Parlare della Sardegna contemporanea non è questione di un documentario [di Umberto Cocco]

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Il titolo del mio articolo sul vostro documentario (Ma davvero c’interessa una Sardegna caramellosa, nostalgica, fashion?), cari Antonio Sanna e Umberto Siotto, è della redazione. E’ bello, azzeccato, e si riferisce alla Sardegna che sembrerebbe essere nella testa di certa politica regionale, per il linguaggio che parla in questi anni nel rappresentarsela e rappresentarla agli altri (nel sito, nelle pagine di promozione su giornali e tv, nel generale discorso pubblico) attingendo più che dagli studi (anche degli economisti di riferimento, e cioè sé medesimi) da certo senso comune diffuso, quel misto di antindustrialismo alla fine dell’industria, di ruralismo di maniera, turismo e archeologia, Giganti misteriosi e grandi silenzi, nostalgia, una spruzzata di indipendentismo e molto renzismo che sembra la confusa conferma della crisi che stiamo attraversando.

Questo senso comune nel vostro documentario è  presente, lo informa, lo conclude come era già chiaro nelle premesse, partendo dallo stesso presupposto affermato il giorno prima della vostra uscita all’Eliseo dal presidente Pigliaru: tutte sbagliate le scelte degli ultimi decenni.

In che Sardegna ci piace riconoscerci, se tutto è fallimento quel che è stato, fra l’arcaico che va dai nuraghi e da Monti Prama sino agli anni alla vigilia dell’industrializzazione di Ottana? Le miniere del Sulcis sì o no? (La materia prima lascerebbe intendere di sì, certo il capitale veniva da fuori… E ora che il capitale è nostro, regionale, e il carbone lo stesso, che si fa?). I sardi in Belgio sono storia della Sardegna, o no? (E le miniere di carbone in Belgio sono una industrializzazione di successo o un fallimento?)

Sembra di capire che ogni polo industriale della Sardegna sia stato un fallimento, Ottana e Assemini, Porto Torres e Arbatax (o Arbatax no, giacchè lavorava carta estraendola dal pinus radiata coltivato nei boschi dell’Ogliastra?). O sono un fallimento quando non producono abbastanza? Ottana è fallimentare perché era un investimento “sociale” come sembra da alcune vostre considerazioni e dal senso del filmato, o perché era “coloniale” e a vantaggio dei grandi monopoli privati e pubblici, come si dice in altra parte, perché non era abbastanza produttiva e/o perché non lo è stata abbastanza a lungo?

Darei retta a Vito Biolchini, che suggerisce di pensare all’opportunità di non adoperare gli strumenti dell’oggi per giudicare un passato di mezzo secolo fa: quando evidentemente non erano troppo a disposizione, se furono assai rari gli oppositori di quel disegno, nonostante Marcello Lelli, però assai poco letto (gli operai di Ottana lo leggevano), e la tesi di laurea di Giovanni Columbu, che evidentemente i sardisti non condividevano, allora che erano in Regione, all’assessorato all’Industria, e in ottimi rapporti con la Dc.

E darei credito a Franco Mannoni, perché era un testimone allora, a Nuoro, e lo è stato dopo, protagonista di un’interessante fase della nostra storia recente, dall’assessorato alla Programmazione. (Un 27 ottobre di 54 anni fa moriva Enrico Mattei, in un incidente aereo di ritorno dalla Sicilia, da un paese della provincia di Enna dove pronunciò un discorso rimasto celebre non solo perché ricostruito nel film di Rosi, a sostegno delle estrazioni petrolifere a Gela. Il ricordo di Franco Mannoni del ministro Taviani a Ottana  fa tornare a quel tempo, anche se a noi toccò Cefis).

E’ il ragionare nel quale mi riconosco, dà il senso della complessità di quella fase, ci raccomanda di non semplificare, e coglie il punto di svolta di quel processo industriale, di svolta mancata.

Ma torniamo alla Sardegna ideale. Dite: la piana di Ottana irrigata, e vi sembra che avrebbe potuto essere un’alternativa all’industria. Ma quella piana è irrigua! Da Orani a Bolotana, a Ottana, Noragugume, Sedilo, l’acqua viene giù dal sistema del Taloro. Irrigata no, e non per colpa dell’industria. E’ anzi l’area irrigua con la più bassa percentuale di uso dell’acqua, meno del 10 per cento dei terreni irrigabili. (Se passate dall’agricolo Campidano, non è molto diverso, oggi). Sono finanziamenti pubblici, seguirono a quelli nell’insediamento Ersat al confine fra Ottana e Sedilo, un altro fra Ottana e Illorai.

Il professor Vacca – che avete intervistato nel documentario – vi avrebbe potuto dire qualcosa su come venne concepita quell’operazione, e magari un operaio di Ottana (ve ne indico alcuni) tornato in campagna anche senza che Bottazzi lo prevedesse, vi racconta come e perché sono in pochi che usano l’acqua, e che spreco di risorse sia stata quella infrastrutturazione, a voler semplificare.

