Il Golf in Sardegna nell’era della siccità [di Sante Maurizi]
La Nuova Sardegna 17/05/2017. Pare che nel 2004, periodo di grande siccità, il Pevero Golf Club abbia noleggiato navi-cisterna per garantire l’irrigazione dei suoi bei prati verdi: il povero invaso del Liscia non ce la faceva ad assicurare le indispensabili centinaia di migliaia di metri cubi d’acqua all’anno. Magari è una leggenda agro-metropolitana, ma è difficile non pensarci quando ieri, a distanza di poche pagine, La Nuova Sardegna raccontava di golf e siccità: «Il turismo legato al golf come opportunità di sviluppo» e «Mai piogge così scarse dal 1922». Ci sarà una ragione se il primo green è documentato in Scozia nel 1672 e il golf sia a tutt’oggi lo sport nazionale del fiero popolo in gonnellino di tartan. I cambiamenti climatici stanno trasformando anche le abitudini degli scozzesi (qualcuno ha cominciato a fare il vino coltivando una varietà tedesca di vite), ma ancora per qualche decennio i prati dovrebbero rimanere verdi senza irrigazione, e pare escludano di fare concorrenza ai sardi producendo cannonau. Un campo di 60 ettari – 18 buche, come il Pevero – utilizza in media 300 mila metri cubi d’acqua all’anno. Lo stesso consumo dell’identica superficie seminata dalle nostre parti a mais, una delle colture più idrovore. In regioni siccitose come le mediterranee, in cui l’acqua è risorsa scarsa e limitante, è già in atto quella pericolosa competizione fra popolazioni locali indicata dal Programma Ambiente dell’Onu sull’impatto del turismo. Il golf è l’unica attività specifica citata nel rapporto, perché quello dell’acqua di superficie è solo uno, il più evidente, dei temi che ne sostanziano l’impatto ambientale: uso massiccio di concimi e fitofarmaci, salinizzazione della falda, consumo del territorio in zone di pregio, operazioni immobiliari speculative, costituiscono obiezioni ben presenti alle lobby internazionali del golf, vittime dell’ideologia ambientalista. Tanto che gli studi volti a presentarlo come sport ecologico per eccellenza (c’è una rincorsa all’ecocertificazione) ci raccontano ad esempio di impianti all’avanguardia nell’impiego di acque reflue. Trascurando di dire che le opere di urbanizzazione per convogliare tali acque qualcuno dovrà pure pagarle. E sappiamo come la Sardegna abbia risposto nel passato a tali sollecitazioni per sostenere lo sforzo generoso di creare benessere e posti di lavoro investendo capitali. I quali capitali pare si aggirino attorno ai 300 mila euro a buca: stando all’esempio dei 60 ettari, tra i 5 e i 6 milioni, con tempi di recupero del capitale di qualche decennio. A meno che non ci sia qualche volumetria già concordata per alloggi e servizi pluristellati che consenta di rientrare prima. Vecchie vicende isolane di patti territoriali e fallimenti stanno lì a dimostrarlo. Ci sarebbe poi il dettaglio già accennato dei cambiamenti climatici in atto. Dati come quello del 30% del territorio regionale a rischio desertificazione parrebbero poter ammaestrare più della relazione fra clima e migrazioni, che pare argomento buonista. Ci dicono che quello della percezione sia tema da psicologia cognitiva, ma nel dover programmare i “limiti dello sviluppo” la questione del clima è politica. E i politici dovrebbero dire parole chiare e inequivocabili su processi e attività energivore, degrado del suolo, tutela dell’ecosistema in un contesto di progressiva fragilità economico-ambientale. Qualche anno fa imprenditori, politici e studiosi sardi mostrarono di gradire il disegno di legge del governo Berlusconi per incentivare il golf con soldi pubblici e favorirne lo sviluppo, anche all’interno di aree protette. Magari l’allentarsi delle maglie che pare prefigurarsi con la nuova legge urbanistica sta contribuendo a risvegliare l’entusiasmo per quello sport ingenerosamente definito da George Bernard Shaw con una delle sue perfide battute: «Per giocare a golf non è necessario essere stupidi, però aiuta». |