Ma davvero c’ interessa una Sardegna caramellosa, nostalgica, fashion? [di Umberto Cocco]

ottana

Un documentario (“Senza passare dal VIA”, di Antonio Sanna e Umberto Siotto) sull’industria a Ottana, presentato a Nuoro al teatro Eliseo, trae una conclusione drastica su quell’esperienza nata ormai 50 anni fa (i padri e i fratelli maggiori degli operai assunti per primi dalla Chimica del Tirso erano in Belgio a lavorare nelle miniere di carbone, sdraiati nudi in cunicoli alti fra 40 e 70 centimetri e con il motopicco fra le mani) e che sembra avere lasciato solo macerie. Curiosa coincidenza, il giorno prima il presidente della Regione a Fonni in un’assemblea di amministratori delle zone interne, aveva detto: «Se guardiamo agli esiti delle scelte fatte in tutti questi decenni, è chiaro che erano sbagliate».

Il filmato – finanziato dall’ISRE – è il racconto, in 80 minuti, dall’esito annunciato, scontato, di questo “sbaglio”.  La tesi non è nuova, anzi, è quella corrente, e da tempo, sul fallimento dell’industria, e peggio sul disastro antropologico che avrebbe determinato quel tentativo, la distruzione di una civiltà (pastorale), la disintegrazione di una società sia pure arcaica, la compromissione dell’ambiente, l’inquinamento delle terre, del fiume, dell’aria.

Realizzato nel corso di un anno dai due documentaristi nuoresi  non nuovi al racconto di una Barbagia non più felice e perduta, il filmato ricostruisce la scelta della chimica alla fine degli anni ’60 primi anni ’70 – e di quella localizzazione nella propaggine meridionale della provincia di Nuoro al confine con quelle di Sassari e di Cagliari – con interviste ai democristiani che la rivendicarono e poi la fecero: Ariuccio Carta (ottanese), Giosuè Ligios (Bitti), Angelo Roich (Galtellì), Pietrino Soddu (originario di Benetutti, assessore nella giunta Del Rio, che era originario di Sindia) in un’alleanza delle correnti fanfaniana e morotea nuorese e sassarese che vi videro l’occasione per rompere il dominio di Cagliari e di Sassari anche nell’indirizzare il processo di industrializzazione della Sardegna.

E’ la parte forse più interessante del documentario, per lo schieramento completo del ceto dirigente dc delle aree interne nel corso di alcuni decenni, che rivendicano anche con orgoglio quella stagione, solo qualche incertezza nello sguardo quando sospettano che li si voglia ridicolizzare, mettere alla berlina, bersaglio a scoppio ritardato della lettura oggi prevalente di quella loro politica.

Il controcanto è affidato alle testimonianze degli ultimi dieci anni, ai cassintegrati ancor giovani di Ottana Polimeri e della centrale elettrica, ultima infornata di classe operaia cui non è stato nemmeno lasciato il tempo di diventarlo (classe) e che nella solitudine dei campi incolti, del campo solare nella distesa fra i capannoni ex Anic, o sullo sfondo di un bar di Ottana, le foto delle maschere del carnevale alle pareti, raccontano davanti alla cinepresa delle illusioni perdute, la nessuna speranza dell’oggi, e sono ovviamente tristi, soli, appunto, forse nessuna passione politica, spirito per protestare.

Nel mezzo, fra questi poli del dramma rappresentato, anzi, della vera e propria tragedia, gli autori collocano a mo’ di coro Bachisio Bandinu e Giovanni Columbu, guide del documentario e della tesi-assunto della colonizzazione, dello sconvolgimento antropologico, del golpe (scriveva Columbu nella sua tesi di laurea) consumato a danno dei pastori, della Barbagia, del popolo sardo.

Tesi note, non troppo in voga in quegli anni, veramente. La memoria di chi c’era, il breve dibattito che è seguito al film,  e  le ricostruzioni storiche (ultima, quella di Salvatore Mura “Pianificare la modernizzazione. Istituzioni e classe politica  in Sardegna 1959-1969“, Franco Angeli editore, 2015) ricordano una opposizione assai blanda e quasi di maniera: solo avanguardie (rivoluzionarie, extraparlamentari) a volte violente, nel ricordo di Soddu, o studenti che leggevano Marcello Lelli e le sue ricerche sociologiche sulle conseguenze sconvolgenti per il ceto medio della industrializzazione di Ottana.

