Parallelismi, tra convergenze e divergenze [di Stefano Puddu Crespellani]
Poche settimane fa, tra il 21 e il 23 ottobre, il festival “Mitzas, sorgenti di cambiamento”, organizzato dal circuito Sardex, proponeva un titolo suggestivo: «Parallele convergenti». La formula assomiglia a quella più nota, attribuita a Aldo Moro negli anni ormai remoti del “compromesso storico”, quando si parlava di “convergenze parallele” tra le due forze antagoniste della politica italiana, DC e PCI, a fine anni settanta. Lavorare sui parallelismi è sempre affascinante, per cogliere le possibili simmetrie degli avvenimenti, anche su scenari diversi, e arricchire di senso la loro comprensione. Ha certamente il suo simbolismo il fatto che Anthony Muroni abbia scelto lo stesso luogo e la stessa data di Mitzas (teatro Massimo, 22 ottobre) per presentare pubblicamente il nuovo blog che porterà il suo nome. Da questo spazio virtuale, l’ex direttore dell’Unione Sarda si propone di proseguire, stavolta in formato bilingue, il lavoro informativo che così bene ha svolto già in passato, in particolare quando è dedicato alla Sardegna, ai suoi bisogni e alle sue potenzialità. La convergenza di intelligenze, di voci diverse e di sensibilità complementari che hanno accompagnato questo evento sono state certamente beneaguranti quanto alla sua proiezione futura, qualunque essa sia. Peraltro, non è una mera coincidenza neanche il fatto che, appena una settimana prima, cinque sigle del mondo indipendentista presentassero, sempre a Cagliari, un tavolo di dialogo aperto a chiunque voglia sommare energie per rafforzare la proposta politica alternativa rivolta alla società sarda. Tutto questo, in uno scenario in cui la politica regionale sta battendo tutti i record di inefficenza e succursalismo. Proviamo ora a spostare per un attimo il punto di osservazione dallo scenario sardo a quello iberico, che ha vissuto di recente delle convulsioni estremamente istruttive, giunte al termine proprio in questi giorni. Per capire la gravità dello stallo, basti pensare che è dal novembre dello scorso anno che la Spagna non ha un governo eletto, e due turni elettorali non sono stati sufficienti per definire una maggioranza chiara a Las Cortes di Madrid. Per poter eleggere Mariano Rajoy come presidente del governo è stato necessario un vero e proprio golpe interno al PSOE, per togliere di mezzo Pedro Sánchez, il segretario che non era disposto a rimangiarsi la promessa elettorale di non dare mai, per nessun motivo, il suo appoggio all’investitura dell’avversario politico, nemmeno in forma di astensione. L’harakiri del PSOE è stato pilotato da quello che si conosce come l’IBEX35, sigla che raccoglie le principali imprese della borsa spagnola; è stato lo stesso Sánchez, giorni fa, a fare i nomi delle banche e imprese che hanno mosso le fila, tra cui spicca un notissimo gruppo di informazione, PRISA, editore del quotidiano El País. L’economia ha dettato, insomma, le “ragioni di stato” per le quali era necessario fare inghiottire il rospo di questo patto, radicalmente contrario al senso del voto: la prima è che bisogna rassicurare i mercati, cioè i capitali finanziari globalizzati; la seconda è che bisogna blindarsi dal pericolo separatista, che nel caso della Catalogna, per esempio, si trova ad uno stadio di maturazione avanzatissimo. È chiaro, dunque, che l’economia che ci governa non può permettersi grandi dosi di democrazia. Solo il minimo indispensabile. Le banche e la stampa sono abilissime nell’intervenire, quando serve, per alterare lo scenario, mettendo in campo i loro strumenti ad alto potenziale tossico: il denaro e l’informazione. Davanti a fatti di questa gravità, peraltro, incominciano a cadere i veli dell’inganno: si capisce chiaramente che il bipolarismo è un conflitto falso, un teatro delle apparenze; PP e PSOE difendono lo stesso progetto, che non riguarda gli interessi di chi li vota, bensì di chi paga loro le campagne elettorali e le prebende. Per questo è