Lo spettacolo del Sì e il sardorenzismo [di Alessandro Mongili]
Ci vorrebbe la penna di Emilio Lussu per descrivere come argomentazioni sino a qualche mese fa impossibili siano diventate normali per i membri del ceto dirigente. Per tutti è diventato scontato il bisogno di meccanismi che preservino le decisioni da passaggi popolari e da mediazioni parlamentari. O fra lo Stato e le aborrite Regioni. Lo Stato centralista e accentratore in fondo va bene, qual è il problema? Non è più un problema, infatti. Il Presidente della Regione e la sua scalcagnata Giunta sono schierati in prima linea per il Sì, come ci si attendeva. Il ragionamento è che, insomma, a parte la possibilità che ci mettano nuove installazioni militari o nucleari senza neanche avvisarci, grazie alla nuova “clausola di salvaguardia” in Costituzione, non cambia nulla, anzi, “perché per le regioni che si comportano bene, che avranno i conti in ordine e che saranno in grado di poter erogare migliori servizi ai cittadini, ci sarà più autonomia. “ [Pigliaru] Come a scuola, la maestra ci può premiare o punire. Quando si dice un orizzonte assiologico… Quel che impressiona, è il fatto che nessuno, fra i Sindaci, i Consiglieri regionali, quelli comunali, e gli Assessori del PD – tranne qualche rarissima eccezione – si sia schierato per il NO. Addirittura il gruppo di potere che in Sardegna si fa chiamare SEL si è schierato per il NI, che forse è perfino un SO, o chissà. Lo spettacolo che il PD e la rete oligarchica di potere che capeggia dà è quello della chiamata alle armi, con totale disprezzo della logica e degli interessi della Sardegna. Perfino la causa autonomistica è stata buttata nell’immondezza, senza pensarci più di un minuto, e nel silenzio totale delle mosche cocchiere sovraniste, che al limite fanno una garbata ed eterea campagna per il NO, nella speranza che nessuno se ne accorga. Come si sia arrivati a questo punto non è dato saperlo. I metodi del renzismo in Sardegna impressionano. Viene in mente un parallelismo storico fra l’instaurarsi del renzismo e quello del fascismo in Sardegna, ed è abbastanza preoccupante. A Roma si tenta di restringere la democrazia e di ri-accentrare lo Stato, allora come oggi. A Cagliari si manda un plenipotenziario che non è più il generale Gandolfo ma il più modesto Gianni Dal Moro (Garante italiano del PD sardo). Il 16 ottobre scorso egli ha radunato i dirigenti del partito dominante e li ha invitati con modi sbrigativi a buttarsi pancia a terra per la campagna referendaria: scrive in quella data La Nuova Sardegna, quotidiano completamente agli ordini del renzismo, «la campagna referendaria è una priorità assoluta» e – come tra l’altro c’è scritto nel documento di Tramatza – «il partito dovrà impegnarsi compatto per la vittoria del Sì». È un fatto che, a seguito di quella data, si sia vista una straordinaria mobilitazione della nomenklatura dem sarda. Certo, le dichiarazioni del Presidente campano De Luca illustrano quali metodi potrebbero essere stati usati per convincere il PD sardo ad allinearsi. Ma ogni tipo di pressione resta probabile. Il generale Gandolfo si mostrò a suo tempo ben più disponibile a mediazioni e a finanziamenti, che comunque in modo virtuale sono arrivate anche nel corso delle Visite sovrane di Renzi e dalle firme di fantomatici Patti o di promesse palingenetiche varie a cui noi Sardi siamo abituati dai tempi di Carlo Felice. Direte, il renzismo non è il fascismo. Vero: entrambi però, in epoche diverse, rappresentano gli interessi “totalitari” dell’establishment italiano, quello che ha sempre guidato questo malfermo progetto “nazionale” di uno Stato fondato sull’alleanza del Nord industriale con il Sud clientelare e con la Sardegna coloniale. Ed entrambi lo fanno in una fase di crisi, aperta a possibili cambiamenti, anche profondi. Allora come ora, l’establishment è impaurito dalla possibilità stessa di perdere i propri privilegi (nel loro linguaggio, la “stabilità”), di far posto a supposti barbari, o ancora di dover pagare per i propri misfatti, innumerevoli. Infine, il parallelismo più inquietante. Il fascismo si affermò in tutta Italia schierandosi contro lo sviluppo agricolo, le