Anche fra i sardisti che entravano e uscivano nelle giunte regionali a guida Dc – e chiedevano e a volte ottennero l’assessorato all’Industria – solo qualche irregolare coltivava una ribellione alla ipotesi della grande industria, in chiave ruralista, come del resto anche nel Pci prevalse la scelta industrialista dopo battaglie intense anche dentro casa (celebre il confronto fra i fratelli Pirastu, Luigi e Ignazio, il secondo  componente della Commissione d’Inchiesta sul banditismo e relatore di maggioranza, non troppo favorevole alla grande industria, a differenza del fratello che era invece il responsabile economico del comitato regionale del Pci, e le cui posizioni prevalsero). Il documentario di Sanna e Siotto affida al solo ricordo di Ugo Collu, democristiano nuorese, la memoria dei nuclei di resistenza, in quel caso nella parrocchia delle Grazie («subito stroncato dalla curia», dice Collu).

Nonostante il convinto rivendicare del proprio ruolo nella scelta industriale, anche i democristiani della giunta regionale sarda subirono quasi tutto, o meglio condivisero una impostazione e scelte che era pochissimo nel loro potere condizionare, tantomeno rifiutare. Il progetto di industrializzazione per poli aveva per teatro l’intero Mezzogiorno d’Italia, per protagonisti prima dei monopoli e del grande capitale, i meridionalisti e gli economisti più autorevoli, più spesso laici e di sinistra, da Saraceno a Medici, Orlando, La Malfa.

In campo non c’erano altre opzioni, salvo una predilezione per le campagne e la riforma degli assetti proprietari che veniva da un’altra corrente, agraria, del meridionalismo, da Manlio Rossi Doria in giù.  E che, solo apparentemente sconfitta, produsse anche in Sardegna investimenti cospicui nelle campagne, nelle bonifiche, infrastrutturazioni, irrigazione, così come ingenti furono gli investimenti nel turismo (gli alberghi Esit ad Alghero e Santa Teresa, a Santa Caterina di Pittinnurri, Cuglieri, ma anche sul Monte Ortobene a Nuoro e a San Leonardo, Santulussurgiu), e nacque in quella temperie passato sotto il nome di Rinascita anche il filone del sostegno all’artigianato e alla piccola impresa, diffuso, a volte clientelare, ma questo è un altro discorso.

La Sardegna di allora, quella dell’interno, che il documentario  rievoca attraverso i titoli dei giornali, L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna (alla vigilia del passaggio di entrambi sotto il controllo di Rovelli), sembra fare da sfondo a un gioco tutto e solo politico e di scontro fra correnti Dc anche quando si accenna alla protesta che si accese nei paesi, l’occupazione dei municipi, la lotta dei contadini per le terre, anche qui vicino, a Bolotana, le marce su Cagliari (del 1965 è quella di Michele Columbu, sardista sindaco di Ollolai).

Una sola immagine di repertorio mostra un villaggio di quell’area a vent’anni dalla fine della guerra, Ottana nella sua desolazione, ma troppo frettolosamente. Non ci sono i dati sulla popolazione, l’emigrazione, la disoccupazione, l’analfabetismo, l’affollamento della campagna; e il banditismo, le faide, i sequestri di persona sembrano un’invenzione dei giornali tutta in funzione dello stravolgimento antropologico che si prepara, la distruzione di una civiltà, quella dei pastori ai quali verrebbe imputata dalla Commissione Medici che indaga nel 1968 sulle ragioni del malessere sociale delle zone interne, un’ incorreggibile propensione psicopatologica alla delinquenza e alla devianza.

La Cineteca sarda che ha dato una mano agli autori a trovare immagini di repertorio, conserva di Fiorenzo Serra per esempio le immagini di Sedilo nel 1956: siamo a un tiro di schioppo da Ottana, letteralmente. Scorrono in loop continuo davanti a “La madre dell’ucciso”, di Francesco Ciusa, nel museo omonimo, a Nuoro.

Come accade spesso, l’analisi a tesi, a tesi unica, semplifica, esclude scenari, restringe lo sguardo. Cosa succedeva nel resto del Mezzogiorno e dell’Italia, cos’era la chimica allora, cosa e quanto hanno prodotto Ottana e l’industria sarda in termini di Pil, reddito, culture, sensibilità, quando marciavano, e cos’è oggi, dove è sopravvissuta e perché (la Germania, dice niente? Anche se ci si può morire, vedi incidente alla Basf).

