Ottana, fra passione e memoria [di Franco Mannoni]

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In un freddo pomeriggio di marzo del 1969, nella Piazza di  Ottana, il Ministro Taviani annunciò la costituzione dell’Area  Industriale della Sardegna centrale, con ciò aprendo esplicitamente la strada all’industrializzazione affidata alla chimica. Con lui Ariuccio Carta, Ligios, Roich.

Ad ascoltarli eravamo una piccola folla di persone che non immaginavano di assistere al battesimo di un’operazione che avrebbe marcato il futuro di quelle aree  nei quarant’anni a venire. Dietro quell’evento anni nei quali la criminalità aveva imperversato: un rosario di sequestri di persona, sei, sette, dieci rapimenti in ciascun anno. Faide  nei paesi insanabili e sanguinose. Le campagne costellate da latitanti.

L’arresto di Mesina, nel sessantotto, ai quale gli studenti assiepati vicino alla Questura di Nuoro tributarono applausi calorosi.  Città e territori chiusi nelle rete soffocante, quanto spesso inutile, dei Baschi Blu. I conflitti a fuoco con l’uccisione frequente di poliziotti e carabinieri, i funerali di Stato, i discorsi dei Presidenti della Repubblica. La società del malessere, titolo che riassumeva un senso. Le scuole dell’obbligo in condizioni arretrate, come le avevano descritte Maria Giacobbe e Albino Bernardini.

Anni di miserie e disagio sociale che sfociavano in sommovimenti popolari. L’impotenza dello Stato, l’insufficienza delle politiche della Rinascita che si avviava, attraverso la Commissione Medici, alla ricerca di una fase nuova con una nuova legge, quella che sarebbe stata la 268 del 1974. L’annuncio di Taviani innescò più speranze che timori. Fu la DC, come ha scritto Umberto Cocco, a partorire l’ iniziativa, secondo lo schema costruito per il Sud che rispondeva alle logiche del monopolio, pubblico e privato.

Chi decideva l’ulteriore espansione della chimica e l’ulteriore finanziamento pubblico di essa erano gli interessi del capitalismo di stato e di quello a esso collegato. L’idea di rompere la spirale del sottosviluppo attraverso l’industrializzazione, propugnata da Colavitti e Saraceno, trovò l’adesione della Dc nuorese,  che monopolizzò l’iniziativa. Il PCI non fu protagonista, ma si mise sull’onda e poi, con la sua forza organizzativa, cercò di esercitare la sua egemonia in fabbrica, riuscendovi largamente. I Sardisti furono favorevoli anch’essi. La tesi di laurea  anticolonialista di Giovanni Columbu non trovò infatti sostanziale seguito nel partito.

Nel PSI vi erano a Nuoro due eminenti personalità, Gonario Pinna e Peppino Catte, rispettivamente suocero e genero. Catte volgeva impegno e interesse alla trasformazione della pastorizia e del mondo a essa collegato, convinto della possibilità di evoluzione. Pinna era convinto della necessità di una rivoluzione culturale e pedagogica. Nessuno dei due un industrialista. Ma non si può dire che nel PSI nuorese fossimo contrari al disegno.

Oggi pullulano gli esperti del modello di sviluppo sbagliato, i critici a posteriori dei percorsi seguiti. Come se ai sardi avessero detto-Scegliete, queste sono le alternative possibili, i capitali per l’investimento sono comunque disponibili-. La realtà è che decideva chi ha sempre  deciso invocando le leggi ferree del mercato. Probabilmente non esisteva neppure, in circolazione, una linea condivisa  verso uno sviluppo altro. Al massimo una retorica dell’opposizione, di tipo  rivoluzionario e minoritario. Non una ipotesi altra. Comunque l’illusione che, scelto il modello di sviluppo, tutto poi debba procedere coerentemente all’infinito, è piuttosto ingenua.

