Dietro la vittoria di Trump c’è la rivincita dell’uomo bianco [di Adam Shatz Mediapart, Francia]

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L’internazionale  11 novembre 2016. La vittoria quasi apocalittica di Donald Trump segna la fine dell’eccezionalismo americano: una certa idea degli Stati Uniti come modello di democrazia è morta. Non l’ha uccisa direttamente Trump: ne ha semplicemente dichiarato la morte con una campagna elettorale tanto surreale quanto reazionaria. “È un incubo”, mi ha scritto un’amica francese in una email. Le ho risposto che è peggio di un incubo, è la realtà.

Ma come spiegare questa realtà, il fatto che una maggioranza degli elettori statunitensi abbia ceduto alla tentazione Trump? Il motivo non sono la miseria economica, il razzismo o la xenofobia, nonostante l’intolleranza, radicata nella storia degli Stati Uniti profondi, sia un fattore molto importante nell’immaginario “trumpiano”. La vittoria di Trump si spiega con la cristallizzazione di un’illusione ideologica degli elettori, che vorrebbero ritrovare un mondo dove i bianchi, gli uomini bianchi, sono dei leader naturali e le minoranze vengono relegate a un ruolo subalterno. Un nero alla Casa Bianca era, per loro, un insulto insostenibile. Invece di sentirsi fieri del fatto che il loro presidente parlasse in maniera raffinata ed elegante, si sentivano umiliati.

Gli intellettuali liberali hanno espresso il loro stupore e il loro shock nel vedere a che punto un uomo di tali incompetenza e volgarità piacesse all’elettorato. Ma se i suoi ammiratori adorano Trump non è nonostante la sua incompetenza e la sua volgarità, bensì grazie alle sue qualità, nelle quali si riconoscono. Per i bianchi poveri che hanno votato Trump, Black lives matter è quasi una minaccia alla loro esistenza. Esiste un’idea, che è emersa anche prima della campagna elettorale e si è diffusa velocemente, secondo la quale i bianchi poveri sono i veri sconfitti della globalizzazione.

Rifiutano “il sistema” perché nessuno li ascolta. Le élite di New York e Washington li guardano con disprezzo, come se fossero incapaci di adattarsi a una nuova economia fondata sulle aziende tecnologiche e dei servizi. Quest’idea, che J.D.Vance ha divulgato nel suo saggio Hillbilly elegy (Elegia dei burini), nel quale spiega perché i poveri sostengono Trump, non è falsa. Ma non spiega tutto.

Occorre ad esempio sottolineare che, secondo i sondaggi, i trumpiani più accaniti non sono poveri ma piuttosto piccolo borghesi, la classe tradizionalmente più attratta dal fascismo. La loro “vittimizzazione” non è paragonabile a quella dei poveri né a quella dei neri nei quartieri difficili, dove la polizia agisce come una forza d’occupazione. Dall’omicidio di Trayvon Martin, nel 2012, centinaia di neri disarmati sono stati uccisi dalla polizia in circostanze quantomeno sospette.

Dei movimenti di contestazione, in particolare Black lives matter, sono emersi per protestare contro il trattamento riservato ai neri dalla polizia e denunciare la creazione di un sistema d’incarcerazione di massa. Un sistema che Michelle Alexander, nell’importante studio The new Jim Crow, ha paragonato alla violenta segregazione dei neri nel sud tra gli anni settanta dell’ottocento e quelli sessanta del novecento. Per i bianchi poveri che hanno votato Trump, Black lives matter è quasi una minaccia alla loro esistenza, poiché questo movimento rimette in discussione la sacralità delle forze dell’ordine. Non è un caso che Trump si sia alleato a Rudolph Giuliani, l’ex sindaco di New York, e con il portavoce di Police Lives Matter, movimento detestato dagli afroamericani, che ricordano l’era Giuliani come un’epoca di violenze e abusi da parte della polizia.

Il ripristino dell’ordine è, naturalmente, un tema che i repubblicani hanno manipolato fin dai tempi della Southern strategy di Nixon, la strategia volta a conquistare i voti del sud per sconfiggere il suo avversario democratico. Ma nelle mani di Trump questo tema ha acquisito un enorme potere psicologico. Ascoltando i discorsi violenti del loro leader, gli ammiratori di Donald Trump sono riusciti a sentirsi meno deboli, soprattutto quando questi denunciava i gruppi più indifesi – musulmani, messicani, profughi – come se fosse un western, il genere di riferimento nell’immaginario reazionario statunitense.

Una rabbia feroce La libertà di parola con cui i militanti neri rivendicano il loro diritto a non essere uccisi senza processo e a poter manifestare ha scatenato una rabbia feroce. I bianchi poveri pensano che la loro sofferenza non sia riconosciuta dai mezzi d’informazione e che, a causa del politicamente corretto, non abbiano diritto di parlarne o di affrontare i loro nemici. Ma ecco che, grazie a Trump, non sono più ridotti al silenzio come accadeva prima. Un Trump assolutamente privo di vergogna non nasconde le sue convinzioni razziste, islamofobe, sessiste e violente, ma anzi sembra esserne fiero.