nel giusto Pablo Iglesias (Podemos), quando segnala che l’asse del conflitto politico si è spostato: da un lato PP, PSOE e Ciudadanos (marca bianca della destra 2.0); dall’altra Podemos, portavoce dell’esperienza degli indignati, alleato con forze della sinistra ecologista, e disposto a dialogare con le forze catalane e basche, che rivendicano l’autogoverno dei loro territori. La gente contro i potenti. Perché quello che sta in gioco sono due nuclei forti dell’antagonismo: un approccio diverso all’economia, e una visione dello stato aperta all’autogoverno delle nazioni storiche, che sono poi, insieme alla sostenibilità, i temi dirimenti delle politiche dei nostri tempi. I grandi partiti, ormai da tempo, non difendono più il popolo ma gli interessi forti, che sono quelli del capitalismo neoliberista e delle imprese che lo rappresentano. Poche, ma potentissime. L’incarico che queste lobby di potere hanno dato già da tempo a questi partiti, ancor oggi maggioritari, è quello di riscrivere le regole della legittimità democratica, per eliminare ogni ostacolo che si opponga all’esercizio del loro dominio. In Spagna come altrove. È questa la chiave, per esempio, del referendum costituzionale che voteremo tra appena un mese in Italia: si tratta di una riforma che, per un verso, vuole legittimare il fatto che una minoranza elettorale possa governare l’intero paese pressoché senza contrasto, accentrando i poteri nella figura del premier e accelerando tutte le procedure di attuazione da parte dell’esecutivo; per altro verso, attraverso il combinato della legge elettorale, intende chiudere le porte al terzo incomodo, attraverso sbarramenti elettorali e sotterfugi di ogni tipo. Una logica che presenta molti parallelismi. In Spagna il terzo incomodo è Podemos; in Catalogna lo sono gli indipendentisti; in Italia i cinque stelle; in Sardegna, due anni fa, è stata Sardegna Possibile, il movimento politico che è stato indegnamente sgambettato dalla classe politica sarda, bipartisan, con una legge elettorale vergognosa, approvata affannosamente a pochi mesi dal voto. I quattro casi citati sono certamente diversi, spesso ideologicamente non paragonabili, ma hanno in comune una divergenza strutturale rispetto alle premesse che fondano l’ordinamento dello Stato (accentratore) e/o dell’economia (capitalismo neoliberista). C’è quindi una tendenza, che possiamo riscontrare un po’ dappertutto, a spostare i termini dell’antagonismo politico: l’antico bipolarismo mimetico tra “centrodestra” e “centrosinistra” —nel quale gli acerrimi nemici in realtà si assomigliano moltissimo — sta lasciando posto a una nuova disgiuntiva, tra le forze che si contendono un centro conservatore (e lì si ritrovano), da una parte, e il definirsi di un terzo polo politico, disposto a ridiscutere i fondamenti del patto vigente, dall’altra. Il gran conflitto, in particolare, viene sollevato su due punti: l’idea che lo stato, per funzionare, debba rinunciare progressivamente alla democrazia reale, cioè alla partecipazione, all’equilibrio tra i poteri, al dialogo politico, per puntare invece su procedure emergenziali, accelerate e tecnocratiche; e l’idea neoliberista di una economia ossessivamente al servizio della crescita, questo mostro che divora tutto: democrazia, ecologia e dignità umana, mentre procede implacabile nella distruzione del Pianeta, trasformando ogni azione e ogni emozione in competizione. Il prevalere di queste due idee, tra loro molto ben articolate, ha generato nelle nostre società un nuovo servaggio, alimentato dall’insicurezza e anestetizzato dallo spettacolo. Ogni forma di disperazione sociale viene letta in chiave individuale, come una serie di vicende isolate, che possono far parte della cronaca, ma non della politica. La parcellizzazione dei problemi impedisce una lettura d’insieme, e una comprensione dei nessi che li uniscono; e alla fine, sull’altare dell’efficienza, siamo disposti a sacrificare i nostri diritti. Nel caso del referendum, per