Perché ho scritto del delitto di Dina Dore prima e di quello di Rosanna Fiori poi? [di Maria Francesca Chiappe]

gusana2

Pubblichiamo l’intervento della Caporedattrice de L’Unione Sarda tenuto nel corso dell’iniziativa “La violenza contemporanea nella Sardegna tra passato e futuro” organizzato da SardegnaSoprattutto nella Sala del Consiglio Comunale di Orune, sabato 28 gennaio 2017 (N.d.R).

Io vorrei partire da un perché. Che è il mio perché. Il perché ho scritto del delitto di Dina Dore prima e di quello di Rosanna Fiori poi. Perché sono due donne? No. No: la molla è scattata quando mi sono resa conto di quanto i lettori delle cronache sull’omicidio di Gavoi fossero sorpresi. E di quanto fosse poco conosciuto il sottofondo del delitto Fiori.

Lettori sorpresi sul delitto Dore, dunque. Mi spiego subito. L’uccisione di Dina Dore ha suscitato una profonda emozione in Sardegna: c’era una bambina piccola nel momento fatale; si è temuto a lungo un sequestro di persona; molto tempo dopo c’è stato il marito accusato del delitto che non aveva neppure commesso con le sue mani ma attraverso un ragazzino di 17 anni al quale avrebbe promesso soldi; si era scoperta – tardi – l’esistenza di un’amante giovanissima.

E all’inizio, quando ancora nulla era chiaro,  c’era un’intera comunità, quella di Gavoi, che si ribellava a tanta ferocia. <Prendeteci il dna, non siamo stati noi>. Così le cronache del processo hanno trovato grandi spazi sul  giornale: due pagine per ogni udienza, tutte le udienze. C’è stata dunque la possibilità di raccontare il dettaglio di tutto quello che accadeva. E quello che accadeva era uno spaccato di vita. La vita di un piccolo paese, dove tutti conoscono tutti e sanno tutto di tutti eppure nessuno, nessuno, sapeva nulla del delitto, nessuno aveva visto nulla, nessuno aveva sentito nulla.

E i lettori che seguivano la vicenda e leggendo le cronache delle testimonianze hanno constatato che l’omertà esiste. Resiste. Anche a Gavoi.  Proprio nel Comune di cui da anni si parla in mezzo mondo per via  di un festival della letteratura di risonanza internazionale, con premi Nobel, scrittori e intellettuali da tutto il globo. Un paese di Barbagia aperto al mondo: questa era l’immagine di quel piccolo e bellissimo luogo che si affaccia sul lago di Gusana. Un’immagine moderna che strideva, fortemente strideva, con le parole pronunciate davanti alla Corte d’assise di Nuoro dai vicini di casa di Dina Dore, che suonavano false perché ricostruivano una realtà impossibile: impossibile che nessuno avesse visto, che nessuno avesse sentito, che nessuno sapesse.

Il processo ha svelato quello che, invece, chi segue le cronache giudiziarie sa, perché lo vede, da sempre. Al processo di Gavoi non succedeva niente di diverso da quello che succede in tutti i  processi. Omertà. E mica solo in Barbagia. No. Un esempio? Dolianova, alle porte di Cagliari, il capoluogo della Sardegna, città: un delitto dalle modalità feroci, uno sparo in bocca alla vittima costretta in ginocchio. Eppure: tutti zitti, anche se in galera c’erano due innocenti, si badi bene. Zitti. Silenzio. Sotto accusa, ora c’è un pentito di n’drangheta. Omertà? Paura?

Un po’ di omertà e molto di paura forse, ed è qui che bisogna lavorare: non ci può essere mai giustizia senza l’aiuto di ognuno di noi. Se abbiamo un incidente in macchina, subito cerchiamo il testimone per compilare il documento che serve per il risarcimento dell’assicurazione, diamo per scontato che chi ha visto firmi.  E si firma, tutti lo facciamo, perché sappiamo di essere nel giusto, di fare i bravi cittadini, e sappiamo pure che nessuna conseguenza deriverà dal nostro comportamento.

