La trincea dello spopolamento [di Franco Mannoni]

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Sono andato a Silanus, sabato scorso, a seguire un incontro indetto dal Comune, per discutere, con gli urbanisti di Sardarch, sul tema dello spopolamento dei paesi. Sono  tornato per  una sera in quei territori dove avevo esercitato il mio ruolo di rappresentante politico, ancora una volta per riconquistare qualcosa di quella realtà che certamente mi era sfuggita nell’affollarsi dei ritmi del tempo in cui la vita è più agire che riflettere.

Nessun intento di studio o di effettuare un carotaggio sociale, che spettano a chi adopera tecniche collaudate di indagine, piuttosto disponibilità a lasciarsi percorrere da scoperte di natura emotiva.

Vedi, in questi casi, sul viso dei tuoi coetanei superstiti,  le tracce crudeli degli anni e di tutto ciò che, a tua insaputa, durante gli anni si è agitato nella loro vita, come nella tua. Ma questo non è diverso da quanto ho vissuto durante i cinque o sei mesi passati a frequentare librerie, biblioteche, sale di riunione, per illustrare e discutere del mio tardivo esordio nella narrativa.

Mi interessava sentir parlare la gente, verificare come sindaci, associazioni, esperti rappresentano la loro realtà post industriale. Dove la brutta parola vuol significare non  l’evolversi della società, o almeno di una parte di essa, nel superare la civiltà del novecento, ma indica piuttosto la condizione di crisi in cui il fallimento del breve sogno dell’industrializzazione ha lasciato questa gente.

La lente attraverso la quale osservare la parabola discendente è quella dello spopolamento dei paesi che costituiscono l’area di Ottana. Il gruppo degli osservatori ha raccontato, con le tabelle statistiche, ma anche con le immagini e con le testimonianze, il disagio e il languire delle speranze fra coloro che abitano questi luoghi.

Pensare che quella fetta di Sardegna che, a spanne, è compresa fra Nuoro e Macomer, fra Bono e Gavoi, negli anni settanta conobbe gli effetti galvanizzanti dell’industrializzazione! Crebbe il numero degli abitanti, facendo innalzare i grafici in tutti i  paesi. Questi cambiarono aspetto, si diede mano a nuove costruzioni più che al riattamento delle vecchie, si attivarono nuove opere pubbliche. Il monte salari cresceva non solo per quelli che lavoravano negli stabilimenti, ma per i tanti rubinetti che si erano aperti, dai trasporti pubblici, al commercio diffuso, alla scuola.

Una quota di immigrazione faceva crescere il numero degli alunni, aumentarono il numero delle classi e dei posti di insegnamento. Ora sento la Sindaca di Oniferi che notifica  la chiusura della scuola media per mancanza di alunni e la riduzione di quella elementare. Mentre quello di Silanus ci fa sapere che si dispone del giudice di pace a Macomer solo in quanto i comuni interessati hanno surrogato lo stato assumendone i costi. E via alacremente a supplire il ritrarsi dello Stato e della Regione impegnati in piani di ridimensionamento e di “efficientamento” (!).

Sono  trascorsi quasi cinquanta anni dal marzo del 1969, quando un ministro della Repubblica annunciò l’arrivo dell’industria chimica di stato. Son rimaste le vestigia, di quello che fu il tempo formidabile della crescita, della creazione di un ceto operaio. Nella fabbrica della chimica resta al lavoro uno sparuto gruppo di operai che tengono in funzione la centrale elettrica, resta lo strascico tragico dei morti e dei malati per l’amianto usato negli impianti dello stabilimento.

Cinquant’ anni sono molti, ma da quando la fabbrica ha smesso di produrre? Nel mentre il declino ha colpito altre iniziative, nel tessile, nella metalmeccanica, nell’abbigliamento. Della reindustrializzazione è meglio non parlare.

C’è, perciò, la delusione, la frustrazione in quelli che vivono in queste terre, molti dei quali sono i figli di quegli operai che allora frequentarono i  primi corsi di formazione e il tirocinio negli stabilimenti del continente. I sindaci son quasi tutti giovani sindaci, occupano con convinzione la trincea, non hanno intenzione di mollare, possiedono volontà, fantasia e intelligenza. Ma basterà? E’ lecito che Stato e Regione li  lascino soli sulla trincea per vedere quanto resistono?

Limitandosi alla Regione, è possibile sperare ancora che il dramma dello spopolamento e del ritorno all’arretratezza di molte aree della Sardegna sia assunto come priorità prima a livello morale e culturale e, di conseguenza, politico?

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