Da Proust a Katy Perry, siamo fatti di parole [di Zygmunt Bauman]
La Repubblica, 10 gennaio 2017. «Testo tratto da In Praise of Literature (“ Elogio della letteratura”), firmato da Zygmunt Bauman con Riccardo Mazzeo, edito da Polity Press, e che uscirà in Italia da Einaudi Traduzione di Anna Bissanti». Che si tratti di Katy Perry o di Marcel Proust o Lacan che hanno qualcosa di importante da dire sulle premesse inconsce della loro consapevolezza – o di voi e di me; a prescindere da ciò che noi tutti e ognuno di noi veda, pensi di vedere o creda di stare vedendo, e a prescindere da qualsiasi nostro comportamento conseguente, ogni cosa è sempre intessuta in un discorso. Di fatto, noi mangiamo discorsi, beviamo discorsi, guardiamo discorsi. Il discorso è ciò di cui siamo fatti. Ed è a causa del discorso e della sua intrinseca necessità di dover guardare al di là dei confini che esso impone alla propria libertà che il nostro stare-al-mondo è un processo di perpetuo divenire – eterno e infinito. Il divenire insieme, il mescolarci, l’essere intrinsecamente, inseparabilmente intrecciati e avvinti, condividendo i nostri rispettivi successi e insuccessi, congiunti gli uni agli altri nel bene e nel male, dal momento del nostro simultaneo concepimento finché morte non ci separi… Ciò che chiamiamo “realtà” quando cadiamo in uno stato d’animo filosofico, o “dati di fatto” quando seguiamo le opinioni correnti, sono entrambi intessuti di parole. Commentando nel suo libro Un incontro la storia di un vecchio di Juan Goytisolo, Milan Kundera fa notare che la biografia – qualsiasi biografia che tenti di essere ciò che il suo nome suggerisce che debba essere – altro non è che una logica artificiale, artefatta, imposta retroattivamente a una successione poco precisa e incoerente di immagini, sovraccarica di spezzoni di ricordi. Kundera conclude che, in netta contrapposizione con gli assunti del buonsenso, il passato condivide col futuro l’insanabile flagello dell’irrealtà. Eppure, proprio questa irrealtà è l’unica realtà che dobbiamo afferrare e possedere, «vivendo nel discorso come pesci nell’acqua». Questa realtà irreale, fin troppo irreale, la chiamiamo “esperienza”. Ci sforziamo di penetrare attraverso il muro fatto di parole. Paradossalmente, però, quel muro è l’interpretazione. L’interpretazione è sempre un atto di re-interpretazione; la reinterpretazione è sempre una testa di ponte verso un’altra reinterpretazione. Quella che chiamiamo a priori e anche a posteriori “realtà” può arrivare a noi soltanto nell’involucro delle pre-interpretazioni. Una realtà “cruda”, “pura” e “assoluta” — di fatto non deformata — è un fantasma. Eppure utile, almeno finché sarà per noi una sorta di stella di Betlemme che, sistematicamente irritata dall’accecante imperfezione del linguaggio, ci indica comunque la strada verso la perfezione linguistica e così, o almeno si spera, verso la verità. La destinazione prescelta potrebbe essere irraggiungibile. La sua visione, però, ci sprona, ci induce a metterci in cammino e a continuare a camminare. |