Profezia e utopia in Occidente [di Laura Tundo Ferente]

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MicroMega 14 febbraio 2017.  Il recente libro di Massimo Cacciari e Paolo Prodi, “Occidente senza utopie” (Il Mulino, Bologna 2016) ci consente di ragionare sul rapporto fra profezia e utopia come categorie fondative della storia occidentale. A 500 anni dalla pubblicazione di Utopia, il libello che ha dato all’Occidente la parola, il concetto e il paradigma per leggere con efficacia critica il presente e prefigurare-progettare il futuro della società e della politica con il metro del giusto, Paolo Prodi e Massimo Cacciari riflettono su profezia e utopia.

Nei due densi saggi brevi ciascuno di loro entra in una di queste due parole la cui storia rispecchia la storia dell’Occidente, rispecchia percorsi di significato, evoluzione del costume, costruzioni politiche. Profezia e Utopia sono in realtà sfere di senso molto “spesse” non facili da maneggiare, talvolta distorte e banalizzate nel dire corrente, alle quali i due autori restituiscono il loro proprio spessore ermeneutico. Entrambi partono da lontano e abilmente tessono fili comuni, due trame che si intrecciano nel tessuto dell’utopia di cui, infine, constatano  l’assenza, almeno in Occidente.

L’Antico Testamento, più volte citato, è costellato di parola profetica, e fin da quando la profezia è comparsa nel mondo ebraico lo ha scosso portandovi «la contestazione del potere politico e sacerdotale dominante» per bocca di qualcuno che gli è esterno e ne condanna l’ingiustizia, le forme dell’arbitrio, i soprusi. Facendosi portavoce di Dio, parola Sua, il profeta agita infatti parole di giustizia per conto del Dio dell’Alleanza col popolo ebraico, che è anche «garante della giustizia nella sfera sociale e politica» (p.13).

L’interesse dello storico si concentra sul singolare carattere morale e sul ruolo di richiamo che la parola e la cultura profetica ebraica svolgono in quel mondo: ancor prima della prima forma di democrazia, esse si levano già contro il potere e il suo dominio ingiusto, contro i suoi abusi, contrastandone il corso attraverso la comparazione con la giustizia divina. Una lettura di cui Prodi rimarca il rilievo che all’interno degli studi sulle radici della democrazia rappresenta un loro adeguato esame critico.

L’originario carattere della profezia travalica poi la cultura ebraica vetero testamentaria; permane e si svela in altri tempi e luoghi; lo ritroviamo attivo nei movimenti spirituali radicali, in quelli medievali -antigerarchici e mendicanti- e anche in quelli moderni, dove continua a contestare il potere, ad  agitare le coscienze, a richiamare alla salvezza, e «tingendosi di una peculiare proiezione nel futuro […] veste i colori della riforma». Al punto che si può dire con J.W. O’Malley (Quattro culture dell’Occidente, 2004) che «il binomio profezia-riforme diviene così una delle culture fondamentali costitutive della civiltà occidentale».

Fino a quando non subentra quello che Prodi definisce un «sequestro istituzionale del carisma profetico» da parte delle Chiese che, per riprendersi il controllo di ogni voce pubblica di dissenso attraverso l’obbedienza alle istituzioni, declassano il profeta, ne derubricano la voce a mera interpretazione di predizioni, legandone ai libri la capacità evocativa. Si tratta di un percorso di trasformazione della profezia gravato da ambiguità e compromessi lungo il quale – fine del Quattrocento inizi del Cinquecento – essa si trasforma in progetto politico; sono gli anni della predicazione del Savonarola e della pubblicazione di Utopia di Tommaso Moro, testo che registra non solo il processo di secolarizzazione, ma anche di separazione dalla profezia (non a caso nel 1517 con Lutero deflagra la separazione) e che registra anche l’assunzione di nuovi contenuti: una nuova etica pubblica e privata, l’abolizione della proprietà e la comunione dei beni, un nuovo modello produttivo, sociale, politico.

Dopo Moro, con l’affermarsi della riflessione sul diritto naturale come fondamento di un nuovo ordine universale, per Prodi, «l’utopia perde il suo contenuto utopico, e trova un luogo intellettuale per diventare la base del pensiero costituzionale moderno». E se, certamente, nella Modernità avanzata, come pensa Prodi, i progetti di Costituzione, le dottrine del diritto, surclassano sul piano dell’efficacia le narrazioni utopiche di una società-storia, tuttavia, i contenuti etici delle Carte, la sostanza delle loro procedure, la loro più o meno alta tensione egualitaria matura anch’essa entro le aspirazioni utopiche. Così l’utopia cederebbe all’ideologia della rivoluzione al «progetto rousseauiano di un nuovo uomo-cittadino», dove sono le strutture politiche e sociali, e non più la Chiesa, che possono redimere l’uomo dal male.

