Le ragioni del mio NO [di Fiorella Pilato]
Il testo, qui di seguito, riassume la Relazione tenuta nell’Incontro/Dibattito sulla Riforma Costituzionale “Le Ragioni del SI’- Le Ragioni del NO”, organizzato dal Centro di Documentazione e Studi delle Donne di Cagliari il 16/11/2016 e coordinato da Annalisa Diaz. Ha visto confronto tra Fiorella Pilato, già magistrata del Tribunale di Cagliari e Pietro Ciarlo, costituzionale dell’Università di Cagliari (NdR). Rispetto chi appoggia e difende la riforma costituzionale ma non riesco a condividerne l’opinione perché a me sembra una costruzione barocca e complicata foriera di molti problemi interpretativi e applicativi, assai più simile nello stile a una brutta legge ordinaria o a un decreto mille proroghe che alla legge fondamentale della Repubblica. Prosa e tecnica legislativa, infatti, sono quelle tipiche utilizzate da più di un ventennio per le nostre povere leggi, la cui interpretazione mi ha fatto dannare nell’esercizio della funzione giurisdizionale Basta leggere l’art. 57 su composizione e sistema elettorale del Senato, di cui gli estensori stessi ammettono l’insufficienza rinviando fiduciosi all’interpretazione che ne darà la legge d’attuazione, o l’impresentabile art. 70 sulla funzione legislativa che sostituisce al testo originario, chiarissimo e di un solo rigo, sei commi il primo dei quali di 195 parole, densi di rinvii e scritti in un linguaggio orribile. È un aspetto secondario, ma già sotto il profilo estetico (come ha riconosciuto Anna Finocchiaro) la legge di revisione non regge il confronto con la Carta del ‘48, scritta in un italiano perfetto e comprensibile a tutti, anche senza indulgere alla retorica della «costituzione più bella del mondo». Si dice, però, che la situazione in cui viviamo impone di smettere di rimpiangere una Costituzione che nei fatti non c’è più, di fare i conti col nuovo che incalza, con le sfide che ne derivano e con i rimedi possibili, che non possono essere più rinviati. È questo il terreno più delicato di confronto, che va accettato misurandosi con le trasformazioni della nostra costituzione materiale, col presente che abbiamo e col futuro che ci attende. Crescita esponenziale del divario tra ricchi e poveri, nuove povertà, fenomeni migratori che generano insicurezza e paura, mancanza del lavoro su cui la nostra Repubblica era fondata e oblio dell’idea di piena occupazione, abbattimento dello Stato sociale, dominio assoluto del mercato con la politica subordinata all’economia e a poteri forti interni e internazionali, gruppi affaristici accampati al confine tra società, politica e Stato, vale a dire le trasformazioni socioeconomiche degli ultimi decenni, hanno prodotto una regolazione dei rapporti sociali, prassi politiche e un assetto normativo sempre più lontani dal progetto egualitario ed emancipatorio della prima parte della Costituzione. Per le istituzioni il cambiamento è stato radicale: si è ribaltato il rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo, con un ruolo inedito di supremazia del Governo sul Parlamento e la trasformazione di fatto del Governo in gabinetto del premier (con la forzatura personalistica tradotta nell’indicazione del leader sulla scheda elettorale); leggi elettorali maggioritarie e sottrazione ai cittadini della scelta dei rappresentanti, riservata alle burocrazie dei partiti attraverso nomina dei capilista e voto bloccato, hanno leso la funzione rappresentativa del Parlamento; la decretazione d’urgenza del Governo da eccezione è diventata regola; il presidente della Repubblica, durante la lunga presidenza Napolitano, è entrato nel circuito di governo con ripetuti e impropri interventi su indirizzo politico, composizione e durata dei governi; organi di garanzia come Corte costituzionale e CSM sono stati feriti da mancate o ritardate nomine di spettanza parlamentare e da designazioni dettate da calcoli politici, spesso a prescindere dai requisiti di autorevolezza e competenza. Queste sono le trasformazioni che hanno inciso su cultura politica e su comportamenti individuali e collettivi, accentuando l’involuzione del sistema: la corruzione inquina più che mai la vita pubblica fino a diventarne componente strutturale, con buona pace della prospettiva costituzionale dell’art. 54 comma 2 di una repubblica nella quale i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore; i partiti sono diventati per lo più comitati elettorali diretti da veri e propri capi, privi di regole e dialettica interna, in contrasto col modello costituzionale disegnato dall’art. 