Che dire di Orune e della Sardegna? Continuo a pensare che il mio sia un grande popolo, ma……… [di Pina Ghisu]

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Grazie, SardegnaSoprattutto per l’attenzione dedicata ad Orune. Spero ardentemente che il Convegno “La violenza contemporanea nella Sardegna tra passato e futuro” organizzato sabato 28 gennaio ad Orune nel Municipio dalle 15, 30 dia buoni frutti e che sia un primo passo per la creazione di un laboratorio, quale quello auspicato in “Il dovere di un’utopia” tratto dal Lavoro inedito di Sebastiano Mariani “Ghirthalos – un popolo tra la storia e le storie”.

Il dovere dell’utopia. Raccontare la propria gente è cosa ardua, persino da incoscienti a certe latitudini, significa invadere spazi altrui, osservare, citare, giudicare, prendersi la licenza di vedere buono ciò che buono non è e cattivo ciò che solo a noi sembra cattivo. Viene innanzitutto da chiedersi se ne abbiamo il diritto, se ne abbiamo la capacità, se il nostro, il mio, non sia solo un sintomo di vanità per raccontare me stesso, piuttosto che la mia gente, facendomi di essa solo scudo spregiudicato.

Non so rispondere a queste domande, ma credo che questo mio racconto nasca da un desiderio quasi irrefrenabile, un dovere, anche se so che nel mio racconto non c’è molta allegria e che in quanto specchio del racconto c’è molto di me stesso. Anche il racconto è desiderio di essere tra la propria gente, di avere nel ricordo quel che nella vita non ho più, di pagare un debito facendone forse un altro maggiore, di correre davanti alla “persecuzione” senza mai scappare da essa. Il travaglio di un amore che non riesce a trovare pace. Bene e male, nostalgia e amarezze, tenerezze e rammarico scorrono in questi circa 200 anni di racconto e non manca anche tanto, tanto dolore. Continuo a pensare che il mio sia una grande popolo, ma………

A rileggere le pagine di questo racconto non si può non constatare che lungo questo filo di ricordi, di suggestioni, di riflessioni appaia nello sfondo una immagine di sintesi che tra episodi, vicende, figure e numeri rappresenta una quadro molto serio: l’erosione del mio popolo. L’erosione non è il crollo, ma è origine, causa e strumento del crollo, il crollo è il risultato della sua azione.

L’erosione di un popolo non è soltanto l’emigrazione e l’abbandono di case e di terre, è qualcosa di più profondo, che tocca anche chi resta, che ne mina i presupposti per restare e che spesso gli impedisce anche di partire. L’erosione è paradossalmente persino la sua evoluzione senza progresso, la cancellazione delle sue tradizioni, il meticciamento della sua lingua, l’evaporazione della sua poesia, il silenzio dei suoi narratori e dei suoi cantori ormai diventati muti assorbenti di fiction che hanno sostituito i sentieri della nostra terra selvaggia con un filo d’antenna.

Erosione è vedere le sere d’estate silenziose e cupe come quelle dell’inverno. Erosione è l’anemia del vivere, le forze che ti abbandonano e il cervello che si rifugia nelle colpe degli altri e nei rimorsi propri. Troppo spesso ci siamo inferti colpi mortali per poterci consolare in un ipocrita pianto.

Sembra un triste destino quello dei popoli di montagna, quasi una legge del contrappasso, come se la forza che hanno dimostrato in millenni di vita dura, dedicata a difendersi da invasori, da stati ingiusti o assenti, dalle intemperie del tempo e del clima, oggi si fosse totalmente esaurita. E quando si possono avere gli strumenti per difendersi da quegli “storici nemici” l’unico nemico rimasto sul campo siano proprio loro stessi.

E’ noto che il sovraffollamento del territorio, qualunque questo sia, produce conflittualità, perchè ogni essere vivente tende a difendere il proprio perimetro di dominio. Si sarebbe dovuto presumere che l’emigrazione avrebbe abbassato il livello delle conflittualità, eppure il paese è sceso da 6000 a 2300 abitanti e i problemi di convivenza e di cooperazione non sono affatto migliorati, come se ad agire da detonatore della violenza e del conflitto sia ora la solitudine più che lo stress da contatto.

