Il lavoro? Lo danno le bombe sganciate sullo Yemen [di Raffaele Lupoli]
Left 16 aprile 2017. Nel Sulcis delle miniere dismesse, delle vertenze storiche come quella di Alcoa, Carbosulcis o Eurallumina, e della disoccupazione giovanile record, 74 operai costruiscono ogni giorno ordigni bellici. Nei periodi di “super-produzione”, frequenti negli ultimi tempi, quei 74 diventano anche 200, 250, dando inizio a una strana catena di montaggio che inizia nel sud della Sardegna, a Domusnovas, prosegue su navi e aerei che attraversano il Mediterraneo e termina drammaticamente sul suolo yemenita per opera delle forze armate dell’Arabia Saudita, per citare una delle destinazioni di cui più si è discusso negli ultimi anni. La fabbrica di armi e munizioni in cui sono “barricati” questi operai, costretti per contratto a un particolare vincolo di riservatezza, è in un anonimo edificio giallo ocra a poca distanza dal centro cittadino («ma abbastanza da non sentirla come una minaccia», ci dice il “minatore rosso” Antonello Tiddia). Si tratta della Rwm Italia Spa, partecipata del gigante tedesco Rheinmetall Waffe Munition Gmbh, meglio noto come Rheinmetall Defence, con sede principale a Ghedi (Brescia) e un secondo stabilimento a Domusnovas, sorto nel 1972 sulle ceneri di una società che produceva esplosivi per le miniere della zona. Non ci sono insegne né cartelli a indicare la strada per arrivarci. A qualche centinaio di metri dalla Rwm, tenuti a debita distanza da circa duecento agenti, lunedì 3 aprile oltre sessanta attivisti hanno per l’ennesima volta manifestato contro la produzione delle bombe – tra cui le micidiali Mk83 o le bombe d’aereo di penetrazione Blu-109 cadute sullo Yemen, come conferma anche l’Onu – per poi dirigersi in paese, dove le proteste antimilitariste sono tutt’altro che gradite. «Ogni volta che in questa regione ci opponiamo a decisioni calate dall’alto ci ritroviamo davanti schieramenti notevoli di forze dell’ordine», racconta Rosalba Meloni, attivista del Cagliari social forum e del Movimento anti-militarista sardo. «Ma quando si tocca il discorso militare le cose peggiorano: il 3 aprile ci siamo ritrovati davanti sette cellulari pieni zeppi di poliziotti, numerose auto dei carabinieri, Digos, truppe speciali e un elicottero che girava sopra le nostre teste. Non oso immaginare quanto sia costato quest’apparato di sicurezza spropositato a noi contribuenti. Hanno creato una notevole tensione, ma noi non avevamo alcuna voglia di essere pestati e abbiamo semplicemente fatto e detto le cose che ci eravamo prefissati di dire e fare, anche discutendo animatamente. Soprattutto, con il nostro sit-in abbiamo impedito il cambio turno costringendo la fabbrica a trattenere gli operai del primo turno fino alle 18, anche se il nostro obiettivo iniziale era quello di bloccare la produzione».
|