Perché voto NO al referendum. Lettera aperta al PD [di Walter Tocci]

renzi-referendum

Sinistrainrete.info 30 novembre 2016. Care democratiche e cari democratici, avverto il dovere di chiarire le ragioni che mi portano a confermare nel referendum il voto contrario già espresso in Senato sulla revisione costituzionale. Ecco alcuni punti che mi stanno a cuore.

La soluzione senza il problema C’è pieno accordo tra noi sulla esigenza di riforma del bicameralismo, ma forse proprio per il largo consenso sulla soluzione si è smarrito il problema. Si è fatto credere che il problema sia la velocità delle leggi, quando è evidente che sono troppe e vengono modificate vorticosamente. L’alluvione normativa soffoca le energie vitali del Paese. Si è drammatizzata la lungaggine della doppia navetta, ma riguarda solo il 3% dei provvedimenti. I più veloci sono anche i peggiori: il decreto Fornero convertito in quindici giorni viene revisionato ogni anno; le norme ad personam di Berlusconi furono come lampi in Parlamento, il Porcellum fu approvato in due mesi circa, ecc.. I tempi sono rapidi quando c’è la volontà politica, soprattutto se negativa.

Si, per fare buone leggi valeva la pena di riformare il bicameralismo. Era meglio eliminare il Senato, imponendo alla Camera maggioranze qualificate sulle leggi di garanzia costituzionale; oppure si poteva specializzare il Senato come Camera di Alta legislazione, priva di fiducia, ma dedita alla produzione di Codici al fine di assicurare l’organicità, la sobrietà e la chiarezza delle norme. Erano soluzioni forse troppo semplici. Si è preferito invece un assetto tanto arzigogolato da pregiudicare perfino l’obiettivo della velocità.

 Potestas senza auctoritas in Senato È un bicameralismo abbondante, frammentario e conflittuale. Il Senato mantiene, seppure in modo contorto e controverso, molti poteri, ma perde l’autorevolezza, diventando il dopolavoro del ceto politico regionale, senza l’indirizzo politico né il simbolo di un’antica istituzione. Bisogna riconoscere che il primo testo del governo mostrava una certa coerenza cambiando anche il nome in Assemblea delle autonomie. Poi è stato reinserito il nome Senato più per una nostalgia rassicurante che per un rango riconosciuto. All’opposto del suo riferimento storico, infatti, è un’Assemblea dotata di potestas ma povera di auctoritas. In tali dosi la prima tende a superare i limiti e la seconda non basta a irrobustire la responsabilità. Il risultato sarà una conflittualità sulle attribuzioni delle leggi, affidata ai Presidenti delle Camere senza soluzione in caso di disaccordo.

Il contenzioso verrà alimentato da una pessima scrittura del testo. In certe parti assomiglia a un regolamento di condominio, è come uno scarabocchio sullo stile sobrio della Carta. Ora perfino gli autori dicono che si poteva fare meglio. Quale demone ha impedito di scrivere un testo in buon italiano? Il linguaggio sciatto è sempre il sintomo di un malessere inconsapevole.

Crisi politica, non costituzionale L’ossessione nel cambiare la Costituzione è una malattia solo italiana, non ha paragoni in nessun paese occidentale. Eppure tutti i sistemi istituzionali sono prodotti storici e quindi naturalmente difettosi. La Costituzione americana non prevede neppure il decreto legge, ma consente di gestire un impero e alimenta da oltre due secoli una religione civile, nessuno si sognerebbe di modificarne decine di articoli. Sono i governanti che devono compensare con la politica i difetti dell’ordinamento, quando non sanno farlo invocano le riforme istituzionali.

Che intanto sono servite a cancellare il tema dell’attuazione della Costituzione. Basta rileggere l’articolo 36: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Sono principi negati per milioni di italiani, di giovani e di migranti, senza che il rispetto della Carta diventi mai una priorità politica.

Se si rimuovono le cause storico-politiche, il riformismo istituzionale diventa una metafisica senza tempo e senza realtà. Tutto è cominciato quando sono finiti i vecchi partiti, che nel bene e nel male comunque avevano governato il Paese, sia in maggioranza sia dall’opposizione.

Da allora il ceto politico non è stato capace o non ha voluto rigenerare strutture politiche adeguate ai nuovi tempi e ha scaricato tale incapacità sulle istituzioni. Si è trasformata una crisi politica in una crisi costituzionale. Alcuni politici si sono dati l’alibi dicendo che volevano spostare le montagne ma le procedure parlamentari lo impedivano.

