Cambiamenti climatici e impatti sull’ambiente. Cambierà qualcosa? [di Sergio Vacca]
Il 18 novembre chiudono i lavori, aperti a Marrakech il 7 novembre, della 22a Conferenza delle Parti dell’UNFCCC, Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite. Nel corso della Conferenza, cominciata dopo l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi del dicembre 2015, le delegazioni si sono confrontate sul rafforzamento della risposta al cambiamento climatico, con particolare enfasi rispetto alla revisione degli impegni, alla promozione ed alla verifica dell’attuazione degli interventi ed al rafforzamento delle attività di supporto finanziario e tecnologico. A Parigi 195 nazioni firmarono un testo sulla “traiettoria” che il pianeta dovrà seguire, se vorrà limitare i danni dei cambiamenti climatici. Si accordarono per mantenere, entro la fine del secolo, la crescita della temperatura media globale ad un massimo di + 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali. Venne specificato che occorrono sforzi per tenerla il più possibile vicina a 1,5 gradi. Vedremo, a lavori conclusi, quali tra gli obiettivi prefissati saranno stati mantenuti. Anzitutto, va preso atto – come evidenziato nel Quarto Rapporto di Valutazione, 2007 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change – che: (a) il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile, come comprovato da aumento di temperatura atmosferica e oceanica, scioglimento di neve e ghiacci, aumento del livello del mare su scala globale; (b) l’aumento della concentrazione di gas serra, dovuto alle attività umane, sia probabilmente la principale causa del riscaldamento globale osservato dalla metà del XX secolo. E’ emerso come il riscaldamento globale non sia uniforme. Accanto ad aree in cui la temperatura è aumentata, ne esistono altre in cui ne è stata osservata la diminuzione. A livello globale, le analisi confermano la stima di un riscaldamento medio sulla superficie terrestre di circa 0,74° C nel corso dell’ultimo secolo. L’aumento della temperatura è accentuato proprio nel periodo più recente; negli ultimi 50 anni il tasso di riscaldamento (+ 0,13 °C per decade) è quasi doppio rispetto ai precedenti cento anni. Per quanto riguarda l’Italia, le stime dell’I.S.P.R.A., Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (2007-2015) indicano una diminuzione della temperatura media di 0,6 °C dal 1961 al 1981, ed un aumento di 1,54 °C fino al 2006, con un aumento complessivo di circa 0,94 °C in 45 anni. Sempre l’ISPRA afferma che non si registrano differenze significative tra diverse aree del territorio nazionale, a confermare che le variazioni di temperatura sono determinate principalmente da fattori climatici a grande scala. Il confronto tra i trend nazionali e globali illustrano che il riscaldamento medio in Italia è più marcato rispetto alla media globale. Quali gli effetti dell’aumento della temperatura sono stati documentati dagli studi che si susseguono in tutte le parti del globo negli ultimi decenni. Certamente, nella gestione dell’agricoltura e delle foreste alle alte latitudini dell’emisfero nord, come, ad esempio, l’anticipo primaverile della semina delle colture e le alterazioni nei regimi di disturbo delle foreste dovute agli incendi e all’aridità. Di grande importanza, inoltre, gli effetti sulla salute umana, come la mortalità in Europa dovuta a picchi di calore, ai vettori di malattie infettive in alcune aree ed alle allergie da pollini anche alle alte e medie latitudini dell’emisfero nord. Poi, cominciano a registrarsi effetti su molti altri sistemi naturali ed antropici, anche se, basandosi sulla letteratura pubblicata, molti di tali impatti non hanno ancora evidenziato delle tendenze consolidate. Alcuni esempi riguardano gli insediamenti nelle regioni montuose, particolarmente nella catena alpina, ma anche in altri sistemi montuosi asiatici ed americani nell’emisfero nord come in quello sud, soggetti ad un maggiore rischio di inondazioni improvvise dai laghi glaciali a causa dello scioglimento dei ghiacciai. Nella regione africana del Sahel, condizioni più calde e più aride hanno portato a una riduzione della lunghezza della stagione della crescita delle specie vegetali, con effetti disastrosi sui raccolti. Nel sud dell’ Africa, stagioni secche più lunghe e maggiore incertezza delle piogge stanno determinando drastiche riduzioni nei raccolti. Inoltre, la crescita del livello del mare e lo sviluppo umano stanno contribuendo alla perdita di zone umide costiere e di mangrovie ed all’aumento dei danni dovuti all’ inondazione delle stesse aree. Un rapporto della Commissione Europea, denominato libro verde, “L’adattamento ai cambiamenti climatici in