Ma innegabilmente ancora una volta l’utopia fornisce contenuti alle rivoluzioni, elabora, adegua le forme delle strutture politiche e sociali in ordine a modi nuovi di concepire il giusto. Questa fine lettura interpretativa e questa ricostruzione costellata da distinguo e puntualizzazioni, che mantiene costante sia il parallelismo fra pensiero teologico-religioso e pensiero filosofico-politico, sia quello fra il sacro (potere sacro) e il potere (politico) coglie alcune questioni molto specifiche all’interno del quadro storico straordinariamente complesso del passaggio alla modernità, di cui Prodi si è a lungo occupato, articolando il ruolo che in questo passaggio continua a svolgere la religione, intesa come pensiero teologico radicale e come fatto istituzionale di potere spirituale-politico.

Si tratta di approfondimenti molto interessanti e di acute precisazioni del quadro storico; di ricerca di influenze e corrispondenze spesso illuminanti. E quando, in chiusura, il discorso si rivolge all’oggi, a individuare cosa resta nel nostro tempo del rapporto profezia-parrhesía, dopo le metamorfosi del ruolo che questo rapporto ha svolto nello sviluppo dello Stato di diritto e della stessa democrazia in Occidente, si rivela quasi solo “l’assenza”; emergono nodi teorici che esigono ancora analisi, consapevolezza critica, capacità di parola e slancio utopico rispetto ai problemi.

Nel contesto di una globalizzazione che per un verso ha portato in Occidente valori di altre civiltà e per altro verso si presenta come profondamente omogeneizzato, preda di un monopolio politico-economico, le voci critiche e alternative si affievoliscono e il dissenso va sparendo, la «mancanza di un respiro fra la coscienza e la legge», come dice Prodi, sta portando «l’Occidente al suicidio e il monoteismo islamico alla ribellione» (p.47). Tuttavia, dopo il concilio Vaticano II allo storico non sfugge qualche segnale di modificazione e di rinnovamento del legame profezia-istituzione; sebbene sotterranei e sfuggenti, si intravedono segni di utopia: la «creazione di diocesi senza territorio», lo «sviluppo di movimenti religiosi di ogni tipo», il «moltiplicarsi di comunità nelle quali il legame di disciplina è quasi nullo» (pp.53-54).

Qualcosa dunque nel vecchio Occidente si scorge, un soffio utopico all’interno della Chiesa sta modificando il rapporto centro-periferia serrato da sempre intorno all’obbedienza a garanzia di unità e sta facendo nascere un rapporto nuovo e più rispettoso delle diversità fra profezia e istituzione.

Massimo Cacciari si concentra invece sulla «Grandezza e tramonto dell’utopia» e muovendo dalla nota distinzione di Karl Mannheim fra utopia e ideologia supera d’un balzo la vulgata dell’utopia come non-luogo immaginifico-inconsistente-impossibile, per porsi una serie di interrogativi retorici che riassumono quasi tutte le domande sul suo senso: l’utopia è rappresentazione di desideri e di bisogni? Progetto riformatore? Paradigma? Idea regolativa? In realtà l’utopia è tutto questo e ancora altro; nel suo largo bacino di senso si sono raccolte forme e sedimentati contenuti che rinviano al sapere delle origini, alla parola profetica dell’Antico Testamento, alla filosofia della Grecia classica, ma che continuamente si aggiornano e si attualizzano, sono insieme di un preciso tempo e anche universali, di un preciso luogo e di ogni luogo.

Così l’utopia può ben dirsi con Cacciari un «sistema di pensiero» che mira a costruire un ordine socio-politico de-localizzato, universale (pp. 69-70). Ma è dalla straordinaria fioritura utopica dell’età moderna, che a partire da Moro segna l’entrata dell’utopia nel «dramma storico» e la porta a confronto con la concretezza di questo e con l’affermarsi della scienza, che Cacciari riconosce la sua portata di progetto politico (non si direbbe però che solo l’utopia moderna abbia questo carattere progettuale, pensiamo a Platone o alle “utopie concrete” del XX secolo).

Ma è nel tempo lungo della Modernità che l’utopia esplicita tutte le sue declinazioni e sboccia in  tutte le forme, dal racconto di viaggio e di scoperta -dove attinge alla realtà, come fa lo stesso Moro con le relazioni di viaggio di Vespucci – al programma di riforma sociale-religiosa sul modello monastico, dal sogno di una società futura (reve s’il en fut jamais) scandita dall’avanzare del progresso scientifico-tecnico e morale-politico al romanzo di formazione, dal disegno di ingegneria sociale al progetto filosofico-giuridico della pace.