Non c’è un operaio vero di quegli anni, tra gli intervistati, ed erano migliaia, non un tecnico di qualità magari insieme anche dirigente politico e sindacale di cui pure la fabbrica per alcuni anni fu ricca e di cui si sono avvalsi per i decenni successivi a volte aziende delle partecipazioni statali, industrie private, centri studi.

Non c’è il racconto dei fratelli minori di quegli operai che insieme ai figli di pastori riempivano i pullman diretti a Nuoro carichi di studenti dopo avere portato gli operai in fabbrica o indietro in paese. Viaggiavano a metà degli anni ’70 da Orune a Nuoro 230 giovani studenti pendolari, ricorda un ex sindaco, Francesco Berria (non nel documentario, fra il pubblico della sala).

Non c’è una lettura dei nostri paesi oggi nelle zone fra Nuoro, Macomer, Fonni, al di là dell’autorappresentazione. Fra  i modelli agricolo e turistico in qualche modo realizzati in Sardegna, Arborea e Gallura, anche con il supplemento del Qatar, o il modello di Cagliari tutto ristorantini e birrette del quartiere Marina, forse si scoprirebbe un cedimento antropologico meno rovinoso a Orani, Bolotana, Borore.

Non è un limite dei due documentaristi. E’ un’analisi (sbagliata) che sembra essere nell’aria, cui la stagione politica di oggi fornisce nuova linfa, fra antindustralismo, ruralismo, appunto, il mito turistico che ad Austis qualche settimana fa l’assessore Paci ha rideclinato in chiave zone interne (era il giorno di “Autunno in Barbagia”…).

Ed eccoci alla coincidenza di vedute, fra il vago grillismo dell’oggi, l’indipendentismo romantico (che assolve la Dc e anzi ci flirta, quando può, ma è scatenato contro uomini e organizzazioni del movimento operaio, dal sindacato ai partiti) e i gruppi dirigenti regionali. Ne viene fuori una Sardegna caramellosa, nostalgica e senza futuro, tutta racchiusa fra i Giganti di Monti Prama e il mare cristallino, il silenzio e il vento, niente in mezzo a rovinare questa retorica falsa, figurarsi l’industria (nella zona industriale di Ottana lavorano oggi più di mille operai), compresa la sua incasinatissima memoria.

Com’è finito il convegno di Fonni? Con questo impegno del presidente Pigliaru: «Lo sviluppo c’è se ci sono le proposte progettuali: scegliamo insieme le azioni, poche e definite, e puntiamo su quelle». Un bel programma, di metà legislatura abbondantemente superata….. Il titolo del convegno era a sua volta questo: un Masterplan per le zone interne.

4 Comments

  1. Danila

    Bravissimo, condivido ogni parola. In più so da mio nonno che erano realmente convinti fosse la scelta più giusta per quelle zone, parla proprio della convinzione che quella fosse la modernità ed era un passaggio virtuoso e che avrebbe arricchito il territorio, come lo credevano i loro pari nelle altre regioni

  2. Nella crisi industriale di Ottana, ci sono anche i casi delle fabbriche di Bitti (Betatex) e Siniscola(Solis)
    di Vittorio Sella