Europa: quali possibilità di intervento per l’UE” (COM(2007)354), individua le categorie territoriali di maggiore vulnerabilità in Europa. L’Europa meridionale e tutto il bacino del Mediterraneo, dove all’aumento delle temperature è associata una riduzione delle precipitazioni, fenomeni che si verificano in aree che già soffrono di carenza idrica. Nelle zone montane, come le Alpi – come già richiamato – l’aumento delle temperature causa lo scioglimento dei ghiacciai, con inevitabili conseguenze sulla portata dei fiumi, con rilevanti conseguenze nelle zone vallive, densamente popolate, del nostro paese di dissesto idrogeologico. Nelle pianure alluvionali ad alta densità di popolazione, il rischio di precipitazioni forti, piogge convettive, e di alluvioni improvvise – come sopra richiamato – determinano danni alle zone edificate e alle infrastrutture. Studi dell’ISPRA, che riprendono le indicazioni del Progetto Finalizzato del CNR, anni 70 e 80 del secolo trascorso, delineano un quadro delle priorità nazionali per affrontare e contrastare i fenomeni legati alle modificazioni del clima e le conseguenze sulle aree d’impatto potenzialmente più probabili. Le matrici ambientali per le quali è più elevata la probabilità di impatti dei cambiamenti climatici, nel nostro Paese, sono quindi essenzialmente le risorse idriche, la biodiversità e le foreste, i suoli e gli ambienti marino-costieri. Mentre nell’ambito delle attività produttive sono molto probabili le ricadute sull’agricoltura, la pesca ed il turismo. Per quel che riguarda l’aumento del livello dei mari, a differenza di quanto previsto per il nord Europa e altre aree del pianeta toccate dagli oceani, studi specifici dell’ISPRA e delle analoghe istituzioni francesi e spagnole indicano nel contesto italiano-mediterraneo che il nostro mare non è attualmente in sollevamento e questo principalmente per effetto combinato dell’aumento di salinità che controbilancia l’effetto di dilatazione termica. Pertanto, nell’area mediterranea, il sollevamento del mare non sembra essere attualmente il parametro principale di un aumento della vulnerabilità delle aree costiere ai cambiamenti climatici, tranne che in settori in cui la subsidenza antropica e naturale amplifica il fenomeno. Tuttavia, il sollevamento del livello del mare non produce solo una variazione – meno importante, come visto, in ambito mediterraneo – del rapporto tra terra e mare, ma anche un innalzamento del cuneo salino, quindi la costa risulta estremamente sensibile alla salinizzazione ed alla sodicizzazione. Processi, questi ultimi, maggiormente legati alla diminuzione degli apporti dei corsi d’acqua continentali. Estremamente importante per i nostri ambienti e per la Sardegna in particolare è l’impatto dei cambiamenti cimatici sui processi di desertificazione, che riguardano due comparti ambientali fondamentali, quali le risorse idriche ed i suoli. Impatti che vanno ad aggiungersi ad altri fattori di pressione collegati al sovra-sfruttamento ed alla gestione insostenibile del suolo, come le pratiche colturali, l’allevamento del bestiame, la gestione delle risorse idriche, per cui la sensibilità ambientale alla desertificazione non riguarda solo le aree aride, semi aride e subumide secche del globo, ma anche altre aree soggette a carenze idriche e a condizioni di stress nella gestione del suolo. La desertificazione nelle sue forme più intense interessa oltre 100 paesi minacciando la sopravvivenza di più di un miliardo di persone. In Italia, anche se siccità e desertificazione sono fenomeni che non hanno la drammaticità di altre aree del pianeta, il fenomeno sta assumendo sempre più evidenza in almeno cinque regioni: Sardegna, Sicilia, Basilicata, Puglia e Calabria. Per un focus sulla nostra realtà regionale, numerosi Dipartimenti delle nostre Università, da qualche decennio, studiano i processi di desertificazione; negli anni ottanta e novanta del secolo trascorso presso l’Università di Cagliari, Dipartimento di Geologia, operò il coordinamento per l’Italia delle ricerche sul fenomeno; ne fu animatore il Professor Angelo Aru, Emerito di Geopedologia. Emersero importanti indicazioni che furono alla base di alcune Direttive Europee sulla materia. Ai lavori di MarraKesch, ha partecipato anche una delegazione del governo regionale ai suoi più alti livelli. Crediamo sia interesse dell’isola che le indicazioni che perverranno dalla COP 22, che concluderà i suoi lavori il 18, divengano indirizzi di politica regionale sull’ambiente. Crediamo anche che sia di interesse della Sardegna che i governanti dell’isola si avvalgano delle competenze e delle esperienze che Università e Centri di Ricerca hanno acquisito è sviluppato nel tempo. |