Quando partirono i programmi di insediamento, si mise in moto una grande spinta di attività. Furono anni formidabili, di rivitalizzazione del tessuto urbano, di crescita dell’occupazione e della ricchezza. Ottana portò a cambiamenti profondi. La fabbrica costruì nuovi protagonismi, gli operai divennero trainanti  nelle loro comunità. Si obietta che negli anni settanta, e ottanta, banditismo e sequestri di persona continuarono a imperversare, con ciò denunciando l’infondatezza dell’assunto industrializzazione = recisione delle radici del malessere.

Sappiamo che ricorrere ad automatismi siffatti e tentare di verificarne le evidenze nel tempo breve è operazione banale. I sequestri conobbero il loro declino negli anni ottanta per operazioni di cui tanto si è parlato. Se ciò è avvenuto non sarà anche perché la loro radice non trovava più terreno fertile? L’industria di Ottana andò rapidamente verso il declino senza mai aver raggiunto l’apice della sua parabola. Gli anni ottanta, e i successivi fino a oggi, sono stati quelli della difesa dei posti di lavoro. D’altronde il tracollo riguardava tutta la Sardegna e la trincea era unica.

A mio parere un punto critico di tutta la vicenda si colloca nel non aver colto tempestivamente , a cavallo degli anni ottanta, l’irreversibilità della crisi e l’opportunità/necessità della riconversione/sostituzione.

Alcuni di noi ebbero l’intuizione di pensare che, in coerenza con la nuova legge di Rinascita, occorresse portare nel sistema produttivo e far crescere le competenze, i  saperi  e l’innovazione. L’innovazione da costruire, ma anche da importare nel tempo breve. L’innovazione da trasferire alle piccole e medie imprese. Cercammo di tradurre  l’idea in iniziative e istituzioni, creare i centri di ricerca, importare intanto i premi nobel per organizzarla.  Solo in parte trovammo sostegno.

Se avessimo trovato più condivisione, o se l’avessimo perseguita con più convinzione, l’impatto sui sistemi di produzione sarebbero stati più vasti di quelli, pur postivi, ancor oggi in campo. Non ho visto ancora il documentario da cui è partito il confronto. Sono stimolato da alcuni interventi di commento.  Mi chiedo comunque  se dovrò invecchiare, spero a lungo, continuando a sentire la litania del fallimento della rinascita e della catastrofe antropologica di Ottana.

Non credo né nella prime né nella seconda.  Certamente nella testa di chi ha ideato Ottana c’era l’idea e l’intento della rottura della società  pastorale e il prosciugamento , così ritenevano, del brodo di coltura del banditismo.  La società pastorale ha dovuto poi confrontarsi con un avversario ben più forte, la modernizzazione di stampo mercatistico, alla quale rischia, sì, di soccombere.

Il fallimento della Rinascita e la catastrofe  antropologica di Ottana appartengono a una retorica consolatoria che esime da analisi più approfondite e severe anche nei confronti di chi tende ad evitarle.

Ritornando al punto di partenza, osservo che sicuramente c’era anche, nelle periferie  dell’impero DC, l’idea di consolidarsi come area di potere, attraverso il controllo dello sviluppo. Non è andata così. Né sul piano dei risultati economici e sociali, né su quello della politica. La DC  perse per decenni e per sempre il ruolo guida nella politica di quelle zone.

Questo per ricordarci che la storia, nella sua forza e nel divenire, è restia a seguire gli schemi, sia quelli progettuali che quelli interpretativi.

One Comment

  1. antonio

    quelle disastrose scelte fatte a roma con la complicità della dc locale che all’epoca sfiorava il 50% dei consensi servì x la “rinascita” dell’industria chimica italiana. Ho avuto modo di esprime i complimenti ad Antonio Sanna lamentando l’assenza di spazio quasi totale a chi anche allora si battè contro quelle scelte sciagurate. Gli ho suggerito di colmare la lacuna dando spazio anche a chi seppe esprimere il forte dissenso. Il film non è finito,in futuro se seguiremo l’iter delle bonifiche si ripeteranno le stesse commedie con stanziamenti alle solite imprese “romane” che fingeranno di bonificare i luoghi del misfatto…………………..

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