Il futuro della pastorizia in una discussione di oltre sessanta anni fa [di Vincenzo Medde]

latte

A margine della discussione sulla grave crisi che attraversa la pastorizia in Sardegna, con il crollo del prezzo del latte da € 1,20 nel 2015 a 0,60 nel 2017, può essere forse utile, se non per trovare soluzioni, almeno per ricostruirne alcuni tratti permanenti, riferire i termini essenziali di una proposta rimasta sepolta in un convegno di oltre sessanta anni fa.

La Commissione per il “Concorso deliberato dalla Giunta regionale, il 19 gennaio 1963, per la concessione delle previste provvidenze a favore delle imprese produttive di nuovi tipi di formaggio pecorino” osservava che le ricorrenti crisi del settore caseario sardo erano da attribuirsi «prevalentemente, se non in modo determinante, al fatto che la massa del formaggio prodotto è rappresentata quasi esclusivamente da formaggio pecorino romano e con produzione in eccesso rispetto alla necessità dei mercati di consumo.”

Ma, già nel 1953 Gavino Alivia (secondo Giulio Sapelli «l’interprete più acuto della questione sarda tra la prima guerra mondiale e gli anni Cinquanta») registrava in Sardegna il fenomeno veramente singolare, che non aveva riscontro in nessun’altra regione italiana e quasi in nessun altro paese, di una forte contrazione dell’allevamento bovino, contemporanea ad un forte incremento di quello ovino. Nel 1950, infatti, si allevavano 2.576.000 capi ovini e 211.000 bovini, in controtendenza, dal 1881, rispetto all’Italia o a regioni come l’Abruzzo e la Toscana, dove erano aumentati i bovini e diminuiti gli ovini.

Spiegava Alivia che le cause dell’involuzione del gregge vaccino in Sardegna, contemporanea ad un eccezionale sviluppo di quello ovino, stavano nella industrializzazione del latte ovino – avvenuta dopo il 1900 con la fabbricazione del pecorino romano – e nella mancata industrializzazione dei prodotti dell’allevamento bovino, che aveva fatto invece grandi progressi nelle regioni continentali e nell’Isola solo ad Arborea.

A questa causa di origine esterna si doveva inoltre aggiungere anche il fatto che l’allevamento bovino, il «ramo di gran lunga il più importante dell’allevamento», non aveva ricevuto e non riceveva alcun serio incentivo da parte dei poteri pubblici e del governo regionale.

Occorreva invece, secondo l’economista sassarese, andare in direzione esattamente contraria: aumentare i bovini e diminuire gli ovini secondo un piano decennale di sviluppo delle aziende zootecniche di lavorazione del latte, delle carni, delle pelli dei bovini, le cui possibili progressioni erano riassunte nella seguente tabella.

All’inizio del decennio
Dopo un decennio
Bestiame bovino
220.000 capi 400.000 capi
Bovini macellati annualmente
40.000 capi 110.000 capi
Latte consumato
150.000 hl 300.000 hl
Latte trasformato in formaggi e altri prodotti
200.000 hl 1.800.000 hl
Pelli
25.000 110.000

Il piano implicava una riduzione di 400.000 pecore, di 320.000 Hl. di latte, di 400.000 agnelli e una diminuzione del reddito relativo pari a 3 miliardi. Dopo un decennio, però, secondo Alivia tali dati di contrazione sarebbe stati ampiamente compensati da un aumento degli addetti in agricoltura e nella zootecnia pari a 50.000 unità (più altre 30.000 di popolazione non agricola che sarebbe cresciuta con quella agricola) e da una crescita del reddito aggirantesi attorno ai 20 miliardi.

Alivia inseriva queste ipotesi di sviluppo dell’allevamento in un discorso più ampio sull’industrializzazione della Sardegna interessante tutti i comparti economici, fondata sulla costruzione di una solida rete di imprese agro-alimentari, capaci di valorizzare le risorse locali e di integrarsi compiutamente nel mercato mondiale.

Le proposte di Gavino Alivia – «una possibilerottura morbidatra antico e nuovo regime nel secondo dopoguerra» – sarebbero state presto dimenticate perché giudicate obsolete a fronte di altre ipotesi di sviluppo centrate sui poli industriali sorretti dalla mano pubblica regionale e nazionale e sul potere di traino della grande industria, paradossalmente accompagnate dall’accettazione della centralità, certo culturale ma anche economica, delle zone interne e della pastorizia.

Di qui anche la l’immutata consistenza degli ovini e le ricorrenti crisi di sovrapproduzione insieme con il mancato sviluppo nell’Isola di attività economiche a forte intensità di occupazione e capaci di stare in modo autonomo e non assistito sui mercati nazionali e internazionali.

Così, di nuovo, nel 2017 il crollo del prezzo del latte mette in crisi l’intero comparto pastorale, con le associazioni di categoria, allevatori e trasformatori, schierate su fronti opposti nella ricerca delle responsabilità, mentre la Giunta regionale annuncia un finanziamento di quattro milioni per abbattere le pecore di quattro anni che producono troppo latte e la Confindustria propone il ritiro immediato di 50mila quintali del pecorino romano invenduto, perché solo con il ritiro di parte dello stoccato sarà possibile rimettere in sesto un mercato oramai fuori equilibrio (Si veda «La Nuova Sardegna» del 27.1.2017). E questo oltre sessanta anni dopo le analisi e le proposte di Gavino Alivia e oltre cinquanta anni dopo l’avvertimento pubblico e autorevole circa i rischi di una «produzione in eccesso rispetto alla necessità dei mercati di consumo».

Le analisi e le proposte di Alivia qui riassunte sono in Gavino Alivia, L’industrializzazione della Sardegna. Sue condizioni e ripercussioni nella economia italiana, in Associazione Nazionale Ingegneri e Architetti, Atti del Convegno di studi per l’industrializzazione della Sardegna 10-14 aprile 1953, pp. 95-117.

Questo testo è la parte conclusiva di un articolo più ampio pubblicato sul sito www.iconur.it con il titolo La pastorizia in Sardegna negli anni Cinquanta. Realtà e rappresentazione.

 

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