49 per cui tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale; la partecipazione alla cosa pubblica, fondamento della Repubblica secondo l’art. 1 comma 2 della Carta, in forza del quale la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, è stata disincentivata da prassi e norme che hanno prodotto disaffezione, sfiducia e fuga dal voto. Dunque, la Costituzione del 1948 è rimasta sulla carta mentre altra, diversa e spesso antitetica, è la costituzione materiale con cui si misurano quotidianamente i cittadini. Tuttavia, mi sembra improprio trarne la giustificazione per la riforma di mezza Costituzione (ben 47 articoli, salvo il titolo IV sulla magistratura, presentata dai fautori del SI come un ammodernamento non più rinviabile, in grado finalmente di far “correre” più in fretta l’Italia e di ridurre i costi della politica. Di fronte dell’aggravarsi della crisi economica, sociale e istituzionale del Paese, infatti, la politica poteva scegliere tra interventi di manutenzione della Carta capaci di snellirla e ripristinarne il carattere inclusivo e partecipativo, senza nostalgie ma con un realismo attento a valori e obiettivi, o dare a posteriori copertura costituzionale ai cambiamenti intervenuti nella prassi e incentivarli in modo spericolato. Come mi sembra sia accaduto. Per giunta, mettendo assieme oggetti eterogenei, in una sorta di pacchetto da prendere o lasciare in blocco votando per il SI o per il NO, come successo per la prima volta nel 2005 con la legge approvata dalla maggioranza di centro-destra e respinta dal referendum del 2006. In questo pacchetto, per esempio, è compresa la soppressione del CNEL, per cui mi sarei espressa volentieri a favore. Forse avrei detto SI anche al voto a data certa su alcuni progetti del Governo in cambio della limitazione della decretazione d’urgenza. Siccome non sono una conservatrice e non considero censurabile l’intento di superare il bicameralismo paritario, avrei condiviso l’abolizione o la trasformazione del Senato in una vera camera delle autonomie. Il bicameralismo, specie nella forma “perfetta” (con identità di funzioni delle due Camere), non è coessenziale ai sistemi democratici, molti dei quali fondati sul monocameralismo o sul bicameralismo asimmetrico (con competenze e sistemi di elezione diversificati per le due Camere). Tanti hanno sempre considerato il bicameralismo perfetto un’incongruenza costituzionale (perché, se le due Camere sono d’accordo, una delle due è inutile mentre è un impiccio nel caso contrario). In Italia, la sinistra aveva perplessità sul bicameralismo fin dai tempi dell’Assemblea costituente e negli anni ’80 anche Pietro Ingrao, che sognava la democrazia di massa, si espresse per l’abolizione del Senato: ma sempre per semplificare le istituzioni parlamentari e dare più forza alla rappresentanza democratica del Parlamento come centro della vita politica. Invece, la scelta sottostante alle attuali riforme è assai diversa. 1. Lo dimostrano anzitutto, sul piano del metodo, il percorso politico e le modalità con cui la Carta fondamentale è stata modificata, registrando questi passaggi: iniziativa e guida della procedura da parte del Governo, anomale perché la Costituzione, definendo il quadro dei diritti di tutti e le regole delle dialettica politica, è estranea per definizione alle attribuzioni dell’Esecutivo. Sul punto cito quanto scrisse nel ’47 Calamandrei: quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari dovrà rimanere il governo nella formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’Assemblea sovrana. Principio rispettato in sede di assemblea costituente dall’allora presidente del Consiglio De Gasperi, intervenuto una sola volta nel corso dei lavori e ostentatamente dal suo seggio di deputato, anziché come capo del Governo; eppure, si legge nella Carta dei Valori del PD, ancora pubblicata sul sito, a proposito delle riforme costituzionali: La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale. La Costituzione può e deve essere aggiornata, nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise, coerenti con i princìpi e i valori della Carta del 1948, confermati a larga maggioranza dal referendum del 2006 (come se certi principi debbano valere soltanto per gli altri…);
