Esportazione di beni culturali, cinque Paesi a confronto [di Laura Lombardi]
Il Giornale dell’Arte edizione online, 29 marzo 2017. Un simposio a Firenze ha fatto il punto sulle diverse legislazioni in Italia, Regno Unito, Stati Uniti, Olanda e Germania. Firenze. Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio gremito per il Simposio internazionale sulla Libera circolazione delle opere d’arte, organizzato, in concomitanza col G7 della Cultura, su iniziativa di Fabrizio Moretti, presidente da tre edizioni della Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Palazzo Corsini (che si aprirà nel prossimo settembre), insieme al sindaco Dario Nardella. Un confronto tra le diverse legislazioni in materia di esportazione, illustrate dai relatori di vari Paesi, per trovare strategie possibili in merito a una questione sempre molto calda, quella della libera circolazione delle opere d’arte in Italia. Introducendo i relatori, Moretti ha insistito sulla necessità di sensibilizzare il ministero a riesaminare i criteri rispetto a quelli attuali vigenti, che prevedono nel nostro Paese la possibilità dello Stato di vietare la fuoriuscita di qualsiasi manufatto che abbia compiuto 50 anni e il cui esecutore non sia più in vita: altri Paesi dell’Unione Europea hanno infatti recepito una direttiva comunitaria che introduce una soglia di valore al di sotto del quale le opere e gli oggetti d’arte possono circolare senza autorizzazione preventiva. Nardella ha riconosciuto il ruolo svolto dal mondo antiquario auspicando maggior collaborazione tra mercato dell’arte, musei e istituzioni, accogliendo la richiesta di Moretti di farsi portavoce di alcuni punti critici presso le autorità competenti. Sono poi partiti i confronti tra le diverse realtà: quella olandese, illustrata da Taco Dibbits (direttore del Rijskmuseuem di Amsterdam), Paese molto libero in materia di circolazione, con una lista molto corta di opere da sorvegliare; quella tedesca, commentata da Eike Schmidt (direttore delle Gallerie degli Uffizi), che ha segnalato un’ inversione di rotta della Germania, tesa ora a un controllo più stretto rispetto al passato; quella americana, spiegata da Carl Brandon Strehlke (curatore emerito del Philadelphia Museum of Art), dove la legge è molto favorevole alla libera circolazione (anche se diversa da Stato a Stato), ma dove i fondi destinati alla cultura, che rendono quindi possibili molte acquisizioni da parte dei musei, potrebbero esser ridotti dal governo Trump; e infine quella britannica, raccontata da Gabriele Finaldi (direttore della National Gallery di Londra) che ha chiarito come in Gran Bretagna non esista la notifica, ma sia vigente un sistema di controllo con criteri molto precisi («i Waverly criteria»), validi per un tempo definito (6 mesi). A commentare la situazione italiana non poteva mancare Tomaso Montanari, professore di Storia dell’arte moderna all’Università Federico II di Napoli, il quale ha sottolineato, con l’ausilio di citazioni da Cicerone a Boschini, come la storia della tutela in Italia sia da sempre stata legata al contesto: l’Italia tutta è un museo ed è quindi molto più difficile render valide per il nostro Paese, che vanta più di venti secoli di arte, le regole di altre nazioni, dove le opere sono giunte dopo, «portate» appunto, o dove il periodo di fioritura artistica è stato circoscritto a meno secoli. Come scriveva Quatremère de Quincey «in Francia non capirete Raffaello senza il cielo di Roma» e non è forse proprio il nostro patrimonio, rimasto sul territorio, a costituire un’indubbia attrattiva e a svolgere un ruolo nella nostra economia? Montanari non nega la disomogeneità di criteri adottati negli uffici esportazioni, che portano a bloccare opere che da altri uffici uscirebbero e viceversa, e ha per questo sottolineato la necessità da parte dello Stato di assumere più storici dell’arte, che valutino le opere secondo criteri definiti con maggior chiarezza, nei quali non è vincolante il valore economico dell’opera quanto la sua specifica pertinenza a un contesto o il suo valore storico e documentario. E se Moretti auspica che ogni opera abbia un passaporto, riducendo così anche il rischio delle esportazioni illegali, Montanari è concorde, ma risponde: «Certamente, ma anche un passaporto scade». Pur nel tono molto pacato e scientifico del dibattito, non è mancata la nota dolente che riguarda il Museo della Manifattura Ginori di Doccia, sul quale tanto si è scritto, ultimamente, stigmatizzando il mancato acquisto da parte dello Stato di un bene così prezioso (acquisto che ora avverrà): ma se è vero che i privati sono paladini del patrimonio italiano, vessati da regole incongrue, perché nessun privato ha investito per la cifra, in fondo esigua per chi si muove nel mercato, di due milioni e mezzo di euro? |