Consumo di suolo: la proposta di legge è sbagliata e inemendabile [di Vezio De Lucia]

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Il Giornale dell’Architettura. com 15 dicembre 2016. Secondo Vezio De Lucia il DDL sul “Contenimento del consumo di suolo” non considera i temi della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Mi pare giusto dichiarare subito che, secondo me, è sbagliata e inemendabile la la proposta di legge governativa in discussione al Senato in materia di contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato. E penso che sia inutile, forse dannoso, il tentativo di migliorarla promosso da tanti anche illustri colleghi.

Prima di entrare nel merito è bene però ricordare che in Italia, in media, non meno dell’80% dello spazio urbanizzato è stato costruito dopo la seconda guerra mondiale, determinando quasi ovunque – si pensi a Roma – realtà urbane a bassissima densità, le cui inevitabili conseguenze sono un pesante aggravamento dei costi di gestione e un progressivo peggioramento delle condizioni della vita urbana.

Un’altra importante informazione è che in Italia non si ferma il consumo del suolo. L’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, espressione del ministero dell’Ambiente) nel rapporto annuale del luglio 2016 ha calcolato che ogni anno il nostro paese copre di cemento e di asfalto 12.500 ettari di campagna, e il costo di questa progressiva perdita di spazio aperto ammonta a ottocento milioni l’anno, quasi una finanziaria. Eppure manca qualunque apprezzabile intervento di contrasto. Solo lamentazioni e inutili dichiarazioni anche di autorevoli esponenti del governo.

Fa eccezione la Toscana che, nella precedente legislatura (2014), grazie soprattutto all’assessore Anna Marson, ha approvato una legge esemplare, concettualmente molto semplice. Ciascun comune della regione divide il proprio territorio in due parti: quella urbanizzata e quella non urbanizzata. Tutti gli interventi necessari per soddisfare accertati fabbisogni devono essere collocati dentro il perimetro urbanizzato. Fuori del perimetro non si può costruire edilizia residenziale: insomma, in Toscana non si possono più fare case in campagna. Altri manufatti, diversi dalle residenze, possono essere realizzati nel rispetto di rigorose procedure che, tra l’altro, prevedono il potere di veto della Regione.

Accanto alla Toscana non mancano i comuni dotati di piani regolatori che fermano davvero il consumo del suolo. Non solo Cassinetta di Lugagnano (Milano). Prima di Cassinetta mi permetto di ricordare il Prg di Napoli del 2004, l’unico di una grande città italiana che non prevede consumo di suolo. Non si tratta di un traguardo genericamente proclamato ma di un risultato effettivamente raggiunto e salvaguardato negli anni.

Nel piano non ci sono zone d’espansione, accanto al centro storico il resto della città esistente è sottoposto a interventi di ristrutturazione e riqualificazione. Lo spazio non urbanizzato, formato dal grande sistema collinare da Capodichino a Pianura, è integralmente destinato a parco agricolo tutelato da apposita legge regionale. È incommensurabile il contrasto con Roma che, dal 1971, mentre la popolazione è rimasta sostanzialmente la stessa, ha più che triplicato lo spazio urbanizzato.

Ma gli esempi virtuosi della Toscana e di Napoli sono ignorati dal governo e dal legislatore nazionale che hanno invece imboccato la strada senza uscita del meccanismo a cascata Stato-regioni-comuni. La proposta di legge prevede infatti un percorso in quattro tempi:
1. lo Stato definisce la riduzione del consumo di suolo a scala nazionale
2. la quantità stabilita a livello nazionale è ripartita fra le regioni
3. ciascuna regione suddivide la sua quota fra i comuni
4. i comuni riformano gli strumenti urbanistici cancellando le espansioni in eccesso.

In sostanza, lo Stato propone ma a decidere – in un tortuoso contesto di scadenze, “concerti”, diffide e labilissimi poteri sostitutivi che qui ci risparmiamo – sono le regioni e i comuni. Non è difficile prevedere che, alla fine, il contenimento del consumo del suolo non sarà mai attuato proprio dove sarebbe più necessario e urgente. Vi immaginate gli stratagemmi cui faranno ricorso le regioni e i comuni più sensibili agli interessi immobiliari (soprattutto da Roma in giù) per ritardare l’attuazione della legge fino a quando tutto lo spazio disponibile sarà ricoperto “da una repellente crosta di cemento e di asfalto” (Antonio Cederna)?

Per comprendere l’errore di base del provvedimento che stiamo discutendo è indispensabile un riferimento all’art. 117 della Costituzione che definisce e distingue le potestà legislative dello Stato e delle regioni. In particolare:
– il 2° comma elenca le materie oggetto di legislazione esclusiva dello Stato
– il 3° comma riguarda invece le materie oggetto della cosiddetta legislazione concorrente (alle regioni la potestà legislativa, allo Stato la determinazione legislativa dei principi fondamentali).

La legge per il contenimento del consumo del suolo fa riferimento al 3° comma che fra le materie oggetto di legislazione concorrente elenca anche il governo del territorio (ex urbanistica). Questa è la ragione dell’inconcludente meccanismo a cascata Stato-regioni-comuni: l’aver considerato il contenimento del consumo del suolo come una parte del governo del territorio. Ma non è una scelta obbligata, e siamo in molti a chiederci perché non si è fatto ricorso al 2° comma dell’art. 117 (legislazione esclusiva dello Stato) che avrebbe consentito di scavalcare le regioni stabilendo un rapporto diretto Stato-comuni molto più spedito ed efficace.

Le materie afferenti alla legislazione esclusiva dello Stato sono moltissime, raggruppate secondo le lettere dell’alfabeto: dall’a) di politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea; fino alla lettera s) di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Proprio la lettera s) fornisce la soluzione.

Che forse il contenimento del consumo del suolo non coincide perfettamente con la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali? In questo senso – facendo cioè capo al comma 2, lettera s) dell’art. 117 della Costituzione (legislazione esclusiva dello Stato) – va la soluzione legislativa elaborata da eddyburg, il sito web di Edoardo Salzano, soluzione anch’essa ignorata dal legislatore e da molti fra gli stessi critici della proposta governativa.

Prima di concludere almeno un cenno va riservato a un altro scenario, stavolta non legislativo: mi riferisco ai piani paesaggistici previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Secondo il Codice, i piani paesaggistici devono essere elaborati congiuntamente tra ministero per i Beni culturali e regioni. Ma spetta al ministero l’individuazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità d’indirizzo della pianificazione.

Se si fossero approvate le suddette linee d’indirizzo, inserendo in esse l’obiettivo irrinunciabile dello stop al consumo del suolo, disporremmo oggi di un quadro normativo molto più efficace e convincente. Ma sappiamo che il ministero e i ministri dei Beni culturali degli ultimi lustri, affaccendati in tutt’altre faccende, hanno sempre trascurato la pianificazione paesaggistica.

Concludo tornando alla proposta governativa in discussione al Senato per accennare ad altri due contenuti impropri e rovinosi che concorrono a renderla inemendabile: la rigenerazione delle aree urbane degradate e i compendi agricoli periurbani. I compendi agricoli neorurali riguardano la possibile trasformazione dell’edilizia rurale in attività amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, di cura, eccetera. Una legge che dovrebbe “promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente” consente viceversa la distruzione dell’attività agricola e dei relativi insediamenti rurali.

Ancora peggio l’altra novità in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate. Una delega al governo – sostanzialmente una delega in bianco – a emanare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi volti a semplificare le procedure per gli interventi di rigenerazione di tali aree. Il modello è il decreto Sblocca Italia.

 

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