Non è semplice questione di metodo perché incide profondamente sul significato della Costituzione, sul suo rapporto con la società, sulla concezione stessa della democrazia. Le costituzioni contemporanee (non a caso definite “rigide”, cioè modificabili solo con maggioranze qualificate e procedure rafforzate), infatti, tracciano il quadro di regole condivise al cui interno si svolgono anche confronto e scontro politico; e sono fatte apposta per limitare il potere scongiurando il rischio di torsioni autoritarie, tutt’altro che impossibili di questi tempi. Questa è stata per la nostra Carta del ’48, scritta da un’assemblea costituente eletta col sistema proporzionale, che trasformò un paese diviso e lacerato (dal ventennio fascista, dalla guerra e dal referendum istituzionale monarchia-repubblica) in una casa comune, riconosciuta come propria dalla generalità dei cittadini nonostante profonde differenze ideali, politiche, economiche e sociali. Quest’impostazione condizionò a lungo tutti i processi parlamentari tesi al cambiamento della Carta, compreso quello della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita nel 1997 e presieduta dall’onorevole D’Alema. I lavori della bicamerale si conclusero con un nulla di fatto quando si prese atto del venire meno delle condizioni politiche per la prosecuzione della discussione: enunciando con chiarezza il principio fin troppo ovvio per cui la mancanza di significativa convergenza delle forze politiche osta alla riscrittura delle regole costituzionali, che devono avere la caratteristica di unire anziché di dividere. Questo principio è stato capovolto nell’attuale congiuntura dai nuovi padri costituenti, alcuni dei quali hanno spiegato, senza poter convincere sul piano giuridico e politico, che sarebbe stato meglio giungere a una soluzione condivisa ma che non è stato possibile per la rottura da parte di Berlusconi del patto del Nazzareno, che stava alla base del progetto di cambiamento. Ma questa concezione non è nuova, nella nostra storia recente. Fu Gianfranco Miglio, costituzionalista di riferimento della Lega, a teorizzare nel 1994 che è sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual’è il mio sogno? Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze. All’epoca questo concetto fu percepito come eversivo ma non tardò a trovare applicazione bipartisan con le modifiche del Titolo V della Costituzione approvate nel 2001 (anche quelle con maggioranza non qualificata, anzi risicata in entrambe le Camere), sottoposte a referendum confermativo in cui votò il 34,4% degli aventi diritto (e i SI prevalsero con il 64,2% dei voti espressi contro il 35,8% di NO). Lo stesso accadde nel 2006 per le modifiche della forma del Governo e dello Stato, non confermate dal referendum che vide partecipare il 52,5% degli aventi diritto (con il 61,3% di voti contrari e il 38,7% di favorevoli). Era ormai spianata la strada verso una Costituzione di parte. Allora restò incompiuta per la natura limitata della prima riforma e per la bocciatura referendaria della seconda. Oggi, se prevalessero i SI nel referendum confermativo, il percorso sarebbe concluso con la trasformazione della Costituzione da casa comune al bottino di guerra dei vincitori teorizzato da Miglio: come confermano le dichiarazioni della ministra delle riforme istituzionali sui veri e finti partigiani e il suo paragone degli oppositori della riforma ai fascisti di Casa Pound, espressioni di una cultura della divisione e dell’intolleranza – che genera altrettanta intolleranza nel fronte opposto – prima ancora che segnali evidenti d’inesperienza politica. Dunque, è un argomento vuoto quello per cui la necessità di cambiare la Costituzione sarebbe dimostrata dal fatto che da trent’anni si succedono senza costrutto Commissioni parlamentari per le riforme istituzionali. Dimostra soltanto l’assenza di un progetto condiviso di cambiamento e semmai suggerisce di lasciare le cose come stanno: altrimenti, se diventa accettabile mettere mano alla Costituzione da parte di una minoranza diventata maggioranza grazie a una legge elettorale senza uguali nel diritto comparato (che pure vede molti sistemi maggioritari), dovremo aspettarci continui mutamenti della Carta fondamentale e arrivare a rimpiangere i trent’anni di tentativi a vuoto…Di tutto abbiamo bisogno, ma certamente non di una delegittimazione della Costituzione come casa di tutti gli italiani, essendo il comune riferimento costituzionale fattore di coesione essenziale ed espressione dell’unità del Paese. 