Ma la pastorizia è più solida dalle nostre parti guarda caso proprio da quegli anni, gli stessi dell’avvento dell’industria. Perché si alleggerirono le campagne da manodopera in eccesso, perché i giovani pastori non assunti in fabbrica, presero le greggi e le portarono nelle piane, da Orune alla Nurra, da Bitti a Olbia, non più in transumanze stagionali ma insediandovisi e costruendo aziende a valle. Perché è di quegli anni la legge 44 sull’agricoltura, il monte pascoli, le cooperative di servizio sconosciute alla tradizione dei pastori dell’interno.

La Commissione d’inchiesta sul banditismo,  non la povertà dei pastori riteneva fosse la causa della cultura “arretrata” di queste aree, come ricorda Nicolò Migheli, ma il nomadismo, il pascolare le piccole greggi su pascoli incerti, negli interstizi, nei comunali, fra spezzettate proprietà e terreni in affitto lontani fra loro, senza possibilità di insediarsi, presupposto del fare impresa. E non era una giusta analisi?

Le comunità pastorali del nostro romantico passato sopravvivono e si sono anzi salvate andandosene dai nostri paesi. Bel paradosso, non vi sembra?

E aggiungerei, a proposito di demonizzazione dell’industria: la pastorizia sarda è forte ed è la più forte in Italia, ed è una cultura il pastoralismo e ci piace dire una civiltà, ma grazie a un altro evento: che vennero i piccoli industriali del Lazio a trasformare il latte nei caseifici, e i sardi che si cimentarono con questa impresa, i Pinna, per esempio, andarono nel Sulcis a fare questo, qualche sardo in Toscana, qualche greco in Sardegna, anche a Olbia, gli Albano a Macomer. Colonizzazioni buone? Siamo agli inizi del Novecento o, a tornare indietro, agli ultimi decenni dell’Ottocento, ed è in virtù di questo passaggio di modernizzazione che possiamo conservare questa “antica” cultura biblica. Il pecorino “romano” è stato  il big bang della nostra mitica pastorizia sarda.

Anche per questo nemmeno l’endogeno e l’esogeno mi sembrano categorie interessanti – direi a Nicolò Migheli e a voi – né a proposito dell’economia né a proposito delle culture, e delle identità.

Prima dell’avvento delle tecnologie informatiche che godono di una grande considerazione – e tutti vorremmo avere una grande fabbrica della Apple nella zona industriale più vicina a casa, con migliaia di occupati (ingegneri informatici? Laureati dove?) –  l’industria è stata rovinosa sempre, dappertutto. Una catastrofe sempre. Lo è quasi per definizione. Catastrofe ambientale, antropologica. O a Londra non lo fu, nella Londra di Dickens? E nelle miniere di “Germinale“, nord della Francia? E non fu coloniale, come lo è oggi, quasi dovunque? E non lo è quando fa altrove le produzioni che non vogliamo più fare noi, a cui piacerebbe lavorare a programmare computer dopo aver fatto un corso qualsiasi di formazione professionale della Regione, che li sta rilanciando, zitta zitta?

E non siamo già a una nuova catastrofe antropologica, quella della fine del lavoro, cui stanno portando le tecnologie informatiche? Tutto questo ci fa balbettare, sicuramente balbetta il pensiero democratico moderno: lo scrive oggi Aldo Schiavone sul Corriere della Sera.

Balbetta chi scrive, nel suo piccolo, con un’esperienza diversa dalla vostra. Ma dal mondo che sembra nascondere il segreto dello sviluppo giusto, dell’industria endogena, pulita, che avrebbe reso la Sardegna un paradiso, non è che sia venuto o arrivi ora granché di nuovo. E non è che non ne abbiamo sperimentato gruppi dirigenti, nei nostri paesi e in Regione, a Ottana e a Macomer, nelle province, negli enti, studiosi nei centri studi anche in quello della programmazione della Regione, radicali come Columbu padre e Michelangelo Pira, e direttori di giornali altrettanto anticentralisti e spesso indipendentisti,  economisti pagati dalle amministrazioni pubbliche, consulenti di giunte di destra e di giunte di sinistra.

Prima e dopo la fine della Dc , l’indebolimento e la fine della Dc, che giustamente Mannoni ricorda a tutti per evitare luoghi comuni (come quello nel commento di tale Antonio sotto lo stesso articolo).

Questa storia di Ottana con cui non si finisce di fare i conti, rimasticando sempre la stessa nostalgia del prima, nessuna elaborazione vera, sembra un grandissimo alibi, un feticcio da conservare per ri-bruciarlo a ogni carnevale,  per ricordare a tutti che lì è lo sbaglio, e che tutto quello che viene dopo è catastrofe conseguente. E giustificazione del nulla della proposta programmatica e della progettualità politica di oggi.

Come vedete, non è questione del documentario.

 

 

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