Gli intellettuali liberali che l’hanno criticato per la sua ignoranza del mondo e la sua inesperienza hanno dimenticato che è esattamente in questa ignoranza e in questa volgarità verbale che risiede il suo irresistibile carisma. Per gli elettori di Trump, Obama incarna il male assoluto: un nero, probabilmente africano, profondamente cosmopolita, dotato di una padronanza verbale straordinaria e che ha governato con il sostegno delle élite neoliberiste, spesso ebraiche. Obama è l’espressione più pura – ma non “pura” nel senso di razza, il che è ancora peggio – della famosa “Eastern seaboard elite”: un gruppo composto sempre di più da figli di immigrati, la cui cittadinanza è ora rimessa in questione.

Chiaro prodotto di Harvard, questo gruppo incarna “il sistema”. Un sistema caduto nelle mani di stranieri sospetti: la sua ascesa segna, per loro, il furto – per non dire lo stupro – del loro paese, i veri Stati Uniti nei quali le persone hanno dei nomi di battesimo cristiani.

In questo senso Donald Trump incarna un rifiuto di massa e un desiderio di potere autoritario. Non è la promessa di liberazione dal neoliberismo, bensì quella di un ritorno a un paese che esiste solo simbolicamente. Con Trump si entra nella logica del fascismo, e non è un caso che nella sua campagna ci siano stati degli echi degli anni trenta: crisi economica; una classe sociale che ha perso il suo status e i suoi privilegi e che, per questo, cerca dei capri espiatori; violenze reali e verbali rivolte verso i movimenti di sinistra guidati da persone di colore; ambiguità riguardo alle proprie vere intenzioni, per esempio qualora si fosse trattato di accettare un’eventuale vittoria di Hillary Clintin.

Il primo discorso di Trump dopo la conferma della sua elezione ha ripreso alcuni temi centrali dell’immaginario nostalgico del fascismo, con l’elogio della famiglia e della potenza, la promessa di riconquistare l’economia globale e di ritrovare finalmente l’egemonia perduta.

Nel corso della cupa notte tra l’8 e il 9 novembre, è stato chiaro che Hillary Clinton non avrebbe mai dovuto essere candidata. Associata al progetto neoliberista di cui l’America profonda ha sofferto dai tempi dell’Accordo di libero scambio nordamericano (Nafta), un trattato vissuto come un complotto contro gli interessi del paese, la candidata democratica è stata anche assimilata ai problemi dei lavoratori immigrati e della deindustrializzazione. Bernie Sanders sapeva parlare a queste persone, e Hillary Clinton ha riconosciuto alla fine di aver bisogno di lui. Ha cercato di allontanarsi dalle dottrine neoliberiste.

Ha lasciato da parte il suo orgoglio (e il suo passato) alleandosi con Black lives matter, che l’aveva duramente criticata  per la sua famigerata allusione ai criminali afroamericani, paragonati a dei “super-predatori”. Questi cambiamenti di posizione le hanno permesso di conquistare nuovi consensi, ma hanno anche contribuito a rafforzare la sua immagine, già diffusa, di persona opportunista e poco affidabile. Gli uomini hanno il diritto di smentirsi e di cambiare – e se vogliono vincere è addirittura loro dovere farlo – ma gli statunitensi sono molto meno indulgenti quando il candidato è una donna. Questa diventa immediatamente “senza scrupoli”. E se rivela d’essere troppo vicina ai movimenti neri, per fare un esempio, sarà denunciata come “morbida” e incapace d’imporsi.

 La più grave delle ingiustizie Bernie Sanders avrebbe potuto sconfiggere Donald Trump? Non lo sapremo mai, ma non è un’ipotesi credibile. Un settantenne ebreo che si definisce socialista non aveva alcuna possibilità. Il comitato nazionale democratico lo ha osteggiato, facendo di tutto per evitare che diventasse il candidato democratico. Dopo la sconfitta di Clinton, alcuni intellettuali di sinistra diranno che Sanders avrebbe potuto fare meglio, con la sua insistenza sulla giustizia economica e la sua capacità di parlare ai lavoratori bianchi con empatia e senza disprezzo. Ma gli elettori di Trump l’avrebbero probabilmente visto come un ebreo, quindi uno straniero, e senza dubbio come un difensore dei perdenti e delle minoranze.

Perché la più grave delle ingiustizie, per i trumpiani, non è che la società sia profondamente divisa in classi (una realtà nascosta dall’ideologia dominante, per quanto sempre più fragile, della “classe media”), ma che il potere sfugga loro dalle mani, una debolezza simboleggiata dal loro declino numerico all’interno della popolazione complessiva americana. Con il loro uomo forte, i trumpiani non vogliono trasformare la società, ma ritrovare la loro posizione di dominio naturale. Un dominio non solo economico, ma anche politico, dopo che la Casa Bianca è stata prima “confiscata” da una famiglia nera e poi contesa da una donna: l’obiettivo è restaurare una rappresentanza bianca e monoculturale dopo l’intervallo multiculturale degli anni di Obama.

Scegliendo Donald Trump come salvatore hanno scelto un uomo che parla sì come un perdente apparendo così familiare e rassicurante – ma che è anche un vincente senza pietà per le vittime, a meno che non si tratti di bianchi privati del loro ruolo storico di rendere l’America great again, di nuovo grande, come recitava lo slogan della campagna repubblicana. Si tratta di un sogno di virilità, di potere assoluto, scelto da persone che hanno fondamentalmente paura dell’avvenire e non possiedono altro orizzonte politico. Per loro è stata una notte di gioia e legittimazione. Per noi, è l’inimmaginabile inizio di una realtà da incubo.

 (Traduzione di Federico Ferrone)

 

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