Gli italiani rivogliono le frontiere [di Ilvo Diamanti]

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La Repubblica 26 settembre 2016. Matteo Renzi ha avviato un conflitto permanente, in Europa. In particolare con gli azionisti di riferimento dell’Unione. Germania e Francia. Con i quali ha polemizzato per il mancato invito al prossimo vertice di Berlino. Si tratta, peraltro, di un atteggiamento sperimentato dal premier, in diverse occasioni. Più che euro-scettico: euro-tattico. A fini esterni e ancor più interni. All’esterno, nei confronti dei governi forti della Ue, Renzi mira a ottenere più flessibilità nei conti.

E maggiore sostegno di fronte al problema dell’immigrazione. Verso l’interno: cerca di allargare i propri consensi. Oltre la cerchia del Pd. Perché gli italiani sono anch’essi euro-tattici, come il premier. Hanno bisogno degli aiuti della Ue, ma la guardano con diffidenza. E temono gli immigrati. Si sentono esposti e vulnerabili ai flussi migratori. Così Matteo Renzi parla a Bruxelles e a Berlino. Ma si rivolge al proprio Paese. Agli elettori che lo sostengono, ma anche — ancor più — a quelli più tiepidi e distaccati. Tanto più in questo periodo di campagna elettorale in vista del prossimo referendum costituzionale.

D’altronde, come abbiamo osservato altre volte, l’atteggiamento degli italiani verso l’Unione si è sensibilmente raffreddato, dopo l’ingresso nell’euro, nei primi anni 2000. Allora eravamo i più eu(ro)forici in Europa. Quasi il 60% esprimeva, infatti, fiducia verso le istituzioni comunitarie. Ma il clima d’opinione è cambiato in fretta. Fino a scendere sotto il 30%, negli ultimi anni. Oggi è al 27%. E i più delusi sono gli elettori incerti, che Renzi contende ai partiti decisamente euro- scettici. In primo luogo: Lega e M5s.

Tuttavia, non bisogna pensare che gli italiani se ne vogliano andare dalla Ue, seguendo Salvini e la Lega. Né che intendano abbandonare l’euro, come vorrebbero Grillo e il M5s. La maggioranza, anche se largamente insoddisfatta, preferisce, comunque, restare. Perché la Ue e l’euro non ci piacciono. Però non si sa mai… Fuori potrebbe andarci molto peggio.

Tuttavia, il percorso verso l’unificazione lascia gli italiani sempre più insoddisfatti. Non solo sotto il profilo economico, monetario. E, naturalmente, politico. Ma, ancor più, territoriale. Perché, per esistere, uno Stato deve avere un territorio de-finito. Cioè, de-limitato. Uno Stato — federale — europeo deve avere confini esterni precisi. E confini interni, cioè, fra gli Stati nazionali, aperti. Comunque: sempre più aperti. Invece, i confini esterni appaiono sempre più incerti, mentre quelli interni si ripropongono, sempre più evidenti.

Marcati, talora, da muri (come in Austria e Ungheria). Mentre le frontiere diventano barriere. Come ha previsto il Regno Unito. D’altronde, la minaccia terroristica ha spinto a rafforzare i controlli. In Francia, anzitutto. Ma questa domanda è cresciuta anche altrove. In Italia, ad esempio. Dove le paure “globali” si diffondono in misura crescente, come ha sottolineato il Rapporto dell’Osservatorio sulla sicurezza dei cittadini (curato da Demos con l’Osservatorio di Pavia e la Fond. Unipolis).

Oggi, infatti, nel nostro Paese la richiesta di marcare e sorvegliare i confini appare largamente condivisa. Solo il 15% degli italiani (del campione rappresentativo intervistato da Demos nei giorni scorsi) pensa che il trattato di Schengen vada mantenuto. Garantendo la libera circolazione dei cittadini europei fra gli Stati (membri). Mentre una quota molto più ampia, prossima alla maggioranza assoluta, (48%) ritiene che occorra sorvegliare le frontiere. Sempre. E una componente anch’essa estesa, oltre un terzo della popolazione, vorrebbe che i confini nazionali venissero controllati “in alcune circostanze particolari”.

Il sogno europeo, immaginato e perseguito da “visionari“, come Altiero Spinelli, Jean Monnet, Robert Schuman e Konrad Adenauer, rischia, dunque, di fare i conti con un brusco risveglio. Almeno in Italia. Dove una larga maggioranza dei cittadini pensa di rientrare dentro alle mura, o almeno, alle frontiere, degli Stati nazionali. Questo sentimento si associa a orientamenti politici precisi.

Raggiunge, infatti, livelli elevatissimi fra gli elettori della Lega (oltre 70%) e di Centro-destra (due terzi, nella base di Forza Italia). Ma incontra un sostegno ampio (quasi 50%) anche tra chi vota M5s. Mentre si riduce sensibil- mente (sotto il 40%) nella base del Centro-sinistra. La richiesta di frontiere, peraltro, declina in modo particolare fra i giovani e gli studenti. Abituati a frequentare le Università europee, grazie al programma Erasmus.

Tuttavia, se valutiamo le principali ragioni che concorrono ad alimentare questo orientamento, una, fra le altre, assume particolare rilievo. Il timore suscitato dagli immigrati. L’arrivo e la presenza degli stranieri. Più della sfiducia nell’Unione europea e nelle sue istituzioni di governo, infatti, è la “paura degli altri” che alimenta la domanda di rafforzare il controllo delle frontiere. E contribuisce, in qualche misura, a far crescere la nostalgia dei muri.

Come se le frontiere e gli stessi muri potessero “chiudere” (e proteggere) un Paese “aperto” come il nostro. Verso Est, l’Africa e il Medio Oriente. Circondato, in larga misura, dal mare. In tempi di globalizzazione. Dove tutto ciò che avviene dovunque, nel mondo, può avere effetto immediato sulla nostra vita. Sulla nostra condizione. Sul nostro contesto. Per questo il dibattito politico sulle frontiere, in Europa ma anche in Italia, appare dettato da ragioni politiche e ideologiche. Perché le frontiere servono a riconoscere gli altri e de-finire noi stessi.

E, in quanto tali, come ha scritto Régis Debray, possono costituire “un rimedio contro l’epidemia dei muri”. Ma quando diventano muri ci impediscono di guardare lontano. Alimentano solo la nostra in-sicurezza. Non alleviano le nostre paure. Ma rafforzano solo gli imprenditori politici delle paure.

 

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