda di nomi. Su alcuni suoi collaboratori ci sono dubbi, non solo della magistratura (vedi Marra, indotto ieri sera a un passo indietro, come l’assessore Muraro, inevitabilmente in rapporti da anni con Cerroni, il 90enne “re dei rifiuti” a Roma), ma lei operi scelte definitive, davvero una volta per tutte e le difenda se è convinta delle capacità delle donne e degli uomini che l’affiancheranno nella complessità, anche tecnica, delle attività di guida di una capitale. «Le ipotesi di reato le decidono i pm, non i partiti né i giornali», ha tuonato ieri Raggi, dimentica forse del fatto che questo sacrosanto concetto vale sempre. Ora come allora. Insomma, vale anche quando gli indagati sono altri e il “tritacarne” del M5S scatta inesorabile. Certo, c’è la possibilità che imboccando questa strada, la sindaca Raggi finisca di diventare per M5S una replica di quello che l’ex sindaco Ignazio Marino era diventato per il Pd: un corpo estraneo. E questo sviluppo potrebbe non essere necessariamente un male. Raggi ha la personalità per farlo, riscattando l’immagine da “bambolina imbambolata” che si è lasciata appiccicare addosso anche coi suoi errori? Lei ha assicurato ieri di avere «le spalle larghe»: ce lo auguriamo perché Roma ne ha bisogno. Ma non si può, a questo punto, evitare una riflessione pure sul Movimento. La democrazia diretta è un bel concetto in sé, però è inevitabile che il principio dell’«uno vale uno» debba trovare un serio livello di “mediazione politica”. Quel che serve al Movimento, privo ormai della visione strategica di Gianroberto Casaleggio, non è tanto il ritorno di Grillo, che è e resterà sempre un trascinatore e al tempo stesso un leader sui generis, quanto un gruppo dirigente che sia al tempo stesso degno di questo nome e capace di sostanziale unità. Il «direttorio» – a parte l’infelice definizione – appare un club elitario autoreferenziale, e a tratti un’accozzaglia di primedonne. In esso finora è sembrata prevalere l’ambizione sulla lucidità politica, la voglia di contare piuttosto che quella di dare soluzione ai problemi, l’immagine e la battuta tagliente più che la sostanza (che non coincide con un completo da uomo Facis). M5S, insomma, deve riuscire a trovare una specifica e più efficace “via di mezzo” fra la natura movimentista di partenza e una struttura simile a un partito “vero” – anche se leaderistico, figuriamoci, visto che oggi lo sono tutti… – cioè capace di indicare una direzione, assicurare e governare la partecipazione dei militanti, prendere decisioni e proporsi come alternativa reale. Verrebbe da dire: “Dimostrate di fare gioco di squadra e pensate a Roma (e all’Italia), non ai vostri destini personali. Perché o ce la fa il Movimento o non ce la fa nessuno di voi”. Se non compirà questo passaggio, M5S finirà solo col rendere facile le rivalse nei suoi confronti. Quella intollerabile dei poteri opachi che hanno fin qui piagato la Capitale. E quelle dell’«altra politica». Che ha gravi responsabilità, infatti sanzionate dagli elettori, ma non è affatto tutta da buttare e, in qualche misura, a sinistra come a destra, comincia a considerare i propri errori e prova a liberarsi da tic e da ormai irrealistiche sicumere. Se accadesse, sarebbe una clamorosa autorete per i cinquestelle. E, sul piano partecipativo, una non-vittoria per tutti. A Roma non si pone solo un duro nodo amministrativo, ma anche e soprattutto una grande questione democratica. |