Non esistono culture pure [di Aurelio Andrighetto]

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Doppiozero 30 Gennaio 2017. Che cos’è l’archeologia? Che ruolo ha nell’immaginario dei cittadini europei e, in generale, nell’Europa contemporanea? A queste domande tenta di dare risposta la mostra “Archaeology&ME – Pensare l’archeologia nell’Europa contemporanea” allestita presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo (fino al 23 aprile 2017). L’esposizione è inserita nel Progetto NEARCH “New Scenarios for a community-involved Archeology – Nuovi scenari per un’archeologia partecipativa”, un network di cooperazione a livello europeo, ed è  articolata in due sezioni.

La prima, “Archeologia secondo me”, è un concorso per i cittadini europei che esplora i cambiamenti in atto  nel mondo dell’archeologia, coinvolgendo in modo interattivo il pubblico. La seconda, “Il passato nel presente”, esprime il punto di vista degli archeologi. Alle due sezioni si aggiunge “Archaeology&ME a Palazzo Massimo”, una sezione diffusa costituita dalla collezione permanente del Museo Nazionale Romano, che il curatore della mostra invita a ri-considerare attraverso i temi affrontati.

Nella seconda sezione l’archeologia è presentata anche come strumento per comprendere la varietà di interazioni e scambi che determina un’identità sociale e culturale. A questo riguardo possiamo ammirare in mostra una collana d’oro (fine del IV – metà del V secolo d.C.) con terminazioni cilindriche a protomi leonine. Il fermaglio include un chrismòn simbolo del Cristianesimo, che ebbe origine nella parte orientale dell’impero, affiancato dalle lettere apocalittiche alpha e omega.

La collana, rinvenuta in una tomba della basilica eretta a Roma da Papa Marco nel 336, testimonia una commistione tra simboli cristiani e  motivi decorativi pagani in un periodo di forte cristianizzazione di Roma, accompagnato da profonde trasformazioni urbanistiche e culturali. Il reperto suggerisce la necessità della negoziazione tra identità diverse nel contesto delle società in corso di trasformazione.

Nella stessa sala espositiva, una testa dell’imperatore romano Settimio Severo scolpita in marmo lunense (201-211 d.C.) è accostata alla testa di un giovane africano (prima metà del II secolo d.C.) per indicare il gusto dell’esotico che si è diffuso nella Roma multietnica dell’età adrianea e al tempo stesso per ricordarci che Settimio Severo è di origini africane, un “migrante” potremmo oggi dire per restare nello spirito delle domande poste dal curatore della mostra.

Ancora un altro esempio della permeabilità tra culture ed etnie diverse che sta alla base della nostra identità culturale è il caso di Enea, mitico fondatore di Roma fuggito dalla città di Troia in fiamme. Rappresentato da una terracotta policroma del I secolo d.C. con il padre Anchise sulle spalle e il figlio Ascanio per mano, ricorda alcune immagini dei profughi in fuga dalla Siria diffuse recentemente dai media. La terracotta è accostata a un pregevole affresco del I secolo d.C. che rappresenta Enea ferito mentre consola il figlio Ascanio.

L’archeologia dimostra quindi che non esistono culture “pure”, anche se a una presunta “purezza” si sono riferiti alcuni regimi appropriandosi del passato come strumento di legittimazione del potere, dalle epoche più antiche a quella contemporanea. La copia romana del Discobolo di Mirone, che Hitler acquistò dalla famiglia Lancellotti per la cifra di 5 milioni di Lire, rappresentava per il dittatore una classicità di maniera adattata all’ideologia razzista, un modello della razza superiore, alla quale s’ispirò la regista Leni Riefenstahl per la realizzazione del film Olympia nel 1938.

Non solo l’appropriazione indebita del passato ma anche la sua distruzione appartiene alla logica del potere. La statua dell’imperatore Domiziano rappresentato come Augusto (81-96 d.C.) conservata nel Braccio Nuovo dei Musei Vaticani era in realtà una statua di Nerone, il cui viso è stato rimodellato in seguito alla sua damnatio memoriae. La distruzione a Palmira del tempio di Baal e dell’Arco Trionfale rispondono alla stessa logica di cancellazione della memoria. L’archeologia ci permette quindi anche di smascherare le appropriazioni indebite del passato e la sua strumentalizzazione.

La seconda sezione della mostra esplora anche altri aspetti metodologici, professionali e sociali dell’archeologia nella società contemporanea, tra i quali quello della ricerca scientifica e dell’indagine finalizzata al contrasto del mercato illegale, e quello di scavo che interferisce con la mobilità cittadina e la crescita urbana, conducendo tuttavia a scoperte importanti per comprendere la città stessa.

