Una grave crisi di rappresentanza, anche del Pd [di Fabrizio Barca]

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La crisi internazionale e lo stallo grave dell’Europa hanno investito da noi una società fiaccata e hanno avuto effetti più gravi che altrove. L’Italia mostra forte creatività, disponibilità al rischio imprenditoriale, manifestazioni diffuse di solidarietà e d’impegno in forme associative nuove e in grado di coinvolgere i giovani, esperimenti originali e avanzati di cooperazione intergenerazionale e di combinazione di privato, pubblico e comune. Ma l’arcaicità e lontananza dello Stato, il deficit di concorrenza e il rapporto improprio di fratellanza che si è istituito fra Stato e partiti – divenuti e percepiti come strumento di auto-promozione sociale al di fuori di logiche di merito – frenano i cittadini dal tradurre l’impegno personale in impegno politico generale”  e danno l’alibi per diffusi comportamenti opportunisti o devianti dalla legalità (“se male si comportano “loro”, posso comportarmi male anche io”).

La funzione culturale e sociale di coagulo è certamente estranea, in Italia, alle formazioni politiche – Forza Italia, Movimento 5 Stelle, Scelta Civica – nate e narrate come “rappresentanze dirette della società civile”: l’“uomo solo al comando” in cui inevitabilmente esse si trasformano può produrre al massimo – è già qualcosa – un momentaneo stato di eccitazione, ma non una visione, né tecniche e soluzioni. Questa funzione è stata peraltro sino a oggi estranea anche al Partito Democratico che pure è qualificabile come “partito” e che per tale ragione, nonostante il suo terribile anno, è stato visto da tre milioni di elettori come agente possibile di cambiamento. E’ un partito per via del confronto interno e di alcune regole statutarie che ne garantiscono il pluralismo, dell’accesa concorrenza per la selezione della dirigenza (che pure ha comportato e comporta gravi patologie), dell’articolazione territoriale che ha ereditato dalla sua storia, del suo essere ancora comunità.

Ma nonostante siano passati sei anni dalla nascita, il Pd non ha ancora preso forma. Il Pd non ha curato in questi anni – anzi ha accuratamente messo al cantone – i valori di sinistra,  liberal-azionista, social-comunista e cristiano-sociale, sulla cui convergenza era nato. Non ha sviluppato una lettura della società e quindi una visione dell’Italia futura, fuori dal pantano. Non impiega metodi moderni di mobilitazione dei saperi e di comunicazione in Rete fra i propri  associati, nonostante i tentativi compiuti al suo interno. Asseconda e talora coltiva comportamenti opportunistici, per cui l’appartenenza al partito è strumento per saltare il vaglio del merito, anche  nell’accesso alla guida di enti pubblici.

Ha esasperato una coincidenza fra le carriere di chi opera nel partito e chi esercita funzioni politico-amministrative. Ha rimosso la categoria del conflitto, come se il cambiamento possa mai avvenire senza avversari, e senza un confronto duro e appassionato di merito all’interno delle proprie stesse fila. A differenza dei partiti delle altre democrazie, ha lasciato che si avvilisse – in ruoli di “tecnico” o di “opinionista” – il rapporto con gli esperti e gli intellettuali (specialisti con impegno politico), anche se forti sono le responsabilità di questi ultimi. Non ha saputo cercare, com’era avvenuto in passato, un dialogo con gli altri partiti di sinistra dell’Unione Europea – responsabili peraltro anche essi – per rendere esplicita l’insostenibilità dell’attuale situazione e promuoverne l’uscita “in avanti” – più integrazione politica – prima che il pop-nazionalismo nostrano gridi nell’imminente campagna elettorale europea la sua uscita “all’indietro” – basta con l’euro.

Il Pd non si è posto la questione di quali pezzi della società voglia e possa rappresentare e per quale causa. In particolare, nella crisi, il Pd ha mancato l’appuntamento con chi subisce la crisi  economica, che si tratti dei giovani – precari o disoccupati – o degli occupati che vivono una perdita  del proprio potere d’acquisto. Ciò ha aperto un buco nella rappresentanza della società. E’ questo è  grave soprattutto per un partito di sinistra. Pensiamo ai giovani votanti tra i 18 e i 24 anni, che nelle  elezioni del 2013 hanno preferito il Movimento 5 Stelle nel 44,6% dei casi (solo il 16,6% di loro ha  scelto il Pd). Il Pd ha ottenuto meno voti del Pdl tra i disoccupati in cerca di prima occupazione e meno voti del M5S e del Pdl tra gli operai (rispettivamente 29,2%, 28,6% e 21,5%).

Mentre sarebbe stato nella “natura delle cose e nel più schietto solco della tradizione socialista e del solidarismo cattolico del PD” fare proprio il tema dell’insicurezza economica, dello spavento  per la crisi (come è riuscito, almeno durante la campagna elettorale, al Partito democratico  americano e ai socialisti francesi). Dal 2008 il Partito Democratico ha sì utilizzato il termine “lavoro” con più continuità, al fine di modificare il proprio posizionamento politico, ma la realtà della crisi ha soverchiato questa strategia appena abbozzata.

I voti degli elettori “economicamente insicuri”, come abbiamo visto, non sono fluiti verso il PD, né il partito è mai apparso in grado di costruire un’alleanza e una strategia di rappresentanza con parti riconoscibili di società, cercando piuttosto di amministrare l’eredità politico/cultuale del passato (considerata sufficiente a vincere le elezioni).  Oltre al deludente esito elettorale del PD, il risultato di tale incapacità di interpretare l’insicurezza sociale da parte delle forze di sinistra è consistito nell’aggravarsi di forme di esclusione ed esasperazione che costituiscono un ambito molto disponibile per tipi di mobilitazione ribellistica e regressiva.

Pensare di uscire dalla crisi del sistema politico italiano puntando esclusivamente sulla governabilità rischia di inaridire gli ambiti della rappresentanza, nel senso che nessuno (in primis i partiti) se ne fa più carico; soprattutto per quanto concerne gli strati più disagiati della società. La ragione ultima di tutto ciò, oltre che nel desiderio e nella convinzione di una parte del gruppo dirigente del Pd – in questo uguale alla maggioranza degli altri gruppi dirigenti del paese – di riuscire così a preservare il proprio potere (economico e politico), sta in una valutazione che domina da venti anni, anche nel Pd: i mali del paese andrebbero curati rafforzando stabilità e potere – è chiamata impropriamente “governabilità” – del Governo.

Il ruolo del partito non sarebbe affatto quello di coagulo di sentimenti e conoscenze, bensì di comitato elettorale per vincere le elezioni. L’insuccesso nel vincere o nel tradurre la vittoria in buon governo è stata interpretata – esattamente come ha fatto la destra – con l’assenza di regole che garantiscano  adeguata stabilità e poteri. Nascondendosi che quell’insuccesso era invece dovuto a deficit di visione, di partecipazione, di conoscenza, di soluzioni, e di quadri capaci di tradurre tutto ciò in azione. Queste sono le cause vere dell’incapacità di dare all’Italia un buon governo – ed è questa la vera “ingovernabilità”.

*Da“Per un partitoo che sappia governare – Strumenti di lavoro, persone e relazioni, visione e metodo”

 

 

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