2. Purtroppo, non è soltanto una questione di metodo, che in materia costituzionale è comunque di sostanza. Quella che mi sgomenta è l’illusione che questa riforma consenta i mutamenti promessi. La revisione delle norme costituzionali avrebbe richiesto d’individuare gli inconvenienti dell’attuale normativa e gli obiettivi da perseguire, e poi di studiare correttivi adeguati. Premesso che per ragioni di semplificazione istituzionale avrei votato per abolizione o trasformazione razionale del Senato in Camera delle autonomie, contesto la diagnosi di fondo secondo cui sarebbe il bicameralismo perfetto la causa delle disfunzioni del nostro sistema politico. Certo non ha paralizzato l’azione di governo, se da uno studio del Senato risulta che i tempi medi di approvazione delle leggi d’iniziativa governativa – quasi il 90% delle leggi approvate – è di 116 giorni, poco più di 3 mesi, mentre spesso è il Governo a impiegare anni per adottare i regolamenti attuativi delle leggi approvate dal Parlamento. Da quando esiste la Repubblica, i problemi di approvazione delle leggi e di stabilità dei governi non sono mai dipesi dall’esistenza di due Camere o dai poteri di veto delle opposizioni. Nel 1970, in anni difficilissimi di estrema conflittualità politico-sociale e vigente un sistema elettorale proporzionale puro, Camera e Senato approvarono in soli sette mesi leggi che cambiarono il volto del Paese: l’attuazione dell’ordinamento regionale ordinario, lo Statuto dei lavoratori, la regolazione del referendum abrogativo, la previsione di termini massimi di carcerazione preventiva, il divorzio. Nel 1998, il governo Prodi cadde alla Camera per la sfiducia della sua maggioranza. La storia insegna, quindi, che ostacoli e difficoltà nel funzionamento parlamentare, nella produzione legislativa e nella tenuta dei governi sono di natura politica e non tecnico-istituzionale. È stata la frantumazione patologica della rappresentanza l’ostacolo alla governabilità, tutt’altro che superato dalla riforma del sistema elettorale in senso maggioritario che avrebbe dovuto rimuoverlo: infatti, il Parlamento eletto col porcellum ha conosciuto un trasformismo senza precedenti nella storia nazionale. La migrazione in massa di parlamentari da una forza politica all’altra è diventata vera e propria transumanza nella legislatura in corso. Nella sola Camera, dove non c’erano problemi di governabilità grazie al premio di maggioranza, hanno cambiato casacca 150 deputati, quasi il 25%. Ma questo versante è stato ignorato dai riformatori della Costituzione, che avrebbero potuto mutuare dal modello tedesco una disciplina esplicita delle crisi di governo (sfiducia costruttiva, scioglimento) e magari la legge elettorale proporzionale con soglia del 5%, che consente e favorisce la formazione di stabili governi di coalizione, all’occorrenza anche di larga coalizione come l’attuale; oppure avrebbero potuto prevedere un vincolo di rappresentatività del corpo elettorale, coerente con l’attribuzione del ruolo politico prevalente (se non esclusivo) a una sola Camera che avrebbe imposto l’aumento anziché la contrazione (tramite la legge elettorale) della sua rappresentatività. Invece, con i grandi contenitori che saranno i partiti ridotti a comitati elettorali per lucrare il premio di maggioranza, per questo portatori di elevata conflittualità interna e destinati come le coalizioni attuali a produrre instabilità, è facile prevedere che, anche con la fiducia espressa da una sola Camera, gli avvicendamenti alla guida del Governo verranno ancora dal ribaltamento dei rapporti di forza interni al partito maggiore, come è sempre avvenuto: la sostituzione nel gennaio 2014 del premier Letta con Renzi non è stata affatto diversa da quella di Fanfani con Segni nel gennaio 1959. Significa che eliminare il bicameralismo perfetto, se potrà ridurre i tempi del procedimento legislativo eliminando (in parte) la duplicazione attuale, non inciderà sui modi in cui le maggioranze vivono e si disfano in Parlamento né, di conseguenza, sulla stabilità dei governi. In realtà, si accolla alla Costituzione una responsabilità che non le appartiene, perché la più perfetta delle Costituzioni funziona malissimo in mano a una classe politica rissosa e inadeguata. È un capolavoro d’illusionismo dirottare l’esigenza di cambiamento etico e culturale della nostra classe politica su regole costituzionali ed elettorali, anziché affrontare il problema vero della crisi di credibilità dovuta a mancanza di rispetto reciproco, smarrimento del senso della Repubblica, perdita dell’idea di responsabilità, per citare Violante del fronte del SI alla revisione. La semplificazione del procedimento legislativo è un’altra illusione perché il nuovo art. 70 elenca tanti procedimenti diversi per la formazione delle leggi (sul cui numero esatto, forse una decina, si interrogano i costituzionalisti): bicamerale