La situazione di Orune, che non è l’unico paese a soffrire questa malattia, è forse la più emblematica, la più seria, la punta dell’iceberg di una lenta agonia delle zone interne. Non bastano 3 giorni di Cortes Apertas per dare fiducia agli altri 362 di grigiore.

Un popolo ansioso, stressato, conflittuale, che deperisce tutti i giorni è un popolo sotto attacco, è un popolo che ha perso l’equilibrio con la storia, che ha bisogno di aiuto. Il malato disorientato, specie se nel tempo si è debilitato nel fisico e nell’anima porta spesso le sue azioni all’abbandono di se stesso o persino all’autolesionismo. Nel 1910 nascevano 151 bambini, nel 2014 ne sono nati appena 12 mentre sono morte 23 persone. Questo popolo sembra aver perso la capacità di generare nuova vita, sembra attendere solo la propria fine.

In data 9 maggio 2015 in pubblica piazza alle 7 del mattino un giovane di 19 anni è stato trucidato dal piombo di folli assassini. Il centediciottesimo degli ultimi 70 anni. E allora forse è giunta l’ora di guardare con grande coraggio questa realtà e decidere cosa sia necessario fare perchè questo popolo riprenda a camminare su un sentiero sano della storia.

Orune è chiamato a capovolgere il suo paradigma, a far si che ciò che sino ad oggi è stato orunesità negativa, col suo trascorso faticoso e dolente, diventi una nuova via per proporsi in questa era del post industriale e del post terziario. I valori della resistenza al tempo, che si sono silenziosamente accumulati e stratificati in caratteri forti e indomiti, quei legami di barriera al bisogno, alla disgrazia, al nemico, che hanno unito nei secoli tante mani, oggi possono mettere predas d’unnamentu per un futuro orgoglioso del loro passato. Basterà volerlo.

Nei tempi di grande crisi, di grande disperazione, quando queste sembrano non avere fine, quando tutto sembra perduto, rimane l’ultima invisibile risorsa : l’Utopia, il progetto che tutti hanno sempre temuto, ma che rimane nell’aria in attesa che un Folle lo sposi e insieme possano cambiare il corso di una storia sbagliata. L’Utopia è che un giorno finalmente Orune diventi il centro di un grande progetto di salvataggio del suo e degli altri popoli montani dall’erosione, dal pericolo della loro scomparsa, dal crollo definitivo. E’ l’ultimo treno su cui salire.

Filosofi, poeti, ingegneri, architetti, linguisti, agronomi, educatori, giovani visionari, dovranno sedersi intorno ad un tavolo in una stanza chiusa e uscire solo quando la loro folle fantasia e la loro scienza avrà un modello da proporre per rivedere questo popolo carico di millenni di storia, riprendere a camminare e a svilupparsi nel progresso e nella pace.

Orune sarà come la cellula in laboratorio sulla quale si sperimenta il nuovo farmaco, dovrà essere un progetto senza luogo nè tempo, dovrà rappresentare l’universale, il come un popolo riprende un cammino verso il futuro, dovranno essere le idee a tracciarne e guidarne il percorso, la finanza dovrà sentirsi orgogliosa di essere messa al servizio di questa idea.

Dovrà parlarsi di pace, di perdono, di lingua, di lavoro, di emigrati, di rientri, di equità, di onestà, di uguaglianza, di terra, di clima, di assistenza, di animali, di storia, di piante, di poesia, di giochi, di riti, di allegria, di immortalità del pensiero, di luce, di perdono, della salute del corpo e dell’anima.

E’ un dovere storico e morale costruire questa Utopia, i popoli non si lasciano morire, i popoli devono essere chiamati a costruire e non a fermare la storia. Sapranno i nostri uomini e le nostre donne essere popolo? i nostri politici, i religiosi, gli educatori, i disoccupati, i giovani, i padri e le madri, sapranno esserlo? è nato in terra di Orune quel Folle? A Tutti loro, a tutti noi è rivolta questa preghiera.”

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