La decadenza di una nazione comincia quando l’attivismo delle soluzioni oscura la consapevolezza dei problemi. Negli anni della grave caduta della produttività economica, si è parlato solo della produttività legislativa. Da molto tempo l’Italia non riesce ad aprirsi al mondo nuovo, non accede alla società della conoscenza, eppure il discorso pubblico di destra e di sinistra si occupa di un piccolo problema di tecnica parlamentare, fino a ingigantirlo come il principale ostacolo da rimuovere sulla via del progresso. Che il Paese non si possa governare a causa del bicameralismo è la più grande panzana raccontata al popolo italiano nel secondo Novecento. Senza temere il ridicolo, l’establishment promette che il nuovo articolo 70 aumenterà il PIL; ora si promette anche la lotta al terrorismo e altro ancora! È un sacco vuoto che può essere riempito di ogni cosa.

Servire, non servirsi della Carta All’inizio c’era almeno un’intenzione costruttiva, che le riforme servissero a stimolare il rinnovamento dei partiti. Anche io ho creduto in tale opera pia, ma era come il tentativo del barone di Münchausen di sollevarsi da terra tirandosi per il codino. Non era possibile che i partiti in caduta verticale di idee e di consensi avessero miracolosamente la capacità di riscrivere la Carta. Con il risultato che la crisi politica non curata è degenerata nel discredito del ceto politico e le riforme istituzionali sono sempre fallite.

Sono state numerose – basta con la storiella delle occasioni mancate! – ma si sono rivelate sbagliate perché motivate solo da interessi politici contingenti, non da progetti costituzionali: il Titolo V della sinistra per rincorrere la Lega; la riforma del 2005 per frenare la crisi di Berlusconi; lo jus sanguinis del voto all’estero per legittimare Fini; il pareggio di bilancio per celebrare Monti. Oggi si ripete l’errore con maggiore impeto: si riscrive la Carta per legittimare un governo privo di un programma presentato agli elettori e per prolungare il Parlamento addirittura come Assemblea Costituente, pur essendo costituito con legge elettorale illegittima.

Che vinca il Si o il No, comunque è una revisione costituzionale senza futuro. Non può durare nel tempo perché è scritta solo dal governo attuale, non è frutto di un’intesa, anzi alimenta la discordia nazionale. Lo so bene che alcuni si sono sfilati per misere ragioni, ma dalla nostra parte non si è cercato sempre uno spirito costituzionale. Anzi, è prevalsa l’illusione che “spianare gli avversari” – come si dice oggi con lessico desolante – potesse rafforzare la leadership del PD.

Provo un senso di pena per chiunque motivi la revisione della Carta con la lotta alla Casta del Parlamento. La riduzione dei costi degli eletti c’è già stata e si può fare di più con le leggi ordinarie. Se invece si scomoda la Costituzione è solo per impressionare l’opinione pubblica. Il populismo di governo è tanto sguaiato quanto inefficace, perché non batte neppure l’originale grillino, come si è visto alle elezioni.

E racconta mezze verità. La riduzione del numero dei parlamentari c’è solo nel Senato che perde rango, ma non nella Camera che aumenta il potere. Eppure proprio il numero dei deputati, in rapporto alla popolazione, è tra i più alti in Europa. I “rottamatori” non hanno avuto il coraggio di deliberare per una Camera più piccola, come invece seppero fare la destra nel 2005 e la sinistra nel 2007.

L’illusione della decisione imperativa  Con la scusa di riformare il bicameralismo, e con l’aggiunta dell’Italicum, in realtà si cambia la forma di governo, senza neppure dirlo. È il “premierato assoluto” tanto temuto da Leopoldo Elia: un leader in partenza minoritario può vincere il ballottaggio e conquistare il banco, non solo per governare il paese, ma per modificare a suo piacimento le regole e le istituzioni di tutti. Ormai se ne è accorto anche il presidente Napolitano del pericolo di “lasciare la direzione del Paese a una forza politica di troppo ristretta legittimazione nel voto del primo turno”.

