Renzi soffia sul fuoco del populismo [di Antonio Floridia]

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il manifesto del 15 novembre 2016.  Qualcuno comincia a chiedersi quale impatto avrà l’elezione di Trump sul voto italiano del 4 dicembre. In particolare, comincia a circolare un argomento: «Teniamoci caro e stretto il nostro Renzi: avete visto cosa può accadere? Un Trump è sempre alle porte». Si può rispondere che Renzi è parte del problema, non la soluzione. Siamo nell’epoca in cui domina il sentimento anti-establishment e su questa idea il presidente-segretario ha disegnato la propria immagine e la propria «narrazione».

Questa strategia ha funzionato quando si trattava di contrapporsi a una precedente leadership di partito. Dimostrando tutti i suoi limiti quando si è trasfusa in un’azione di governo. Non ci si può auto-dipingere come il corifeo dell’anti-elitismo e poi esaltare le doti dell’ing. Marchionne. Non si può trasudare di retorica quando si esaltano le «punte» avanzate dell’innovazione e della creatività italica, senza tener conto che – per definizione – quando qualcuno riesce a «emergere» altri sono necessariamente «sommersi» (o «dimenticati», per usare l’espressione che Trump, molto abilmente, – ed è una chiave della sua vittoria – ha usato nel suo primo discorso).

Non si può proporre una riforma della Costituzione parlando “contro” i politici e la politica, e non pensare poi che qualcun altro – molto più credibile di te – se ne gioverà ampiamente. Renzi non è l’argine al populismo: al contrario, ha profondamente legittimato un discorso pubblico «populista». E non – si badi bene – di un qualche «populismo di sinistra», come pure sarebbe possibile provare a fare, ma di un populismo che si nutre di tutti i tasselli ideologici di destra che hanno profonde radici nella cultura politica italiana, e che già avevano fatto la fortuna di Berlusconi: qualunquismo, antiparlamentarismo, rifiuto della politica come mediazione, «decisionismo»…

Il secondo ritornello dice che «non c’è alternativa a Renzi», come qualcuno dice, motivando il proprio Sì. La vittoria del No sarebbe il classico «salto nel buio»? Tutt’altro. Intanto, la vittoria del No aprirà la via ad un più fisiologico sviluppo della situazione politica. In primo luogo, costringerà a fare una riforma elettorale sensata e coerente (non l’incredibile «bricolage» contenuto nel documento partorito dalla commissione del Pd); e, in secondo luogo, – sulla base di una legge elettorale decente, e in vista delle elezioni del 2018 – , potrebbero crearsi le condizioni per tornare ad orientare la politica italiana sull’asse destra-sinistra, non su quello sistema/anti-sistema.

Il più potente antidoto al veleno del populismo di destra è la riapertura di un conflitto politico aperto e regolato, che abbia al centro i grandi temi del nostro tempo: uguaglianza e ridistribuzione della ricchezza (contro privilegi e ingiustizie), democrazia e partecipazione (contro accentramento, plebiscitarismo, tecnocrazia).

Solo così, i “dimenticati» non saranno abbandonati nelle mani del tycoon di turno, o almeno si potrà provare a evitarlo. E per riuscirci, bisognerà anche che – da sinistra – su questi due grandi temi, giustizia sociale e democrazia, si riesca a dire qualcosa di nuovo e di credibile. Ci sarà bisogno di tempo per metabolizzare il senso e le conseguenze dell’elezione di Trump. Sarà veramente in grado il neo-eletto di perseguire le politiche neo-protezionistiche che ha promesso, senza aprire un fase storica di guerre commerciali (e forse non solo commerciali)?

È davvero possibile tornare indietro, dai livelli attuali di integrazione dell’economia mondiale, senza innescare una reazione a catena altamente destabilizzante? O non ci riuscirà, ed allora ben presto saremo di fronte all’ennesima manifestazione tipica dei cicli populisti, con il rapido alternarsi di aspettative salvifiche e poi di disillusioni e risentimenti?

Si dovrà riflettere sulla nuova fase in cui la sindrome dell’«apprendista stregone» esplode in tutta la sua virulenza. La globalizzazione deregolata ha prodotto i suoi frutti avvelenati, è sfuggita di mano alle èlite che l’hanno promossa, e si riaprono contraddizioni di enorme portata, su cui le forze democratiche e di sinistra dovrebbero sforzarsi di intervenire.

In particolare, le analisi che dipingevano un dominio neoliberista compatto, pervasivo e totalizzante, devono oggi lasciare il campo ad analisi – e possibilmente, azioni politiche – guidate da tutt’altri presupposti. Si ritiene davvero che anche la sinistra possa puntare su un ripiegamento all’interno dei confini dei vecchi stati nazionali, o non è suo compito – difficilissimo ma ineludibile – quello di indicare la via di una democrazia trans-nazionale, in grado di «addomesticare» le tendenze distruttive delle logiche sistemiche (impersonali, «automatiche») del capitalismo contemporaneo e di prospettare per esso nuove forme di regolazione?

Nel suo piccolo, anche Renzi è un apprendista stregone. Per questo, la vittoria del No, il 4 dicembre è un essenziale spartiacque. Se il No vincerà, sarà per motivazioni diverse, anche opposte. Toccherà alla sinistra, se sarà in grado di farlo, orientare la rivolta contro le «elite» in senso democratico e progressista.

 

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