Non solo estetica, l’architettura è democrazia [di Antonella Tarpino]
L’Huffington 10/05/2017. Il paesaggio, con il suo imponente patrimonio storico-artistico, non è solo da vedere, anzi principalmente è da vivere, e lo si fa in comune: è per questo traccia di democrazia. Paesaggio é un borgo in altura (ci mostra Salvatore Settis nel suo ultimo libro Architettura e democrazia) con le sue torri e la pieve, specie in Toscana, ma anche i vigneti che lo circondano, il torrente, le cascine e gli edifici rurali, le fattorie poderali, le ville dei dimenticati signori o il castello, il sistema di irrigazione. Perché le testimonianze artistiche sono indistinguibili dal paesaggio in cui prendono forma e si radicano. Applicare al paesaggio la parola tutela allora non basta: bisogna far valere, nel rispetto dell’urbanistica passata e in quella spesso incontrollata del presente, il richiamo alle esigenze di quella “comunità dei cittadini” che vi abitano e dei diritti delle generazioni future. Certo gli amministratori pubblici o i politici hanno una gran parte in tutto ciò ma troppo spesso gli architetti hanno disseminato nel paesaggio italiano edifici “affrettati” e “impropri” piegandosi solo a criteri estetici, a logiche poco lungimiranti e all’interesse economico mentre già dai tempi di Borromini si invocava per gli artefici del volto del nostro paesaggio il problema della responsabilità morale dell’architetto. Ecco che il legame fra l’uso (e non l’abuso) degli spazi e la nozione di cittadinanza, con gli annessi diritti civili o meglio civici che Settis richiama, trova il suo innesto coerente con il problema della democrazia. Tanto più il discorso vale per le città: e il conflitto tra gli spazi sempre più residuali del centro storico, ridotto spesso a “riserva indiana” e quelli del suburbio nell’implosione della stessa forma-città, con i suoi confini esterni sfondati (alcuni han parlato di città infinita) e l’insorgere di linee di frattura interne (i nuovi ghetti). In un pericoloso oscillare fra le retoriche futuriste delle megalopoli e dei grattacieli e il conservazionismo dei centri storici: in sostanza fra i dettami della finanza e i residui diritti delle comunità.
E le città globali? Fuori dal nostro Paese la città si espande senza limiti incorporando – è il caso di Chongqing, Cina centrale – una foresta urbana di decine di grattacieli, e un enorme centro commerciale che replica (come in un play in the play) San Gimignano.
La retorica delle altezze trapianta la competitività dei mercati finanziari nella città e vi radica una visione “muscolare” e “autoritaria” dell’architettura (molto efficaci le espressioni di Settis) in cui gli “alti” la vincono sui “bassi”, i ricchi sui poveri, il nuovo sul vecchio. Monumenti di un prestigio che si pretende immateriale, questi neograttacieli tracciano nel cuore della città un nuovo confine, un confine verticale che riflette icasticamente la distinzione di censo e di classe.
Ovunque forme di urban apartheid vanno crescendo di anno in anno e alle vecchie mura esterne delle città si sostituiscono sempre più muri interni nelle città moltiplicando gli spazi dell’esclusione. Zone grigie, junkspace (spazio spazzatura per dirla con l’architetto olandese Rem Koolhaas) rovine urbane: queste e altre categorie del discorso, evoca l’autore, che sotto-articolano gli spazi non-urbani seguendo una strategia di deresponsabilizzazione che da un lato impedisce non solo al cittadino comune, ma spesso anche al miglior architetto, di cogliere i problemi dello spazio urbano e periurbano su grande scala, costringendolo a progettare un edificio senza alcuna preoccupazione contestuale; e dall’altro moltiplica e segmenta le competenze, le professionalità, i compiti e le procedure, fino al punto che nessuno è più responsabile di nulla.
Così non è un paradosso se secondo Settis occorre de-esteticizzare l’architettura e l’urbanistica: non solo alla luce di un’etica comunitaria e di un’adeguata considerazione dei rischi ambientali, ma anche pensando alla relazione fra il corpo del cittadino e il corpo della città.
Perché il corpo del cittadino e il corpo della città non devono essere l’un l’altro nemici, ma integrarsi e compenetrarsi. Se fra corpo della città e corpo del cittadino c’è un rapporto di proporzioni, di misura, di funzioni, allora si potrà dire che il corpo della città mima, ripete, esalta il corpo del cittadino, e che la forma della città si prefigura come il dispositivo della mediazione fra il corpo dell’individuo e il corpo della società (che è la democrazia) e anche fra il tempo presente e le generazioni future. |