Il paradosso più grande è che da trent’anni i governi ricevono maggiori poteri, ma ottengono consensi sempre minori. La concentrazione del potere non solo non ha portato benefici al Paese, ma viene da pensare che ne abbia assecondato la crisi. Invece di “cambiare verso“, si realizzano i vecchi propositi con maggiore lena: l’esecutivo domina il legislativo, la Camera prevale sul Senato, il premio di maggioranza non è compensato dai diritti della minoranza, i capilista si allontanano dal controllo degli elettori, i voti di chi vince valgono il doppio di quelli di chi perde, il capo di governo o comanda sulla Camera o ne chiede lo scioglimento, facendo pesare la legittimazione ottenuta nel ballottaggio.

Infine, ritorna la supremazia dello Stato sulle Regioni. Dopo l’ubriacatura del federalismo si torna indietro al centralismo statale, di cui ci eravamo liberati con entusiasmo. Si passa da un eccesso all’altro, senza mai cercare la misura in una cooperazione tra nazionale e locale. Un vero salto di qualità del regionalismo italiano si avrebbe solo con la riduzione del numero delle Regioni, alcune sono grandi quanto un municipio romano. Sarebbe anche l’occasione per superare gli Statuti speciali nati ai tempi della guerra fredda e divenuti ormai relitti storici. Purtroppo proprio le decisioni più importanti sono rinviate sine die. Nelle partite difficili i riformatori muscolari gettano la palla in tribuna.

Da che cosa viene la voglia smodata di concentrare il potere? Nei momenti di crisi è più facile cadere nelle illusioni. La più ingannatrice è che la complessità italiana possa essere risolta dalla decisione imperativa. Eppure essa è innaturale per il carattere italiano, è antistorica per la Repubblica costituzionale, ed è anche inefficace per un’Amministrazione debole come la nostra.

La ricerca affannosa della reductio ad unum sembra una terapia e invece è la malattia. La fortuna del Paese è quando molti si danno la mano. Dal centralismo sono venute solo dissipazioni di risorse, ritardi storici e anche lutti e rovine. Le buone leggi si scrivono quando la politica non fa tutto da sola, ma aiuta la generatività sociale, ha fiducia nel Paese e ne viene ricambiata. I frutti migliori dello spirito italiano sono sempre venuti dalla molteplicità.

Il piccolo mondo antico di Aldo Bozzi Vorrei che i giovani politici ci chiamassero a realizzare nuove ambizioni. Mi rattrista vederli cincischiare con il piccolo mondo antico di Aldo Bozzi, un vero signore, dall’aspetto ottocentesco, che calcava la scena quando molti di loro non erano ancora nati. Dopo il fallimento della sua prima Bicamerale, molti ci rimasero male, ma li tranquillizzò Norberto Bobbio: le riforme istituzionali – secondo lui – erano solo fanfaluche utilizzate per eludere i veri problemi della democrazia italiana.

Eppure, il programma di allora è proseguito fino a oggi, sempre la stesso, con piccole varianti. A forza di raccontarlo come il nuovo è invecchiato prima di essere attuato, perché erano sbagliati i problemi da cui partiva. Per trent’anni i politici hanno ripetuto che la governabilità era più importante della rappresentanza. Quasi la metà del popolo li ha presi in parola disertando le urne.

Le consunte ricette della politologia sono state bruciate dagli eventi. Siamo corsi dietro il modello Westminster, ma il bipolarismo non esiste più neppure in quel paese. Invece di convincere gli elettori astensionisti, si è tentato di sostituirli con i premi di maggioranza. Invece di confrontarsi sui programmi di governo, i partiti si distinguono sulle leggi elettorali. Ha dominato da noi un imperativo quasi inesistente in Europa: la sera delle elezioni al telegiornale si deve sapere chi governa. Però nella Seconda Repubblica nessun governo è poi riuscito a vincere le elezioni successive, nonostante la prosopopea della stabilità.

Forse quell’imperativo è sbagliato, perché orienta la politica solo alla sera delle elezioni, non alla duratura guida del Paese. Spinge i partiti a diventare mere macchine elettorali, senza progetto culturale e senza radicamento sociale. Le classi politiche perdono il contatto sia con l’invenzione progettuale sia con la realtà popolare e si abbarbicano alle macchine amministrative. Un altro paradosso del nostro tempo è che voleva privatizzare ogni cosa e invece ha finito per statalizzare la politica. I politici statalizzati non maneggiano gli strumenti sociali e culturali necessari a governare il cambiamento, sanno solo scrivere leggi e ne approvano tantissime. Ma la bulimia legislativa è un segno di impotenza del governo.