paritario, monocamerali o bicamerali asimmetrici; ordinario a bicameralismo eventuale e differenziato (con intervento facoltativo del Senato), monocamerale con ruolo rinforzato del Senato; a bicameralismo necessario e differenziato (con intervento del Senato obbligatorio); per disegni di legge d’iniziativa di un membro del Senato; per disegni di legge essenziali per l’attuazione del programma di governo; per disegni di legge di conversione dei decreti legge; abbreviato per i disegni di legge dei quali è dichiarata l’urgenza; per le proposte di legge di iniziativa popolare. Inoltre, per risolvere eventuali questioni di competenza, cioè per capire se una legge è bicamerale o no e con quale procedura vada approvata, dovranno trovare un’intesa i presidenti delle due Camere. Chissà cosa accadrà quando non saranno d’accordo. Non è difficile prevedere una conflittualità paralizzante e continui ricorsi alla Corte Costituzionale. Per sveltire l’iter legislativo e garantire rapidità ed efficacia delle decisioni, necessarie in un mondo sempre più veloce, la strada più utile e sicura sarebbe stata la revisione razionale dei regolamenti parlamentari con legge ordinaria, per limitare le possibilità di ostruzionismo e prevedere in casi predeterminati corsie privilegiate per particolari materie o disegni di legge del Governo. Invece, la riforma sostituisce al bicameralismo perfetto un bicameralismo confuso. Nel novero delle illusioni tocca inserire lo sbandierato contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, suggestione forte presente nel titolo del referendum che sembra rispondere alle pulsioni anti-politiche cavalcate dal populismo più becero. L’impatto della riforma del Parlamento – che non tocca la Camera con i suoi 630 deputati – è stimata tra l’8 e il 20% dell’attuale bilancio del Senato (di 540 milioni nel 2016), il cui apparato burocratico dovrà continuare a funzionare, con un risparmio di spesa oscillante tra 50 e 100 milioni annui, vale a dire una quota infinitesimale del Pil, mentre sarebbe stata assai più proficua per le casse disastrate dello Stato un’equilibrata riduzione dei compensi per tutte le cariche pubbliche elettive, realizzabile con legge ordinaria. Anche cancellare le Province – salvo quelle di Trento e Bolzano ma comprese quelle delle Regioni più grandi per cui è innegabile l’esigenza di un livello intermedio di governo locale – per evocare enti di area vasta senza chiarire che costi avrebbero, rientra nella retorica spiccia delle poltrone da abolire, come se le istituzioni andassero riformate per risparmiare anziché per farle funzionare meglio: cosa che in prospettiva porterebbe benefici economici assai maggiori al Paese. Del resto, il risparmio sarà realizzato sul solo personale politico ma non sui lavoratori che reggono gli apparati, dei quali (come quelli del CNEL) sarebbe assurdo prevedere il licenziamento in massa. Altra illusione è quella di fronteggiare, con questa revisione costituzionale, lo strapotere del mercato. Il presidente del Consiglio dice che la riforma consentirà alla politica di riequilibrare il rapporto di forza con l’economia. Ma allora è strano che il progetto riformatore sia sostenuto a spada tratta dalle principali agenzie di rating internazionali, da Goldman Sachs a Fitch, da Moody’s a Standard and Poor’s. Per Fich, una vittoria del no al prossimo referendum costituzionale italiano sarebbe vista come uno shock negativo per l’economia e il merito di credito italiano. E per l’ambasciata statunitense a Roma la vittoria del no sarebbe un enorme passo indietro. Come mai tanta attenzione all’assetto politico-sociale del nostro Paese, per chi ha il solo interesse di agevolare le opportunità di business per il capitale che rappresentano? È forte il sospetto che l’Italia sia vista come terra di conquista perché ha ancora mercati blindati, potenzialmente ricchissimi per le grandi agenzie assicurative e bancarie statunitensi e nord europee. Sistema pensionistico, scolastico e sanitario sono ancora in mano allo Stato, per quanto indeboliti dalla riforma delle pensioni (imposta dalla Bce con la lettera inviata al Governo italiano il 5.8.2011), dallo smantellamento della scuola pubblica e dai continui tagli al settore sanitario. Portare i tre sistemi al collasso per poi immetterli sul mercato sembra la sola ragione per cui entrano a gamba tesa nella partita referendaria coloro che il mercato conoscono perfettamente, caldeggiando la riforma per il bene delle loro banche e dei loro investitori, giacché in Italia non esistono soggetti