Come sta l’Italia? [di Carlo Arthemalle]
Come sta l’Italia? I dati che riguardano l’economia non lasciano spazio: paese invecchiato, mortalità superiore alla natalità, apparato produttivo incapace di creare valori sufficienti a pagare i debiti accumulati, ad assicurare i livelli di benessere ai cittadini e a finanziare uno stato sociale per una platea sempre più larga di soggetti. Si continua a ripetere che siamo la seconda nazione manifatturiera d’Europa e non si capisce se lo facciano per ignoranza o per patriottismo. I dati ci segnalano che il nostro è un paese diverso da quello che settanta anni fa ha dato vita al miracolo economico e che ha vinto l’oscar per la stabilità della lira. Per interi comparti economici, non solo nel tessile, siamo passati da esportatori a importatori e il gioiello organizzativo che ci aveva portato a primeggiare – quello dei distretti industriali – denuncia segni di cedimento. I marchi più prestigiosi, nel settore del lusso e dell’agro industria, sono passati in mano straniera. Stessa cosa per gli acciai speciali e per il trasporto aereo. Il nord est mostra capannoni vuoti come nel resto del paese e gli imprenditori, nel loro complesso, sembrano aver perso la spinta propulsiva. Per allontanarci da uno sviluppo dello “zero virgola” occorre dotarsi di un nuovo modello di sviluppo; mettersi d’accordo sui settori in cui investire e sulla fonte dalla quale attingere le risorse necessarie; scovare gli evasori; tagliare gli sprechi; abbattere il sistema di illegalità diffusa. Il sistema di cui parliamo è il mostro che ogni anno, tra sussidi, prebende, intoppi si mangia molti punti del PIL. I costi di questo fenomeno sono forse superiori a quelli della malavita organizzata e rappresentano un onere che non si è più in grado di sopportare. Una macchina infernale costruita nei decenni nei quali il ricambio nel paese era vietato dalla NATO. Anni in cui il clientelismo e la corruzione si sono rivelati gli strumenti più efficaci per conservare al potere i partiti che godevano della fiducia degli americani. Nel sistema si sono trovati coinvolti milioni di cittadini: imprenditori e giovani che cercaano lavoro, lavoratori imboscati nei permessi sindacali, dipendenti che abusano della legge 104 o impiegati che non firmano il cartellino grazie al caposervizio che chiude un occhio. I privilegi, in Italia, sono stati protetti da un’opinione pubblica che è maggioranza ed è composta da individui appartenenti a tutte le classi sociali, una maggioranza variegata e con privilegi che rappresentano quanto di più eterogeneo. C’è la massa con una pensione di invalidità senza averne il diritto, l’esercito di baby pensionati; vitalizi, e liquidazioni da favola, l’impiegato della pubblica amministrazione che fa il suo comodo, il giornalista che predica uguaglianza ma continua ad usufruire del diritto di andare in pensione a cinquantacinque anni. Gli esempi potrebbero continuare. All’interno di questo universo i privilegi sono garantiti in modo diseguale. I diritti degli ultimi possono essere sforbiciati di tanto in tanto mentre quelli della casta superiore, come insegna il presidente della Corte Costituzionale, sono protetti dalla formula magica del diritto acquisito. Ma, nonostante le differenze tra categorie, il popolo degli interessati a vario titolo, quando si sente minacciato, si mobilita come un sol uomo e affossa chi propone di cambiare qualcosa. Chi ha ormai molti anni non può non ricordare la levata di scudi che investì Enrico Berlinguer reo di aver parlato di austerità, con la destra che lo attaccava sui media e la sinistra extra parlamentare che lo sbeffeggiava nei cortei. E’ successo anche con l’ultimo referendum. L’incauto politico che lo ha promosso ha perso la scommessa perché è “antipatico”, perché non capisce niente di diritto costituzionale ma anche perché, proponendo un intero pacchetto di riforme, è riuscito a compattare tutti quelli che avevano privilegi da difendere. Qualcuno ha scritto che il risultato del referendum ha fatto tramontare la speranza che si possa metter mano a riorganizzare l’Italia con le forze democratiche e riformiste. Forse la maggioranza dei cittadini non ha preso coscienza del momento che stiamo attraversando e in troppi pensano che a far tornare i bei tempi provvederà il fatidico stellone. Accettare l’idea che così non sarà e che il problema attuale è quello di evitare il baratro della decadenza sono medicine amare da ingoiare. Ma le medicine amare si dovranno ingoiare per forza se si vuole evitare che l’Italia precipiti nel cono d’ombra di un declino che potrebbe durare anche qualche secolo. Tra gli scenari possibili, nei prossimi mesi, non è escluso l’avvicendamento politico alla guida del paese. In questo caso, a mettere ordine nel libro mastro dell’ Italia non sarà uno come Pier Carlo Padoan ma uno alla Tremonti o, addirittura, un funzionario dell’UE. Se accadesse scordiamoci competenza e giustizia nel rimettere in pari entrate e uscite e nello smantellamento di abusi e di privilegi che ci hanno portato alla rovina. I nuovi venuti si guarderebbero bene dal mettere la mano ai “diritti acquisiti” della casta e sistemerebbero la contabilità semplicemente smantellando lo stato sociale, attaccando il sistema pensionistico e la sanità. Proprio in queste settimane Trump ci ha ricordato di che pasta è fatta certa destra e che gli uomini del suo stampo sono gli unici a credere ancora alla lotta di classe e ad esercitarla con impegno.