Occupiamoci del futuro e lasciamo agli storici la spiegazione della lunga vacanza dalla realtà che la politica si è presa giocando con l’orsacchiotto di pezza delle riforme istituzionali. La Carta si può anche modificare, ma occorre l’umiltà per fare meglio dei padri e la lungimiranza per lasciare un’eredità ai figli. Entrambi i compiti sono stati mancati dalla mia generazione e dalla successiva. Vorrà dire qualcosa se da venti anni tutte le revisioni sono fallite.

Un giorno verrà una classe politica capace di guidare il Paese e ce ne accorgeremo proprio dalla bontà dei miglioramenti che apporterà alla Costituzione. Nel frattempo non siamo così disperati da applicare anche alla Carta l’ordinario “riformismo purchessia” che accetta tutto anche se poco va bene. Il bicameralismo è certamente un difetto da correggere, non lo nego, ma in una graduatoria di importanza sarà forse il centesimo; con la vittoria del NO la classe politica dovrà occuparsi dei 99 problemi più importanti dell’Italia.

Cambiare il PD è una riforma costituzionale Nel paese del melodramma si mettono in scena le tragedie anche su problemi inesistenti. Se il NO vince non è l’apocalisse. Chi ha alimentato il panico saprà anche sgonfiarlo. Ammiro gli inglesi almeno per la forma, certo non per il contenuto della sciagurata Brexit, quella si una scelta davvero dirimente per il Paese. Il partito conservatore ha bruciato il suo leader e i due probabili successori, ma in poche settimane ha trovato un quarto leader, una donna, e ha ripreso il cammino del governo. Ecco a cosa servono i partiti, a risolvere le crisi, da noi invece si utilizzano le crisi per annichilire i partiti.

Si dirà che il PD non è solido come i Tories, ma se non ci pensiamo normali non lo diventeremo mai. Si teme che non regga una smentita al referendum, forse perché a differenza dei partiti europei dipende esclusivamente dalla persona che lo rappresenta. Non solo oggi, da quando lo abbiamo fondato – sono ormai dieci anni – il PD si è occupato solo della leadership, tutto il resto è andato in secondo piano: il progetto Paese, la cultura, l’organizzazione, la selezione dei dirigenti. Ma è proprio di queste carenze che poi rimangono vittime i leader. Dopo lo slancio iniziale smarriscono le promesse perché non hanno lo strumento per realizzarle.

È successo con Veltroni e con Bersani, e rischia di ripetersi con Renzi. La Costituzione è difettosa soprattutto nell’articolo 49, poiché oggi mancano i partiti per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale“. Non basta la nuova legge sui partiti se non si riforma la sostanza della politica. Cominciamo almeno dalla nostra parte. Cambiare il PD è già una riforma costituzionale.

Postilla Care democratiche e cari democratici, voterò NO al referendum utilizzando la libertà di voto che il nostro Statuto consente in materia costituzionale. Il dissenso è una bevanda amara da prendere in piccole dosi, quindi cerco di esprimerlo nelle forme strettamente necessarie. Non ho aderito al comitato per il NO, pur condividendone il compito, partecipando alle iniziative e stimando tanti cari maestri che lo rappresentano. Qui ho espresso le mie personali motivazioni, ma credo ci siano nel PD tanti militanti ed elettori che con argomentazioni diverse condividono la scelta per il NO.

Sarebbe utile ritrovarsi in una dichiarazione comune e promuovere momenti di confronto e di approfondimento; ancora lo Statuto consente di esprimere in forma collettiva una scelta diversa da quella della maggioranza. Potremmo contribuire al dibattito referendario con una motivazione critica, ma rispettosa della posizione ufficiale. Sarebbe un altro buon esempio di democrazia del PD, e aiuterebbe a superare le personalizzazioni e le drammatizzazioni che si sono rivelate inutili e dannose. I democratici per il No possono contribuire a una discussione di merito sul significato del referendum.

 

One Comment

  1. Giovanni Scano

    Mi sento adeguatamente rappresentato nella presa di posizione di Walter Tocci. Sono iscritto al Partito Democratico e sono orientato a votare no al referendum confermativo del prossimo 4 dicembre. Questo perché ritengo la riforma inadeguata. Potrei dire che la montagna ha partorito il topolino.

Lascia un commento