Pd, l’incognita alleanze e il sogno maggioritario di Renzi [di Stefano Folli]
La Repubblica 13 marzo 2017. È senz’altro una buona notizia che le giornate del Lingotto si siano chiuse con il netto sostegno del Pd al governo Gentiloni. Peraltro non è una notizia inaspettata: avendo finalmente riconosciuto la realtà, ossia che non esisteva lo spazio e nemmeno la convenienza per anticipare le elezioni, il supporto all’esecutivo era l’unica opzione rimasta al gruppo dirigente. S’intende che a questo punto alle parole dovranno seguire i fatti: sostenere Gentiloni e Padoan vuol dire per il partito di maggioranza farsi carico delle scelte che il governo dovrà compiere in politica economica di qui alla fine dell’anno, scelte che si prevedono impopolari, forse molto impopolari. Saranno discusse prima di ogni decisione, è ovvio, e il leader del Pd farà valere il suo peso. Ma difficilmente le misure potranno essere edulcorate o stravolte per ragioni elettorali. Si andrà alle elezioni dopo il varo di questi provvedimenti e non prima, il che dovrebbe significare una campagna all’insegna del realismo, un’obbligata “operazione verità”. Non è detto che gli italiani reagiscano male. Può darsi, al contrario, che reagiscano molto bene, come è accaduto altre volte nella storia recente del Paese. In fondo, meglio la verità che essere trattati come bambini immaturi. C’è un secondo punto, meno chiaro e convincente del primo. Nessuno, tanto meno il segretario, ha spiegato se il nuovo Pd avrà una politica delle alleanze e in quale direzione. Si è solo capito, ma lo si sapeva già, che Franceschini avrebbe voluto, e forse vorrebbe ancora, collocare il partito al centro di intese comprendenti la sinistra, da un lato, e i moderati di Alfano e Casini, dall’altro. E viceversa che i Martina e gli Orfini privilegiano l’attenzione verso i progressisti di Pisapia. Ma nessuno sembra avere realmente a cuore il problema, salvo il ministro dei Beni Culturali a cui però manca la forza politica per imporre una soluzione – le alleanze aperte a sinistra e a destra – che il resto del Pd non vuole. Quanto a Renzi, l’unico da cui ci si attendeva un’indicazione netta, ha preferito volare al di sopra delle questioni pratiche. Ma il suo tentativo tattico – che pure c’è stato – di allargare l’orizzonte del partito verso sinistra e di dargli un respiro nuovo, meno ripiegato sull’egocentrismo del leader, non può sottrarsi al tema delle alleanze. Si obietta: Renzi non parla di alleanze perché non ha perduto la sua “vocazione maggioritaria“. Vale a dire che ragiona ancora come se avessimo una legge elettorale maggioritaria, l’Italicum. Al massimo lascia ai suoi collaboratori più vicini di lanciare una passerella verso Pisapia, l’ex sindaco di Milano con il quale i renziani sperano di sostituire gli scissionisti dalemian-bersaniani. Ma a questo punto la contraddizione si è già aggrovigliata oltre il punto di non-ritorno. Non è un caso che i contendenti di Renzi, vale a dire Orlando ed Emiliano, si propongano ognuno a suo modo come coloro che metteranno fine alla guerra fra le varie sinistre, ricomponendo il tessuto lacerato. Hanno un progetto, certo discutibile, orientato in senso socialdemocratico. E accettano che il sistema sia tornato proporzionale, al punto da rendere indispensabili le intese. Prima e dopo le elezioni. A maggior ragione se il Parlamento non riuscirà, come sembra, a rimetter mano alle sentenze della Corte se non per aspetti marginali. Invece Renzi, come si è detto, vive tuttora dentro l’illusione maggioritaria. Del resto, è consapevole che gli scissionisti (“quelli che volevano distruggere il Pd”, secondo le sue parole) non farebbero mai accordi con lui. E forse prevede – come tanti, del resto – che il prossimo Parlamento sarà del tutto paralizzato, senza vinti né vincitori, e allora servirà rifare la legge elettorale prima di tornare di nuovo alle urne. In ogni caso, è pericoloso non vedere la realtà, magari perché si è convinti di raggiungere da soli la maggioranza, ossia lamitica soglia del 40 per cento. Così come è azzardato dare per scontata l’alleanza con Pisapia, il quale ha l’ambizione di federare un mondo disperso, quasi un altro Ulivo, e non gradisce essere descritto come la stampella di Renzi. Finora ha dimostrato di non esserlo affatto.
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