Racconto di Natale [di Giampaolo Cassitta]

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“La pace sia con voi”, così concluse, aspettando con consumata fede “e con il tuo spirito” della folla all’interno della sua parrocchia. Lo spirito accolse con soddisfazione le ultime parole e, insieme alla carne, salutò l’altare con dovuta genuflessione al centro – davanti al crocifisso – e scomparve verso la sacrestia. Sulla panca disadorna, appoggiata ad un tavolo che era apprezzabile per la sua inquietante nudità, vi era un ragazzino dall’apparente età di dieci anni che, probabilmente, aspettava il parroco o era riuscito ad infilarsi in sacrestia subito dopo la benedizione e gli auguri rituali. Quelli di Natale. Don Isidoro osservò il bambino e il bambino regalò uno sguardo dolce, presente, forte. I loro occhi si incontrarono. Ci furono istanti senza pensieri. Solo sguardi.

Il prete, con un certo imbarazzo, cominciò a spogliarsi della veste talare usata per la messa ma non disse niente. Il bambino, senza mai distogliere lo sguardo da ciò che Don Isidoro faceva, non parlò. Nessuno produceva parole. Poi ci fu un rumore. Quasi impercettibile. Che sembrava quasi il lamento dell’anima di qualcuno. Era la voce che usciva, parole che lentamente riempivano gli spazi. “Che cosa è il Natale?” Così chiese il bambino abbassando gli occhi e controllandosi le sue scarpette sporche che soltanto adesso il prete notava. Parole apparentemente senza senso e che sembravano fin troppo scontate. Ma Don Isidoro guardò le scarpe e osservò meglio il bambino.

Aveva pantaloni corti, calzini srotolati e gambe piccole, fredde, quasi inconsistenti. Una maglietta verde senza scritte. Sporca, ma dignitosa. E non aveva sguardo. Solo occhi. Il bambino aggiunse: “Tu, che fai nascere un bambino nel freddo di una stalla, tu che sei felice di tutto questo, lo sai quanto freddo c’è dentro una stanza senza riscaldamento, senza una bicicletta colorata, senza un cuore che ti scalda? Tu e tutti gli altri uomini chiamate tutto questo natale, mio padre, invece, lo chiama miseria e io vorrei una casa come tutti gli altri.” Questo disse il bambino. Senza particolare accento e senza apparente rabbia. Solo una lastra di pietà riusciva a scalfire quel silenzio ammantato dopo il piccolo racconto. “Natale è una festa”, disse Don Isidoro “serve agli uomini per dimostrare la loro falsa e apparente bontà.

Ci sono uomini forti, potenti, ma vengono una volta all’anno davanti all’altare e sono convinti di essere felici, a posto con qualsiasi tipo di coscienza; poi rientrano velocemente a casa a consegnare i regali per i loro figli o nipoti o mogli o amanti dimenticandosi la nudità del Natale, quella festa piccola e dolce, fatta di poche cose ma di molta e genuina allegria”. “Voi ogni anno costruite questa strana festa per celebrare la povertà?” Così rispose il bambino. “Beh, è una tradizione”, disse Don Isidoro. “Per esempio,” chiese Don Isidoro al bambino con gli occhi enormi, “Natale è un momento forte e può servire per esprimere un desiderio. Tu, cosa vorresti per un giorno del genere? Magari posso accontentarti”. “E’ difficile tu possa farlo” rispose il bambino, “ma provo a fidarmi delle tue promesse.

Vorrei che tutti avessero un televisore rotto e un vocabolario”. “Che significa? Non posso regalare a tutto il mondo un televisore e per giunta rotto. E che c’entra poi, il vocabolario?” chiese il prete sempre più incuriosito delle parole del bambino. “Prova ad immaginare se, per un attimo, tutti dovessero avere, a casa, un televisore rotto, non funzionante. Sarebbero costretti a rivolgersi la parola e siccome da molto non lo fanno più non troverebbero le parole. Sarebbe necessario un vocabolario per ricominciare.” “Sei uno strano bambino”, disse il prete rimettendo nell’armadio il paramento liturgico.

Non ottenne risposta e lentamente si voltò. Il bambino non c’era più. Andato. Sparito. Si precipitò a cercarlo all’interno della chiesa. Niente. Uscì per le strade. Niente. Tornò in sacrestia. Si sedette. Decise di ritornare a casa. Guardò il televisore spento. Lo guardò con un piccolo sorriso. Ritenne che, quel giorno, il televisore si era guastato. Natale senza parole usate e logorate da tutto e da tutti. Senza falsi auguri, sorrisi, panettoni, trenini musicali, attenzione al pranzo, applausi per tutti i cantanti. E prese un libro. Il vocabolario. Aprì a caso. Lettera O, quasi al centro. E cerco la parola che più segnava questa giornata e l’incontro con il bambino. Opportunità. E decise di continuare a leggere. Per riscoprire il vero significato delle parole.

Il bambino, nel freddo della sua stalla, impalpabilmente sorrideva. Opportunità pensava. E’ una bellissima parola. Aiuta a crescere ma bisogna saperla cogliere in tempo.

One Comment

  1. Bello. Vorrei averlo scritto io. Grazie!

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