Per concludere seguo l’indicazione del curatore della mostra e visito la collezione permanente del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, per riflettere a mia volta sul ruolo dell’archeologia nell’Europa contemporanea. Giunto alla sala che ospita alcuni resti delle due navi di Nemi, penso alla spiazzante idea di costruire due palazzi galleggianti sulle acque del lago.

Ispirati ad analoghi artifici ellenistici (come la colossale Syrakosia di Ierone II che non poteva entrare in alcun porto ad eccezione di quello d’Alessandria d’Egitto), i due palazzi galleggianti che l’imperatore Caligola fece costruire per sé con abbondanza di marmi, mosaici, portici, terme, sale da pranzo, vigneti e alberi da frutta sono qualcosa di incredibile, che per essere concepito ha richiesto la capacità di immaginare un grave edilizio che galleggia su una massa liquida instabile, di mettere in relazione cose che normalmente non lo sono perché estranee l’una rispetto all’altra.

Tra le sue stravaganti imprese, Caligola cavalcò anche su un ponte di barche riempite di terra in risposta a chi aveva osato affermare (facendo riferimento al fatto che un cavallo non può galoppare sulle acque) che sarebbe divenuto imperatore solo quando avesse cavalcato sul tratto di mare tra Baia e Pozzuoli. Anche in questo caso, Caligola, o chi per lui, ha dovuto immaginare e inventare la forma di un rapporto tra cose che normalmente non hanno tra loro alcuna relazione, sfidando l’impossibile.

E così, davanti alle teste bronzee di leone e a quelle di lupa digrignante che decoravano i fusi dei timoni e le testate delle travi delle navi, affascinato dalla potenza di queste immagini e dall’audacia delle due imprese, penso che il passato, inteso come capacità (anche in termini sociali) di costruire nuove relazioni sfidando l’impossibile, anziché essere dentro il presente potrebbe galleggiarvi sopra.

Potrebbe così attraversarlo, navigarlo, solcarlo lungo una rotta, se il presente è quello liquido di una società dove le relazioni sociali, dominate dal sospetto per ciò che è estraneo e dalla paura dell’altro, si decompongono e ricompongono rapidamente. Un passato che sta “sul” anziché “nel” presente, come il padre Anchise sta sulle spalle del figlio Enea mentre questi approda in terra straniera.

Alla mente si affaccia un’immagine piuttosto che un pensiero. La recensione alla mostra si chiude con un balzo dell’immaginazione, che trapassa nel ragionamento che segue.Un ruolo che l’archeologia ha nella società contemporanea insidiata dall’insicurezza e dalla paura di ciò che è estraneo, è ricordare che la cultura europea affonda le proprie radici nella capacità di accoglierlo e integrarlo, oltre che come elemento dissonante anche come elemento insidioso, quindi per nulla pacifico, che sposta, mette in moto, trasforma, imponendo la necessità di immaginare e inventare la forma di un rapporto, in alternativa alla logica della tolleranza e della mediazione che spesso non dà i risultati sperati perché fondata sulla ragione e non sull’immaginazione. Come insegna l’etnografia moderna, l’identità di un gruppo sociale non è definita una volta per tutte ma è un processo in divenire, discontinuo e inventivo.

Accogliere e integrare l’elemento estraneo…È una capacità che Friedrich Nietzsche aveva attribuito ai Greci: “ogni genere di sregolatezza e di esuberanza asiatica ha urtato il loro sguardo [ma] si posero di fronte all’inoculazione del nuovo, all’innesto dell’elemento estraneo, in modo tale che l’intera tribù non ne uscì danneggiata” (Il servizio Divino dei Greci). In questo studio Nietzsche indaga sulle origini del culto greco portando l’attenzione sullo “scontro tra esigenze diverse di culto” connesso alle trasformazioni politiche delle tribù e delle città, su una “lotta” che è ancora in corso in altre aree geopolitiche.

Nello stesso volume il filologo richiama il concetto di “pensiero impuro” che include tra i suoi aspetti anche l’analogia, come quella spericolata che ha dato corso alla visione del passato sospeso sul presente e alla riflessione che ne è seguita: un modo di pensare “impuro” che appartiene a una  Weltanschauung, a una concezione della vita e del mondo riferita al passato, ma che questo personale ed eterodosso “scavo” archeologico suggerisce poter essere riferita anche al presente, là dove è necessario confrontarsi con ciò che è estraneo e perciò discordante, incoerente, incongruo, contradditorio. Questa capacità d’immaginare e inventare la forma di un rapporto sfidando l’impossibile può essere intesa e declinata in vari modi, tra i quali ovviamente anche quelli suggeriti dalla mostra.

L’archeologia può dare così un contributo importante alla costruzione del progetto europeo, anzi dovremmo piuttosto dire alla sua ricostruzione, in questo momento di forti spinte secessionistiche e di richiami ideologici a presunte “purezze”.

 

 

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