finanziari in grado di gestire business di questo tipo. Un sistema più veloce e accentrato, infatti, renderebbe più facile la liberalizzazione di tali settori. La Bce guidata da Trichet aveva già indicato all’Italia, tra le misure antispeculazione da adottare con urgenza per rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità del bilancio e alle riforme strutturali, oltre al pareggio di bilancio che fu subito inserito in Costituzione, proprio riforma delle pensioni, privatizzazioni su larga scala dei servizi locali e liberalizzazione del mercato del lavoro con la revisione delle norme regolatici di assunzione e licenziamento dei dipendenti, suggerendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione. Nel documento del 28.5.2013 della grande banca d’affari americana J.P. Morgan si legge che Le Costituzioni e i sistemi politici dei paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un’ulteriore integrazione della regione …mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori…diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo…Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità d’impegnarsi in importanti riforme politiche. Non è stravagante il sospetto di riforme, se non etero-dirette, utili a soddisfare le aspettative delle lobbies economico-finanziarie e le pretese delle banche internazionali.Fatto sta che, dopo la riorganizzazione del mondo del lavoro sul modello Marchionne (esaltato più volte dal presidente del Consiglio) e l’altro salto di qualità operato dalla nuova legge elettorale in direzione di una democrazia di investitura sostitutiva di quella rappresentativa e partecipativa, è stata la volta di trasferire in Costituzione le derive decisioniste e accentratrici degli ultimi anni. 3. Nel merito, la riforma disegna un assetto istituzionale irrazionale e sbilanciato, carente sul piano della rappresentanza e difettoso su quello della funzionalità, che sembra raffazzonato in fretta per consolidare a ogni costo l’esistente caratterizzato da supremazia dell’Esecutivo, mortificazione del Parlamento e insofferenza per le articolazioni intermedie della società (enti locali, sindacati e partiti).
Considerata la quantità di compiti ad alto tasso di tecnicismo (anche raccordo tra Stato, Regioni e comuni e con l’Unione Europea; valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni; verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione Europea sui territori), per il Senato si prospetta una funzione di blocco o rallentamento a causa della complessità delle procedure. Gli altri 5 senatori sono nominati dal Presidente della Repubblica tra cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario: eppure – altro aspetto d’irrazionalità – eserciteranno il loro magistero, insieme agli ex Presidenti della Repubblica, in un Senato che formalmente dovrebbe rappresentare gli enti locali. La distorsione della rappresentanza del pluralismo territoriale, sociale e politico delle Regioni è palese, perché ogni Regione esprimerà 1 sindaco a prescindere dal numero dei residenti e ogni Regione dovrà avere almeno 2 consiglieri regionali. Tolti 22 sindaci (perché al Trentino-Alto Adige ne spettano 2) e 44 consiglieri regionali (perché ciascuna delle Province autonome superstiti di Trento e Bolzano ne avrà 2), se la matematica non è un’opinione ne restano 29, troppo pochi per la distribuzione alle Regioni in proporzione alla loro popolazione enunciata dall’art. 57 comma 4. Considerato l’enorme divario di residenti, è certo infatti che alcune Regioni saranno irragionevolmente sovra-rappresentate a scapito di quelle più popolose (Lombardia con 10 milioni, Lazio, Campania e Sicilia con più di 5 milioni, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Puglia che superano i 4 milioni e Toscana appena sotto). Per fare un esempio restando a tre Regioni a statuto speciale, il Trentino-Alto Adige ne avrà 4 con 1.059.114 residenti e la Sardegna ne avrà 2 con 1.658.138 residenti come la Valle d’Aosta con i suoi 127.329. L’elezione dei senatori da parte dei consigli regionali è altrettanto irrazionale. Saranno eletti in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri con sistema proporzionale nell’ambito dei consigli regionali e con modalità demandate alla futura legge elettorale, sicché l’elezione dei consiglieri regionali sarebbe una ratifica della volontà degli elettori mentre quella dei sindaci ne resterebbe sganciata. Per illustri costituzionalisti sarebbe comunque violato l’art. 1 della Costituzione, per il quale La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ne