cooperative, e abbandonando il Mezzogiorno alla propria sorte. Non modificò la politica di mancato sostegno allo sviluppo. In Sardegna no. Il sardofascismo, cioè lo scioglimento del PNF originario e la sua sostituzione con i Sardisti “di destra”, l’apertura di cooperative agricole e i contratti di esportazione del nostro formaggio negli USA, l’insegnamento del sardo nelle scuole (anche se in modo accessorio) e tanti piccoli riconoscimenti sembravano suggerire il rispetto del Patto fra sardisti passati al fascismo e gli interessi che il fascismo rappresentava. E la nostra eccezionalità. Ma quanto durò? Già negli anni ’30 le cooperative vennero chiuse, il sardo proibito, ogni sviluppo locale inibito, i migliori fra i sardofascisti espulsi dal partito. Pensare che la Sardegna potesse salvarsi dal fascismo fu un tragico errore, simile alla Perfetta Fusione del 1847, di cui poi non fu possibile pentirsi per cambiarne gli esiti. Gli esiti furono i bombardamenti, la guerra, la miseria, la perdita della nostra ricchezza culturale, la colonizzazione. Nel caso della Perfetta Fusione la chiusura dei mercati in cui si esportavano i nostri beni (allora, la Francia), la distruzione delle foreste, la marginalità strutturale, lo sfruttamento coloniale delle nostre risorse, e nessuna voce in capitolo sulle scelte che riguardavano la nostra vita in entrambi i casi. Oggi, non è diverso. Si pensa che l’autonomia si possa salvare all’interno di un attacco feroce e complessivo alle regioni. O almeno lo si proclama. Questo dà la misura della pochezza e della superficialità di chi, per nostra enorme disgrazia, governa la Regione in questa fase delicatissima. E dei rischi ai quali il PD, SEL e la Giunta Pigliaru ci espongono con le loro visioni di cortissimo respiro e la loro incapacità politica. Le regioni non devono essere chiuse, ma, come ogni altro aspetto della vita pubblica, ripulite dalla corruzione. Pensare di salvare la nostra autonomia in un quadro di accentramento complessivo dello Stato è un’idea grottesca e perdente, così come fu il sardofascismo. Sono convinto che domenica, al Referendum, i Sardi debbano assolutamente mobilitarsi per il NO, non tanto per difendere questo straccio di Autonomia di cui disponiamo, ma per ostacolare un processo politico autoritario, populista e che pare interessato solamente alla difesa di piccole rendite personali ormai non più esigibili. Del quale, non si illudano anche certi indipendentisti, ben presto saremo chiamati a pagare le conseguenze tutti noi. Schierarsi per il SI, o astenersi, è un atto di autolesionismo che, nelle condizioni tragiche in cui ci troviamo, non possiamo permetterci. |
Ho di recente partecipato ad un incontro promosso dal comitato per il NO e tra gli altri e’ intervenuto a spiegare le ragioni del NO l’On. Michele Piras che mi risulta far parte a tutti gli effetti di SEL, per altro in via di scioglimento.
Per la precisione
Giunto al punto di definirmi in merito al referendum costituzionale del 4 Dicembre avverto certamente, da sardo, il peso delle interpretazioni di una vasta schiera di sarda intellighenzia, la quale vede tra le conseguenze di un’eventuale vittoria del Sì lo stringersi al collo della Sardegna di quel cappio centralista che la usurperebbe definitivamente della sua poca autonomia: un governo centrale che la nuova Costituzione avrebbe reso più forte (specie in tema di materie a oggi affidate alla legislazione concorrente con le Regioni, seppure la giurisprudenza della Corte Costituzionale gli abbia già riconosciuto sulle stesse una finale prevalenza) si troverebbe a trattare l’intesa per le modifiche ai loro Statuti con ciascuna Regione (e ciascuna Provincia) Autonoma; modifiche che in quello che sarebbe il nuovo quadro nazionale si prevedono generalmente “al ribasso”, ossia più in favore delle competenze dello Stato.
Quindi i Sardi (ma lo stesso varrà per i cittadini delle altre Regioni e Provincie Autonome) dovrebbero preferire, logicamente, il No, per difendere le loro autonomie e la speranza (magari) che queste in futuro possano aumentare anziché ridursi. Questo almeno spiega una vasta intellighenzia, che sempre ascolto se non anche seguo.