Né il contesto della polis con tutte le sue ramificazioni, organizzazioni, istituzioni, esaurisce lo spettro delle aspirazioni umane e la loro complessità come l’utopia ce le racconta, la civitas hominis, si estende alla credenza, alla speranza, alla fede. E infatti l’utopia si protende anche in quei territori, come emerge nettamente sia dal discorso di Prodi, sia dalla caratterizzazione di Cacciari per il quale l’utopia è «progetto che vale come de-cisione da un passato e prefigurazione di un futuro»; è «un’escatologia secolarizzata» nella quale agisce sempre «l’idea del Fine», che le forze progressuali attive nel tempo della storia si incaricano di realizzare.

E ne riconosce anche la valenza etica, di cui coglie alcuni contenuti-valore: anzitutto quello del lavoro che con Moro per la prima volta assume il rilievo sociale con cui dal Moderno arriverà fino a noi: lavoro di tutti e fine dell’ozio, lavoro senza sfruttamento ed equamente retribuito. Forse è lasciata in ombra la chiave di volta in cui i significati parziali dell’utopia, tutti i significati, convergono a costituire il suo carattere archetipico: la ricerca del giusto in ogni singola sfera d’azione privata e pubblica, in ogni istituzione, una ricerca ch’è storicamente determinata e non assoluta. L’utopia non perde mai di vista questo Fine.

Molto interessante e padroneggiata con attenzione a tutti i co-protagonisti la ricostruzione dell’ultimo tratto novecentesco dell’utopia del Moderno: la vicenda dell’utopia ebraica nel quadro ideologicamente complesso del ‘900 e del relativo dibattito, dove è il Prinzip Hoffnung di E. Block a dare nuova linfa vitale all’utopia accostando sfera religiosa e dimensione rivoluzionaria. La profezia torna qui a coniugarsi con «l’utopia estrema» secondo la prospettiva messianica, non senza trovare ancora resistenze, opposizione e diffidenza ideologica motivate proprio dalla sua configurazione, dall’idea di legare il principio speranza all’essenza del profetismo giudaico, all’attesa anticipante del Regno.

Un regno mondano però, concretamente proiettato verso la rivoluzione, fosse pure distruttiva e catastrofica, come primo passo verso la redenzione. Questo tratto finale del percorso dell’utopia è letto da Cacciari come «sintomo» dell’apocalisse del nostro tempo in cui conflagrano le contraddizioni dell’utopia: fra il suo essere comunque parte di un mondo le cui forze di trasformazione si tratta di riconoscere e assecondare, e l’essere invece profezia secolarizzata protesa al novum.

In vista di una prima conclusione Cacciari trova parole inequivoche che sgombrano il campo da tante affermazioni sommarie divenute superficiale intendere comune: «non si tratta di qualche fantasia visionaria o di qualche decrepita filosofia della storia, teleologicamente impostata». E anche sul senso, sulla portata cognitiva, sul ruolo politico e socio-economico dell’utopia Cacciari entra in profondità: «L’utopia è fattore determinante del pensiero che ha informato di sé l’attuale ‘vittorioso capitalismo».

E però utopia sono anche le forze reali che l’hanno combattuto o hanno creduto di combatterlo, che hanno sviluppato un pensiero altro, una visione critica. Il punto è che la prima forma, il capitalismo vittorioso, avendo vinto, non ha più bisogno di utopia, e la seconda, la critica e la riflessione altra in vista del Fine sembra preclusa, sparita nel procedere indefinito e anarchico del presente e nell’incapacità di esprimere un principio condiviso che veda convergenze su di sé  e diventi così “egemonico”.

Restano solo «punti di vista» di volta in volta assunti all’occorrenza. Questa visione  a tinte grigie riassume per Cacciari «l’assenza di utopia» evocata dal titolo, e forse solo lavorare sul linguaggio ci salverà: «mettere ordine nel linguaggio», «ricondurlo a sobrietà e modestia», ad «autocoscienza dei suoi limiti», non è tanto, ma forse è necessario se è vero che il linguaggio si è ritrovato inadeguato e povero di fronte alle parole forti dell’utopia ebraica contemporanea: redenzione, salvezza, verità.

Bisognerà forse ripiegare su parole più modeste? Su significati più mondani? Non pare, non servirebbero a rendere più «pura l’attesa di Dio», a eliminare da quella «ogni impazienza e ogni esigente richiesta ab-solvendola dalla civitas hominis», che significherebbe «negare ogni teologia politica, ovvero rinunciare al Fine»(p.128-9).

Questa rinuncia rischia, è bene saperlo, di privare completamente di senso il compito del Politico, di ridurlo al privato, all’im-politico oltre che destituire il linguaggio profetico-utopico di valenza pubblica. Amara, sotto le spoglie della sospensione del giudizio, la chiusa di Cacciari si rifugia  nella ricostruzione archeologica, nella chiarezza dell’analisi sull’arché, in attesa di tempi migliori. Vigili però, e attenti a cogliere il novum.

L’utopia è dunque assente al momento ma se ne attende il ritorno.

 

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