deriva che la potestà legislativa, esercizio supremo della sovranità popolare, non dovrebbe mai essere attribuito ad organi non eletti direttamente dal popolo e privi di legittimazione democratica. E la Consulta potrebbe dichiarare l’incostituzionalità della norma per violazione di uno dei principi supremi della Costituzione, stando alla sentenza 1146/1988. Forzare il concetto, dicendo che il popolo italiano eleggerà indirettamente il Senato perché ha eletto i consigli regionali, equivarrebbe a dire che siamo già in una Repubblica presidenziale in cui il popolo elegge il Presidente della Repubblica per aver eletto Camera e Senato. Siccome i senatori godranno dell’immunità personale da arresti, perquisizioni personali e domiciliari, sequestri della corrispondenza, incrociamo le dita e speriamo che il sistema d’elezione non trasformi il Senato in un comodo refugium peccatorum per indagati e imputati che abbondano negli enti locali. La riduzione dei soli componenti del Senato produce un eccessivo squilibrio numerico tra le due camere, che renderà i senatori irrilevanti per l’elezione del Presidente della Repubblica e dei componenti del CSM, a fronte di una Camera di 630 componenti (per giunta eletti col maggioritario). Eppure, la Camera nomina 3 giudici costituzionali e il Senato ne nomina 2, col rischio di connotarli come giudici delle Regioni e di minare unitarietà e legittimazione del collegio di massima garanzia. Per altro verso le molteplici funzioni disomogenee del Senato – che impediranno ai senatori a mezzo servizio l’esame entro 10 giorni dei disegni di legge approvati dai deputati e le eventuali proposte di modifica da formulare nei 30 giorni successivi – non prevedono poteri reali con riferimento a molte delle leggi più importanti per l’assetto regionale, né la possibilità di realizzare una concertazione o un collegamento stabile tra Stato e Regioni. Del resto, le autonomie locali non sono certo valorizzate dalla revisione del titolo V della Costituzione in senso fortemente centralistico.
Il Governo, con la possibilità di controllo sulla maggioranza dei deputati assicurata dall’Italicum, è investito di ampi poteri di organizzazione dei lavori parlamentari, con l’inevitabile conseguenza della sua supremazia sulla Camera o comunque con svuotamento della dialettica tra Esecutivo e Parlamento. Il nucleo forte di questi poteri è il meccanismo del voto a data fissa sui disegni di legge essenziali per l’attuazione del programma di governo, che crea una corsia privilegiata per le iniziative governative, strozzando peraltro ogni serio dibattito su riforme complesse e articolate non suscettibili di esame adeguato in 70 giorni. Si realizza così lo spostamento della regia dell’attività legislativa al premier, rendendolo padrone dei lavori parlamentari. Infatti, nei concetti di programma di governo e di attuazione del programma può rientrare di tutto, con la prospettiva di ridurre ulteriormente lo spazio per le iniziative parlamentari, già oggi limitate a meno del 20% del tempo complessivo. In questo quadro, perde significato la riduzione dei tradizionali poteri di decretazione d’urgenza del Governo, di cui non avrà più bisogno. Mentre il Senato non costituirà più un contropotere esterno alla Camera, non sono stati previsti contropoteri interni alla Camera, per esempio quello d’inchiesta da parte di una minoranza qualificata (come in Germania) o il diritto di ricorrere alla Corte costituzionale contro le leggi approvate dalla maggioranza. Inoltre è demandato ai regolamenti delle due Camere il compito di garantire i diritti delle minoranze parlamentari e a quello della sola Camera dei deputati di disciplinare lo statuto delle opposizioni. Siccome però i regolamenti parlamentari devono essere approvati dalla maggioranza dei componenti dell’assemblea, sarà il partito di Governo a condizionare diritti delle minoranze e delle opposizioni. Sarebbe stato possibile, invece, prevedere regole minime a tutela delle opposizioni (per esempio la designazione di presidenti di commissioni con funzioni di controllo o garanzia, l’iscrizione all’ordine del giorno di proposte e iniziative con riserva di tempi e previsione del voto finale).