Testimoniare nei processi penali è diverso, però, ed è diverso dal un lato perché non ci si fida, o ci si fida poco, dall’altro perché, una volta finito il processo e tornati casa, bisogna continuare a vivere nella comunità che sa quel che abbiamo detto e, soprattutto, sa che cosa comporteranno le nostre parole per le persone sotto accusa. E non tutti apprezzano.  Il problema è qui. A Cagliari come a Olbia come a Nuoro.  In città e in campagna, al mare e in montagna. Da sempre. Il problema è nella comunità (dove, per dirla con la professoressa Antonietta Mazzette, c’è però anche la soluzione).

Un esempio? Processo per  il sequestro di Silvia Melis, rapita in Ogliastra alla fine degli Anni 90 e tenuta segregata, tra gli altri posti, in una casa nel centro di Nuoro: due vicine della casa-prigione, madre e figlia studentessa, sono state chiamate in Tribunale a riferire se nel palazzo attiguo nel periodo del sequestro ci fossero lavori in corso (la circostanza era determinante per individuare il covo attraverso i rumori sentiti dall’ostaggio). Questa era la domanda, solo questa. Hanno risposto innanzitutto di non ricordare nulla e poi, la madre, ha aggiunto:  non sapevo che la mia testimonianza servisse in un processo di questo tipo.

Sì, perché quando erano state sentite durante le indagini non era stato loro spiegato, ovviamente, di che si trattasse, avranno pensato a una lite civile tra condomini, e avevano tranquillamente parlato del cantiere.

Al processo per sequestro di persona a scopo di estorsione invece… Persone di città, non di campagna. Che si saranno indignate per il rapimento di una donna davanti al figlio di otto anni, che avranno trepidato per lei nei nove mesi di prigionia, magari avranno pianto quando hanno saputo della liberazione. Però, quando si è trattato di dare il loro contributo: niente. Ecco perché il libro su Dina Dore. Per raccontare l’indignazione per la morte di una madre uccisa davanti alla sua bambina – che ha portato la comunità in piazza coi lumi accesi e sui giornali con dichiarazioni forti – che non si è, però, tradotta in atti concreti.

Tutto è finito lì. Silenzio, silenzio per cinque anni. E’ solo per la testardaggine della sorella dell’uccisa, Graziella Dore, se l’inchiesta ha finalmente imboccato la strada giusta. Dopo, questo sì, va detto forte e chiaro, altre persone si sono fatte coraggio: un ragazzo e il padre e altre due giovanissime hanno deciso non stare zitti, anche se molti anni dopo. Questi sono segnali di speranza. Ecco: le cronache di quel delitto, e di tutto quel che è seguito, raccontano meglio di tante parole la realtà.

Una realtà che non  è tipica dei centri rurali. In tutta Italia, da Milano a Palermo, ci sono uomini che ammazzano mogli, compagne, fidanzate ed ex:  non c’è differenza tra paesi dell’interno e centri urbanizzati. Solo che qui, se l’ultima sentenza della Cassazione confermerà i cinque verdetti finora pronunciati, c’è stato un uomo – che non è uno qualunque, è un medico, dentista, figlio di medici,  padre e  madre,  studio a Gavoi ma anche a Nuoro, figlio di politico con ambizioni politiche –  ebbene, questo signore, nel 2008, per depistare da sé i sospetti, dice che si tratta di un tentativo di sequestro.

Ributtando la Sardegna in un clima superato. Un medico, non un bandito di campagna, riporta un’intera regione nel clima tremendo provocato da un reato ormai d’altri tempi, quando invece si tratta di un omicidio dell’epoca contemporanea. E il ragazzo di 17 anni che uccide Dina Dore per soldi non ha niente di diverso dal ragazzino di Ferrara che accetta di ammazzare a colpi d’ascia poche settimane fa i genitori dell’amico per mille euro.

Sono ragazzi figli della stessa società, col telefonino in mano e internet tutto il giorno, non sono ragazzi di città e di campagna, figli l’uno di una regione depressa l’altro di una ricca: sono entrambi vittime (e questa parola non suoni come giustificazione dei delitti) della società dei consumi e del disfacimento dei valori complessivo. Anzi, forse il ragazzo di Gavoi ancora di più, perché accetta l’incarico di uccidere non da un coetaneo ma da un uomo adulto, ricco e potente, di cui certamente subisce il fascino.