|
Che cattiva digestione del risultato del referendum! Eppure il Pci, da cui Arthemalle proviene, insegnava a evitare di dire (e possibilmente di pensare) che le colpe dei risultati elettorali erano del popolo.
In questo caso, poi… C’e almeno altrettanto privilegio, corporazioni, familismo amorale, ci sono élite protette, categorie privilegiate, apparati di potere monopolistico nel 40 per cento di elettori che hanno votato Sì che nel 60% dei No.
Il Renzi delle riforme che Arthemalle accosta al Berlinguer dell’austerità, sembra una ruffianeria ma è molto mal riuscita, non si poteva trovare peggior accostamento:
uno non aveva il televisore a colori in casa mentre parlava di austerità, e faceva comizi ai picchetti davanti a Mirafiori; l’altro, Renzi, sta con Marchionne sino alla provocazione antisindacale, fa il verso al consumismo peggiore, posa con i chef a molte stelle di ristoranti impossibili al buon Arthemalle e a me pure buoni pensionati del sindacato Cgil e dell’istituto dei giornalisti.
Le riforme delle quali Renzi ha riempito le tv e i giornali, erano fatte di parole: e ora tocca a Gentiloni e a Padoan provare a rimediare, trovando qualche miliardo per mettere una pezza ai tanti che sono stati gettati in bonus, in misure mirate a categorie da conquistare al Sì al referendum, anziché in interventi strutturali per aggredire il debito, che è continuato a crescere. Come la disoccupazione giovanile, del resto, mentre sono calate produttività, tassi di innovazione, livelli di istruzione, finanziamenti alla ricerca.
L’Italia è oggi messa peggio di prima del governo Renzi nel raffronto con gli altri Paesi europei, non risulta ad Arthemalle? Mentre quel presidente del Consiglio raccontava altro, che tutto andava bene, che era stata finalmente imboccata la strada giusta.
Se vincerà la destra peggiore, o quel che viene chiamato il populismo in Italia alle prossime elezioni, sarà perché Renzi ha aperto loro autostrade, provando a scimmiottare gli uni e gli altri, a fare il populista più di Grillo, l’anti-europeo quanto Salvini.
Se Tremonti sarà ministro, del resto, lo sarà più probabilmente di un governo Renzi-Berlusconi, a stare alla confusa politica di questi giorni più del primo che del secondo, che sembra avere le idee più chiare.
Arthemalle avrebbe strumenti per averle chiare lui, più di Renzi, da come lo conosco. Ma non ce la si fa con i miti, vecchi o nuovi. Forse aveva torto anche Berlinguer in quegli anni, non è possibile? Provi a leggere ogni tanto il blog dell’ultranovatenne Emanuele Macaluso
Figurarsi Renzi, elevato a statista riformatore ormai però da sempre meno persone (e quasi più nessun commentatore, da Folli a Franco), mentre gioca purtroppo anche in questi giorni con cose più grandi di lui e di noi.
Ho letto sia quanto scrive Carlo Arthemalle che quanto scrive Umberto Cocco. Quella di Arthemalle mi pare una visione piuttosto catastrofista, scoraggiata e scoraggiante. Un po’ tipo après moi, le déluge, dovuto forse, al risultato del referendum, per lui che si è schierato dalla parte delle sedicenti riforme renziane. In esse, io non ho ritrovato nessuno spirito riformatore, ma nemmeno semplicemente riformista. Le sedicenti riforme istituzionali erano piuttosto pasticciate e largamente inadeguate rispetto alle problematiche cui si proponevano di dare soluzione.
Se si volevano diminuire i costi della politica, come, anche, populisticamente, da parte del governo, è stato detto, forse bastava abolire, semplicemente, il Senato, ridurre il numero dei deputati ad una più ragionevole cifra tra i trecento e i quattrocento e ridurre i loro emolumenti a un compenso fisso mensile intorno ai tremila euro più rimborsi spesa rigorosamente documentati.
Ma anche altre cosiddette riforme, come quella della scuola, sono da valutare alla stessa maniera. I cambiamenti sono troppo pochi e marginali. Non si tratta di cambiamenti strutturali. Il governo Renzi, purtroppo, non si è proposto di cambiare davvero l’Italia ma solo, nella migliore delle ipotesi, di gestirla un po’ meno peggio. Ma così facendo le problematiche di fondo vengono, più o meno ciclicamente, a ripresentarsi.