Rimane allo stadio di buon proposito la possibilità di referendum popolari propositivi e di indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, introdotta con una norma in bianco che non indica potere di iniziativa, limiti e procedure, demandati a una futura nuova legge costituzionale. Il quorum per la validità dei referendum abrogativi diventa variabile: la maggioranza degli aventi diritto al voto in caso di raccolta di 500.000 firme; la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera se le firme raccolte raggiungono o superano il numero di 800.000. In pratica, si tracciano due strade diverse per referendum promossi dal basso o da chi ha già una diffusa presenza sul territorio o i mezzi economici necessari per le costose operazioni di raccolta delle firme. Il nuovo sistema quindi affievolisce, invece di rafforzare, le forme di partecipazione diretta dei cittadini alla vita pubblica.
A conferma della svolta accentratrice, introduce una clausola di supremazia statale – ribattezzata subito clausola-vampiro – che consente allo Stato d’intervenire senza limite in materie di competenza legislativa esclusiva delle Regioni quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale. Ma l’interesse nazionale è un concetto tanto astratto da consentire allo Stato di legiferare in qualunque materia riservata sulla carta alle Regioni. L’effetto è una fortissima centralizzazione del potere. Irrazionalmente, invece, rimane valido il vecchio titolo V per le Regioni a statuto speciale, che quindi conservano le loro prerogative fino alla revisione dei rispettivi statuti (che non avverrà mai per la necessità di un’intesa con lo Stato) e restano immuni da tutte le modifiche, anche dall’applicazione degli indicatori dei costi-standard. È previsto un “contentino” per le Regioni ordinarie che, perdendo subito competenze legislative, in futuro potrebbero acquisire ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in un limitato numero di materie. Ma è una strada piena di ostacoli: la Regione dovrà essere in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio; il procedimento legislativo sarà bicamerale paritario, quindi a rischio “navette” e mancata approvazione di una delle camere; sarà necessaria l’intesa tra lo Stato e la Regione interessata, che stavolta funziona a favore dello Stato perché nessun ampliamento delle competenze legislative di nessuna Regione sarà possibile se non voluto dallo Stato. Si tratta, quindi, di una irragionevole divaricazione assai maggiore tra autonomie ordinarie e speciali, che stimolerà conflittualità tra Regioni e darà buoni argomenti a chi da tempo considera la specialità superata e da eliminare. 4. Per finire, qualche parola sul titolo della legge costituzionale: Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione. È un titolo a misura di referendum. Dopo la finanza creativa, non è il primo esercizio di creatività nei titoli delle leggi (il precedente è il cosiddetto Jobs act, Disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti: che sembrava introdurre un nuovo tipo di contratto di lavoro e invece modificava la disciplina dei licenziamenti nei contratti a tempo indeterminato stipulati dopo la sua entrata in vigore e prevedeva non diversi tipi di tutela crescente ma la stessa unica forma di tutela risarcitoria al posto di quella ripristinatoria, con l’ indennità per illegittimo licenziamento crescente con l’anzianità di servizio). Il titolo della legge costituzionale si ferma a cinque voci: evita l’indicazione dei due indirizzi di fondo della revisione, il rafforzamento dell’Esecutivo e la centralizzazione in capo allo Stato della potestà legislativa attraverso il ruolo debole del Senato, inidoneo quale contrappeso al potere dell’asse maggioranza-governo, e il ridimensionamento drastico delle Regioni; tace su ambiti importanti della riforma (per esempio, moltiplicazione e complicazione dei procedimenti di formazione delle leggi; revisione restrittiva immediata e integrazione futura degli istituti di democrazia diretta; introduzione della tutela dei diritti delle minoranze parlamentari e dello statuto delle opposizioni, però interamente affidata alla maggioranza; modifiche al procedimento per elezione del Presidente della Repubblica e nomina dei giudici della Corte costituzionale di spettanza parlamentare). A leggere il quesito, sembra che chi sceglie il NO voglia conservare il bicameralismo paritario come fattore di lentezza della produzione legislativa e l’attuale numero esorbitante di poltrone parlamentari, rifiutare di spendere meno per la politica e tenersi l’ente inutile CNEL, lasciare come sono le competenze delle Regioni che, dopo la riforma del titolo V nel 2001 per motivi politici contingenti di contrasto al federalismo rampante, hanno intasato la Consulta con un contenzioso enorme. In realtà, come ho cercato di spiegare, le ragioni del NO sono assai diverse. |