In questo quadro, seppur rovesciato, si inserisce anche l’uccisione di Rosanna Fiori, nel 2001, a Villagrande, in Ogliastra. In campagna, sì, ma Rosanna Fiori era una donna di città. Elegante, benestante, sposata a un imprenditore ricco, nipote di Cossiga, frequentazioni in Costa Smeralda con la moglie di Berlusconi. Ammazzata con due fucilate sotto casa sua, all’alba. Nessuno  sa ancora da chi, a distanza di 16 anni. E anche qui, il processo ha raccontato una realtà che è sotto gli occhi di tutti: basterebbe stare attenti, saper guardare, avere la voglia e l’interesse di osservare.

Le donne in Sardegna non le ammazzano”: ne era convinta Rosanna Fiori, invece non era così, non é mai stato così e non è stato così neppure per lei. Ma questo delitto non è solo la storia di un omicidio. È la storia politico-economica di una regione. E’ la storia di un’azienda che fa capo ai figli di un ex assessore regionale  e che è sull’orlo del crac. Si cercano acquirenti. Il marito di Rosanna Fiori è un imprenditore ortofrutticolo che vorrebbe investire nell’Isola, la voce si sparge ed è a quel punto che gli propongono l’acquisto di un’azienda florovivaistica: non è il suo ramo ma dice di sì. I vertici della politica regionale sanno dell’affare, finanziato dal Banco di Sardegna.

Corrono soldi, moltissimi soldi,  ventotto miliardi di lire, nel 1992. Ma la Barbagia Flores è tutt’altro che un affare: l’azienda è antieconomica, è chiaro da subito. La politica presto si ritira, la banca pure, l’imprenditore non ammette l’errore di valutazione e comincia un inutile balletto di accuse. Il risultato è che Rosanna Fiori resta sola a Villagrande con l’anziana madre a tentare di mettere in sesto la baracca, tra attentati incendiari, fucilate contro macchine e finestre, cartelli minatori, minacce dirette, litigi furibondi, vertenze sindacali durissime, licenziamenti, tourbillon impressionante di direttori, lotte di potere interne. E fa alcune mosse decisamente sbagliate: senegalesi al lavoro durante lo sciopero dei dipendenti, denunce a dipendenti e sindacalisti basate su semplici sospetti, frequentazioni di persone borderline in cerca di protezione.

Anche qui: una donna di città con un’idea sbagliata delle nostre campagne, un’imprenditrice che crede all’esistenza di una sorta di mafia che costringe gli imprenditori a legare con la delinquenza per garantirsi vita serena. Lo dice a tutti e chissà da dove le deriva quella certezza. Fatto sta che segue le sue idee e finisce in un ginepraio che la porterà alla morte, in un groviglio che rende difficilissimo capire chi è stato e perché. Potrebbero essere stati tanti, per i motivi più diversi.

Comunque la si guardi, questa è la storia di un’imprenditrice prima corteggiata dalla politica, poi sovvenzionata dal sistema bancario, infine abbandonata al suo destino. Con tutto che si trattava di un’azienda importantissima per l’economia della zona, un gioiello di tecnologia, la migliore d‘Europa: ci sarebbe dovuto essere l’interesse di tutti affinché si continuasse  a lavorare e si lavorasse senza spari e minacce. La politica locale, i sindacati interni e territoriali, certo, ma anche i livelli più alti.

Quando Rosanna Fiori viene uccisa la tensione è alle stelle da molti mesi, i giornali si  sono occupati della Barbagia Flores a più riprese, eppure, osservandola ora, 16 anni dopo, sembra che nessuno si sia realmente impegnato per evitare il peggio. Col marito e i figli sotto protezione per via di un allarme sequestro, con al seguito la madre ultraottantenne dalle idee bislacche su come risolvere i problemi in azienda (avrebbe addirittura assoldato un killer per spaventare un direttore d’azienda secondo alcune testimonianze rimaste prive di riscontro) Rosanna Fiori ha gestito da sola una situazione difficilissima. Sbagliando, certo, ma sempre mossa dall’intenzione di salvare le serre. Un’azienda antieconomica, eppure all’inaugurazione celebrata con un’intera pagina dal Corriere dalla sera.