Metto dunque anche tale argomento sul piatto del No, vicino ad altri pressoché tutti da imputare alla nuova legge elettorale (che non è materia di questo referendum, ma viaggia, politicamente, con esso): la rappresentatività delle organizzazioni politiche in parlamento sarebbe in parte sacrificata; quindi, nonostante per le istituzioni di garanzia si prevedano quorum superiori alla maggioranza drogata dal premio per la governabilità, scardinare la neutralità di queste istituzioni e la stessa Costituzione, dietro l’allearsi della maggioranza con una frangia dell’opposizione, sarebbe effettivamente più facile che non oggi (tutto è relativo).
Cosa si può riconoscere, però, sul piatto del Sì?
Intanto (lasciando per ultime le argomentazioni sulla Sardegna) vi si può riconoscere che una sola camera la quale esprima la fiducia al governo (e cui sola spetti l’approvazione del 95% o più delle leggi), con una maggioranza comunque determinata dal voto (come in numerose democrazie meglio funzionanti e solide della nostra fin qui), renderebbe finalmente attuabili i programmi di legislatura che il Paese abbia preferito (e renderebbe quindi la maggioranza ben identificata come responsabile di quanto avrebbe o non avrebbe ottenuto con le sue politiche).
Il Senato dei territori, comunque inserito nel processo legislativo (e democratico quanto altre Camere in altre democrazie), dovrebbe compensare l’accentramento di competenze legislative dettato dalla nuova riforma del Titolo V (accentramento di fatto già largamente vigente, come accennato sopra, in virtù della giurisprudenza della Corte Costituzionale degli ultimi anni).
Sembrano, questi sul piatto del Sì, aspetti marginali? Sembrano svantaggi o pericoli? Se ne vuole aver paura?
I vantaggi discenderebbero dal superamento della estenuante politica fitta di consociativismo e di responsabilità evanescenti che ci sembra, purtroppo, la normalità, immodificabile per paura se non per convenienza.
Pensare di rimanere in questa situazione per salvare l’attuale assetto autonomistico della nostra Regione sembra saggio? Si pensa che con la sconfitta dei Sì il futuro vedrebbe la Sardegna fiorire entro l’ordinamento ben noto e avvicinare così maggiore sovranità? O si pensa che un “tanto peggio” per l’Italia potrà mai risultare in un “tanto meglio” per la Sardegna? Si pensa che un sacro e migliore spirito di riforma ci porterà entro tempi ragionevoli a un assetto costituzionale più favorevole, per l’Italia e/o per la Sardegna?
Scelgo, in definitiva, di non avere paura davanti all’occasione di cambiamento che si presenta (inutile pensare potesse essere migliore nella situazione data; ragionevole pensare non se ne presenteranno di migliori per troppo tempo). Scelgo di fidarmi della solidità democratica di un Paese (mal unito quanto si voglia) che non può ancora pagare prezzi superiori agli altri per un’assicurazione anacronistica contro un nuovo Mussolini (se non anche contro il ritorno di un qualche comunismo reale): erano costi che si potevano sostenere lungo la guerra fredda, grazie alle garanzie di qualche alleato, ma da un pezzo non più.
E scelgo di avere fiducia in quello che la Sardegna, anche in questo nuovo assetto costituzionale, saprebbe progettare e costruire per sé stessa.
Si vorrà dire che i Sardi che voteranno Sì ripeteranno l’errore che fu la richesta della Fusione Perfetta nel 1847. Credo di conoscere la storia, mi chiedo comunque quale altro ruolo allora avrebbe potuto giocare la Sardegna (allora, dico, e non al tempo della Sarda Rivoluzione), quanto avrebbe cambiato conservare istituzioni e “privilegi” che risultavano da tempo solo sulla carta e, infine, quanto quel passaggio abbia invece incluso la Sardegna nel nascente Risorgimento italiano (fatto ovunque da minoranze non tanto ossessionate dalle procedure democratiche, proprio come furono in Sardegna i sostenitori di quella Perfetta Fusione). Se da tempo su questa sorta di ingresso nel Risorgimento piace esprimere recriminazioni e pentimenti, potrà essere di qualche (magra) consolazione che recriminazioni e pentimenti su quel processo di unificazione siano da sempre espressi da tanti anche fuori dalla Sardegna.