    Non ho visto il documentario di Antonio Sanna e Umberto Siotto sull’ industria di Ottana. Ma ricordo la situazione politica che ha contradistinto gli anni in cui è sorta l’industria chimica nel nuorese. Contesto che Umberto Cocco, attento osservatore della condotta dei partiti politici, ha saputo raccontare e rievocare per scongiurare la tendenza a dimenticare le responsabilità dei ceti politici governanti, come sta capitando da qualche anno con certa saggistica all’insegna del noi non sapevamo. Ne condivido l’analisi e la riflessioni sul futuro delle comunità a rischio di morienza. Non dimentico, invece, il documetario “Una fabbrica inventata in un paese reale: Bitti” a cura della compianta Maria Piera Mossa, giovane regista sarda, che negli Settanta del secolo scorso ha saputo narrare il dramma della perdita del lavoro delle operaie assunte per qualche anno nella fabbrica tessile Betatex, nel cuore del nuorese. Oggi cimitero industriale nella piana di San Giovanni, frutto di quel disegno politico ed economico per poli di sviluppo, che ha coinvolto anche la pianura litoranea di Siniscola con la nascita della Solis, un’azienda divoratrice di soldi pubblci e mai entratata in funzione. Avrebbe, pensate, produrre il caffè bianco. La fabbrica, dotata di impianti con tecnologia all’avanguardia, non ha immesso sul mercato nemmeno un chilo di caffè. Per questi due casi siamo di fronte ad una realtà, tipica degli anni tra il il 1975 e il 1990 in cui la Sardegna non sceglie da protagonista il suo sviluppo, ma “ è scelta” da potentati esterni, da politiche economiche per la sua posizione geografica e dal sistema degli incentivi in contrasto con le esigenze di crescita delle “risorse locali”. Si è trattato di un modello che a cascata ha coinvolto più aree geografiche, anche in luoghi dove la presenza di una fabbrica appariva impensabile per l’assenza delle infrastrutture come le strade facilmente percorribili e i porti attrezzati. Si usava allora il termine “volano” per indicare il motore che avrebbe dovuto mettere in movimento il progresso economico con lo sviluppo a partire da alcuni punti localizzati all’interno delle aree marginali e in condizioni di sottosviluppo. Sono state create reti di infrastrutture in grado di accogliere gli interventi industriali di sviluppo? La realtà ha dimostra che cosi non è stato in tutte le aree individuate nella rete dei Poli come a Bitti ( Betatex ), area marginale di collina, come a Siniscola ( Solis ), area marginale di pianura, dove sono state localizzate negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso le due iniziative economiche ( Betatex e Solis ): entrambe sono crollate, anziché contribuire al decollo del processo di sviluppo con un nuovo settore economico. Si sono sovrapposte a ciò che in quelle aree si sapeva fare e occorreva fare, secondo un concetto di sviluppo endogeno e in aggiunta alle attività tradizionali basate sull’agricoltura, sulla pastorizia e sull’artigianato, radicati nel territorio, ma in deficit di modernità in quanto incapaci di assicurare il soddisfacimento dei bisogni materiali e culturali per tutti. La “modernità” invece è stata individuata nel sistema industria incentivato con il sostegno finanziario pubblico, che ha legittimato la dipendenza economica e sociale.
    I limiti sono venuti dalla distanza del polo industriale in collina di Bitti dal porto, dalla carenza di infrastrutture e dal piano di rapina delle risorse finite in mano ad un imprenditore-prenditore, che ha mandato in fallimento l’ impresa economica nel volgere di pochi mesi.
    Il secondo caso ( Solis ) non presentava problemi di distanza dal Porto o aspetti determinati dalle infrastrutture. A saltare, a fabbrica realizzata con impianti ad alta tecnologia sul piano della produzione e refrigerazione, è stato il Progetto in quanto tale: liofilizzare il caffè brasiliano trasformandolo da nero in bianco. Questo sistema, che per alcuni potrebbe essere stato un sogno, è saltato nel territorio tra mare, pianura e medio altopiano, ambiente tradizionalmente segnato dal lavoro agricolo, pastorale, e artigiano.
    I casi della Betatex e della Solis, entrambi a regia politica Dc ( Giosuè Ligios e Angelo Roich) per la vita effimera e lo spreco delle risorse finanziarie, sono diventate nell’immaginario collettivo simbolo dello sperpero di risorse. L’eredità che ne è conseguita è una realtà di nuova dipendenza, alimentata dalla casa integrazione e dall’ assistenzialismo, piaghe che mortificano il diritto al lavoro. Dinamica che Marcello Lelli ha saputo cogliere nel saggio “Proletariato e ceti medi in Sardigna”, pubblicato da Denato nel 1975, traendo un bilancio della esperienza dell’ industrializzazione selvaggia nella Sardegna con prevalente economia agropastorale.

    Vittorio Sella, giornalista pubblicista.