esempio, siamo disposti a perdere una parte di sovranità, quella legata al voto, o a privare le regioni della possibilità di decidere su materie strategiche, in cambio di una non meglio precisata “modernizzazione” della Carta costituzionale. In Sardegna, certamente, tutte queste osservazioni si confermano e ripropongono al massimo grado. Il mimetismo tra centrodestra e centrosinistra si è rivelato perfetto, alla luce dei primi due anni di sgoverno della giunta Pigliaru, che sembra essere riuscito nella non facile impresa di fare di meno, o di peggio, del suo predecessore. Questa situazione disperante di subalternità cronica rispetto ai poteri romani, ancorati a modelli obsoleti di economia e di stato, è ciò che rende urgente e non più rinviabile il compito di costruire un nuovo polo di riferimento, votato all’autogoverno dell’Isola, senza sudditanze esterne, che sia capace, inoltre, di una rigenerazione profonda della nostra vita politica. Perché non si tratta solo di cambiare un governo, ma uno stile politico, una concezione della democrazia e una visione sulla Sardegna. C’è bisogno di un approccio tanto pratico quanto visionario; che sia al tempo stesso esigente e amorevole; capace, soprattutto, di vedere, al lato delle mancanze, le potenzialità della società sarda. Per cambiare le cose occorre riuscire a valorizzare ogni singola virtù, ogni stilla di talento. Abbandonare la prassi della squalificazione sistematica, e questo nostro crogiolarci nel primato mondiale della maldicenza, per provare invece a ripartire dalla serietà e dal rispetto. Solo in questo modo potremo cominciare davvero a guardare in faccia i bisogni, e in particolare quelli più pressanti dei ceti meno favoriti, per studiarne le cause, esaminare gli ostacoli, analizzare le possibilità di intervento, e infine mettersi a lavorare insieme nei territori, incontrandoci con franchezza negli spazi di dibattito. Tutto questo, che può sembrare utopico, è viceversa un lavoro indispensabile, se vogliamo preparare il terreno per possibili convergenze attorno a proposte chiare di emancipazione collettiva e di autogoverno per i sardi. La costruzione di un polo alternativo richiede un lavoro attento sulle idee, per costruire un antagonismo positivo e concreto, innovativo e sperimentatore. Per ritrovare il nostro cammino come nazione, come popolo, a partire da un sentimento di comunità di destino e dalla condivisione di radici, lingua, cultura, dobbiamo avere il coraggio di evadere dalla prigione del capitalismo neoliberista, dalla sua ansia di controllo e di asservimento. Allo stesso modo, è necessario superare la logica accentratrice dello stato, di cui i poteri economici si servono per dominare la società in modo legale e indisturbato. Occorre, infine, essere capaci di uscire dai recinti mentali che rendono difficile il lavoro comune e la costruzione di una proposta condivisa. I parallelismi, insomma, non mancano; farli convergere verso un orizzonte convincente non è lavoro da poco, ma nemmeno un compito impossibile. Ciascuno, in questi prossimi mesi e anni, ha davanti a sè la sfida di avanzare verso questa meta, seguendo il proprio stile e le proprie convinzioni, disposto ad aprirsi agli scambi e cercando di non perdere la rotta. |
Stefano,
Condivido in toto il tuo scritto, quello che ho sempre pensato è appunto il consenso del popolo al cambiamento in senso fortemente autonomistico in primis ed eventualmente in seguito indipendentistico.
Oggi i movimenti e/o partiti indipendentistici sono troppo frammentari e così fanno il gioco dei partiti nazionali che la gente li reputa uguali a loro.
Senza il popolo niente si può fare e convincerlo al cambiamento è una impresa non da poco se si considera che non c’è un gruppo omogeneo che ci possa portare a vincere elezioni.
Sarei felice se continui a scrivere su questo tema e potessi leggerti
Grazie.
Grazie a te, Giorgio, per le tue parole. Speriamo di essere in tanti a pensarci, e a scriverne. Un abbraccio, s