Com’è stato possibile? E com’è possibile che dopo la sua morte sia stato subito tutto dimenticato?  Sì, otto anni dopo c’è stata un’inchiesta, arresti, processi. E assoluzioni. Ma, al di là della vicenda umana di chi è finito sotto accusa, c’era davvero interesse per quello che era successo a Villanova? Questa è la prima domanda. La seconda: c ‘è stata omertà nella vicenda Barbagia Flores? Il fatto che i colpevoli non siano saltati fuori ci dice di sì: chi sa si guarda bene dal parlare. Anche se l’uccisa è una donna. Altro stigma, infranto.

In questa vicenda, in più,  c’è un fatto a dir poco sconcertante: Francesco Cossiga, il Presidente emerito della Repubblica, ex ministro dell’Interno, all’epoca senatore. Aveva tutti gli strumenti per conoscere attraverso i canali ufficiali il punto sulle indagini.

Invece, stando a due intercettazioni finite tra le carte processuali, parla con una donna di Orgosolo, buona amica anche di Rosanna Fiori, con frequentazioni (scrivono i carabinieri in un’informativa) nel mondo del banditismo, e tutto lascia sembrare che stia chiedendo conto di indagini non ufficiali. Cossiga. L’ex Capo dello Stato. Dov’è la differenza tra l’urbano e il rurale? Tra la città e la campagna? Tra l’altro, non sempre zone interne significa omertà. Basti guardare il caso dei delitti, sempre Anni 90,  sempre Ogliastra, per i quali è  stata condannata Maria Ausilia Piroddi, in veste di mandante: una storia di lotte di potere per il Comune di Barisardo e la Camera del lavoro Cgil di Tortolì. Tutto di può dire tranne che chi sapeva sia stato zitto. Anzi.

Il problema semmai qui è che si tratta di vicende di cui tanto si è parlato ma poco alla fine si è analizzato. Nel sindacato soprattutto, per capire come sia stata possibile l’ascesa di una persona che usava metodi criminali. Si è arrivati all’unica sentenza in Sardegna che usa la parola mafia, con i fatti di Barisardo, ma tutto è finito lì. Forse non si è scavato a fondo su un territorio dove negli stessi anni si sequestrava Silvia Melis, si rubavano khalasnikov alla base militare di Bellavista, si uccidevano intere famiglie di testimoni. Delitti insoluti da un parte, realtà insondate dall’altra. Di recente tornate alla ribalta con la cronaca degli assalti ai portavalori e l’arresto del vice sindaco di Villagrande.

Delitti legati alle società rurali? Non credo proprio (ma io parlo da cronista). E allora quando ci occupiamo delle zone interne forse dobbiamo cambiare lo sguardo, lasciare da parte gli stereotipi, leggere con attenzione le cronache di quel che succede, perché solo dopo aver capito si potrà  tentare di cambiare.

Nereide Rudas, la grande psichiatra che ci ha lasciato pochi giorni fa, in questo era bravissima: studiava la società partendo dai fatti (anche) criminali. Lo ha fatto col suo ultimo libro sul femminicidio, distruggendo uno stigma: in Sardegna le donne non si toccano (lo dicono anche per i bambini ma se andiamo a vedere quanti ne hanno rapiti smettiamo anche di pensarlo). Le donne sono morte per mano di mariti e compagni sin dal 1600, in Sardegna. Non ci sono zone franche. Per nessun tipo di reato.

La droga negli ovili? C‘è. Chiedete ai magistrati della Procura antimafia. Quando lo ha detto lo scrittore Roberto Saviano, anni fa gli sono, saltati tutti addosso. Ma era la verità, e l’ultimo arresto di Mesina lo ha svelato con chiarezza disarmante, lasciando cadere anche l’ultimo velo sul bandito romantico che invece trafficava in droga sin dai primi anni Novanta, quando c’era chi si batteva, con successo, per la sua grazia.

E c’è sempre meno differenza tra città e paesi dell’interno se  un consigliere regionale  chiede di essere insediato non appena mette piede fuori dal carcere dov’è stato rinchiuso con l’accusa di traffico di droga. E l’Assemblea non ritiene di dover aprire un dibattito sulla selezione della classe politica in un momento in cui è agli arresti anche il vice presidente del Consiglio regionale.

 

Lascia un commento