  3. Antonio Sanna e Umberto Siotto

    A proposito di “ Senza passare dal VIA”
    Caro Umberto, al dibattito dopo la proiezione di “ Senza passare dal VIA”, è intervenuto Saverio Ara, già sindacalista dei Chimici, che ha ripetuto le stesse cose che dice nel Documentario Francesco Tolu, già Operaio EniChem, già Segretario della Sezione PCI costituita all’interno della fabbrica e già rappresentante sindacale. E lo ha fatto, Saverio Ara, convinto che stava dicendo qualcosa di nuovo. Successivamente intervistato da Rai Regione, lo stesso ha dichiarato che il film era carente nel mettere in evidenza alcuni aspetti che invece il processo di industrializzazione aveva portato. Ebbene di quegli aspetti si parla nel film, ma probabilmente non come lui si aspettava e per questo forse non sono stati opportunamente notati. Se Saverio Ara avesse fatto le sue critiche in pubblico avremmo potuto discutere insieme della questione e avremmo potuto spiegare a lui e al pubblico, appunto, il perché di certe scelte nel montaggio finale del lavoro. Scelte che, come tu ben sai, essendoti cimentato nella produzione di un documentario, talvolta lasciano fuori aspetti importanti, che però non sono indispensabili per la comprensione della storia che stai narrando. E così vale per tutta una serie di altri punti che non sono nel Film, nella sua “colonna principale”, ma diventano importanti nel momento in cui, ad esempio nel dibattito che segue la proiezione, vengono aggiunti come aspetti inediti, contribuendo a rendere più corposi i contenuti dell’opera.

    Chi ha visto il film senza conoscere la storia del Polo Petrolchimico di Ottana, e quindi senza aspettarsi niente, ma anche chi la fabbrica l’ha vissuta dal di dentro, ha apprezzato il documentario “per la sua ricostruzione storica, puntuale ed efficace”. Quando abbiamo cominciato il nostro lavoro ci siamo posti una domanda semplice: Come nasce l’idea di portare una fabbrica petrolchimica nel bel mezzo di una valle che, abbiamo poi scoperto, aveva dei terreni ottimi per il pascolo e proprio in quel periodo si stava parlando di portare l’acqua per l’irrigazione? Volevamo cioè comprendere per quali ragioni la classe politica di allora avesse pensato di calare l’astronave Petrolchimica proprio in quel punto preciso dove poi è stata costruita. Posto che in una società non pressata da impellenti bisogni, come invece era ed è la nostra, di ieri e di oggi, tutto questo non sarebbe mai accaduto, quello di Ottana è stato un intervento assistito e non economico che, sin dai suoi albori, i vertici di ENI e Montedison, rivelarono essere ad orologeria, che sarebbe cioè durato venti, venticinque anni al massimo. Come poi è stato, rispettando quasi una sorta di crono-programma. E allora tutto ciò che ne consegue in qualche modo è viziato, perde il suo significato iniziale per assumerne altri, sempre importanti beninteso, ma diversi. E mi riferisco ad esempio alle tante e combattute e sofferte battaglie degli operai per fermare la serrata degli impianti, decisa a più riprese dalla proprietà sin dai primi anni di produzione della fabbrica. Ed è quello che mostriamo nel film, nei modi che rispondono ai criteri che hanno guidato la nostra ricerca. Che alla fine si conclude per forza con il decretare un fallimento. E non perché lo decidiamo noi, ma perché è nella natura stessa di quell’intervento.

    E a proposito della catastrofe antropologica di cui parlano Bachisio Bandinu e Giovanni Columbu, secondo il Professor Bottazzi, Sociologo dell’Economia e uno degli intervistati del film, tale catastrofe antropologica non c’è stata o forse è mitigata “..se la crisi di Ottana non sia stata più dirompente e lacerante ancora di quanto non sia stata è perché molti operai di Ottana hanno mantenuto un piede nell’agricoltura e nella pastorizia…”. Crediamo anche che analisi di questo tipo debbano essere fatte con criteri scientifici e non all’interno di un Documentario come il nostro che non ha questo taglio e inoltre deve anche rispondere a precise esigenze di tempi e di ritmi della narrazione. Visto che stiamo parlando di un film e non di un saggio.