Se la scuola la si vuole davvero cambiare (diamo per scontato, in meglio), bisogna agire a fondo e in maniera strutturale. La parte che ha più bisogno di essere modificata, è la scuola media, sia di primo che di secondo grado. Innanzitutto, bisogna diminuire di un anno la durata degli studi pre-universitari. Sia in Francia che nel Regno Unito è già così. Gli studenti italiani arrivano al diploma e quindi all’università e/o al lavoro, quale che sia l’età in cui vi arrivano, un anno dopo rispetto ai loro compagni d’oltralpe. Non serve a niente, inoltre, aumentare l’età dell’obbligo scolastico se si tratta di un prolungamento puro e semplice.
Una ipotesi potrebbe essere quella di fare come in Francia, che è forse la nazione europea che più ci somiglia. Una scuola media di quattro anni, lì la chiamano collège, e una scuola superiore di tre anni che lì chiamano tutte lycée (littéraire, technique e professionnel). Lo scopo principale della scuola media sarebbe quello dell’orientamento; lo scopo principale della scuola superiore sarebbe non solo quello di poter accedere agli studi universitari, ma soprattutto quello di acquisire una preparazione professionale spendibile subito. L’obbligo scolastico potrebbe essere fissato alla fine della scuola media oppure alla fine della scuola superiore. Alla fine comunque di un ciclo di studi. Non come adesso al compimento del sedicesimo anno di età.
Anche l’organizzazione didattica andrebbe profondamente cambiata. Ciascun insegnante dovrebbe avere la sua aula-laboratorio con tutto l’hardware e il software necessari e sarebbero gli alunni a recarsi quando in orario a seguire tali attività. Anche il curricolo di ciascun alunno dovrebbe diventare più flessibile. Dovrebbe essere costituito da un nucleo centrale di materie obbligatorie (tipo italiano, matematica, …), delle materie opzionali (tra le quali ciascun alunno possa optare appunto per l’una piuttosto che per l’altra, per esempio, per le lingue straniere, o francese, o tedesco, o spagnolo, …) e anche delle materie facoltative, sulla base dell’offerta formativa di ciascuna singola scuola, sul modello di com’è adesso l’insegnamento della religione cattolica: si può scegliere di usufruirne oppure no.
Tale schema potrebbe essere applicato anche per la scuola superiore.
Se l’Italia la vogliamo cambiare davvero, dobbiamo partire quindi dalle problematiche strutturali, non dai dettagli. Arthemalle dice: un nuovo modello di sviluppo. Ma non basta. Ci vuole anche un nuovo modello di società. Un nuovo modello di convivenza civile. E per fare questo la scuola deve assumere un ruolo centrale. Non basta modificare alcuni dettagli, mettere qualche soldo qua e là. In modo piuttosto pasticciato, anche questo. Basti pensare ai cinquecento euro per gli insegnanti. Ci vuole un progetto complessivo di cambiamento. E per questo io penso, nonostante tutto, al Partito Democratico, se vuole ancora adempiere alla funzione per cui è nato.
Il problema di quanto succede in Italia ormai da troppi anni lo porterei un gradino più in alto, richiamando la figura del parlamentare e del ministro a quello che è il suo dovere istituzionale : servire e fare il bene della nazione. Questo oggi avviene molto poco e se qualcuno intende combattere per farlo ha di che pentirsene. Oggi tutte le energie sono spese per abbattere gli avversari, il paese può aspettare. Come non constatare che Renzi, chiamato a cooptare per fallimento dei suoi predecessori, ha provato ad impostare le riforme che tutti auspicano e dicono di voler fare, ma poi tutti gli hanno sbarrato la strada, primi fra tutti i compagni di partito. Renzi ha certamente i suoi difetti ma il PD aveva una grande opportunità di rilancio di se stesso e anche del paese e invece ha prevalso la rivalsa personale, la vendetta, le gelosia. Oggi è toccato a Renzi, ieri a Prodi, Berlusconi, Letta. Una classe dirigente che voleva il bene del paese avrebbe chiuso Renzi in una stanza e non sarebbero usciti sino a trovare la quadra, per il bene del paese. Trovare uno o mille appigli per non voler collaborare è uno sport diffusissimo e a buon mercato, il vero problema era quello di abbattere il capo di turno. Allora il problema non è il merito delle cose che si fanno o non si fanno, su quello se si vuole si arriva a soluzione, il problema è che la nostra classe politica ha come obbiettivo principale scalzare dal potere chi in questo momento lo detiene e dopo si vedrà. Siamo italiani e campiamo molto di privilegi e di inganni, ammettiamolo. Se avessimo una vera stampa libera che sferzasse TUTTA la classe politica, in parlamento avremmo meno furbi, meno blogger e comici e più legislatori seri. A noi stare attenti a non assecondare troppo il guastatore di turno, noi siamo controparte di tutti.