    Detto questo, due righe su alcune imprecisioni contenute nel tuo servizio. La produzione di “Senza passare dal VIA” è durata 18 mesi e non un anno. Il film è totalmente indipendente, e come vedi lo sottolineiamo perché sia ben chiaro a tutti, e non è affatto finanziato dall’ISRE, il quale, nel rispetto del suo ruolo istituzionale, ha ritenuto opportuno darci un piccolo contributo necessario per completarne la post-produzione. Il ruolo della Società Umanitaria, che tu dici avrebbe potuto darci le immagini di Fiorenzo Serra del 1959 (?), peraltro coperte da diritti, lo ha spiegato bene il direttore Antonello Zanda la sera della presentazione, era quello di fornirci un supporto tecnico ed audiovisivo anche svolgendo un ruolo di mediazione con la RAI, che ci ha gentilmente e gratuitamente concesso quelle splendide immagini relative proprio ad Ottana paese e alla fabbrica, che in quell’anno, il 1974, stava entrando in produzione. Sulla classe operaia che tu ritieni non trattata come ti aspettavi, beh non possiamo che ripeterci, dicendo che, solo parlare della sua nascita, del suo sviluppo e della sua evoluzione nel lungo, ma limitato, periodo in cui la fabbrica ha funzionato, meriterebbe senz’altro un film con un taglio decisamente più antropologico e sociologico di quello usato nella realizzazione del nostro film. Ci permettiamo di ricordarti che tra le persone di Ottana che vengono intervistate c’è anche chi è a favore dell’impianto e anche chi, come l’ex operaio della Centrale Termo Elettrica ( ancora un operaio), dice di avere avuto benefici economici e culturali dall’aver lavorato in fabbrica. Al contrario di quanto affermi, ad Ottana oggi, e nel computo abbiamo messo pure i lavoratori della Maffei, (azienda estrattiva che ha in concessione ben 250 ettari di territorio), operano 21 aziende, per un totale di 379 occupati e non un migliaio.
    La Commissione d’Indagine sui fenomeni di Criminalità in Sardegna, detta anche Commissione Medici , fu proposta nel 1968, fu istituita con legge del 27 ottobre del 1969, lavorò fino a tutto il 1971 e presentò le sue conclusioni in Parlamento nel marzo del 72 e non nel 1968 come da te riportato. Le conclusioni della Commissione vengono oggi usate come elemento determinante la nascita dell’industria, ma è probabile, che, sin dal momento in cui si capì che il progetto iniziale fosse fallimentare, venissero e vengano utilizzate strumentalmente per scaricare sulla stessa Commissione l’idea che per sconfiggere il Banditismo occorresse costruire il Polo Petrolchimico.
    A questa si aggiunge la propaganda fatta nei principali quotidiani sardi, che erano di proprietà del Presidente della SIR Nino Rovelli, già prima dell’avvio del processo di industrializzazione della Sardegna Centrale. La Commissione Medici auspicava la creazione di un Università nel centro Sardegna e quasi mettendo in pratica le parole di alcuni uomini di Governo di allora, i quali affermavano che per riportare le Zone Interne dell’isola, fuori dal loro stato di arretratezza, occorressero interventi produttivi e non la repressione poliziesca, a Nuoro l’Università è stata creata nei locali che un tempo ospitavano proprio la Questura.

    Infine, per concludere, una domanda sul titolo del tuo articolo che parla di nostalgia e di una Sardegna melensa. Puoi spiegarci, perché non lo abbiamo capito, se si riferisca al film che tu hai visto, ai contenuti del post o al nostro film?

    Antonio Sanna e Umberto Siotto

  4. Peppino Tore

    La classe operaia non e’ stata trattata come mi aspettavo , e condivido in parte il parere degli autori , il cosidetto taglio antropologico andava inserito per comprendere meglio una realta’ probabilmente agli autori non a fondo conosciuta.Credo che questo aspetto lo devono curare gli stessi lavoratori intervistati , in primis Francesco Tolu , Saverio e tanti altri, che quella realta’ hanno vissuto in prima persona e dal di dentro la fabbrica,non di nostalgia si tratta ,ma di memoria storica.Non mancano la documentazione necessaria e le capacita’ culturali e dialettiche,per portarla a termine. In pochi abbiamo iniziato a parlarne e lavorarci sopra , sono del parere che potremo arrichire la memoria storica , spiegare l’ evoluzione della societa’ nella quale eravamo immersi, i cambiamenti nella nostra zona geografica ,da figli di pastori a operai ,tecnici con alta professionalita’, preparazione culturale medio – alta, che ha consentito tanti di noi di occuparsi di problematiche nel sociale,divenendo operai – dirigenti sindacali,amministratori comunali ,assessori, sindaci, deputati regionali e Nazionali.
    Giuseppe Tore

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