Tempio o strada? Una Cagliari con lo sguardo corto [di Alessandro Mongili]
Da che cosa si può capire una città? Dal Tempio, ancorché massonico, verso cui sono rivolti gli sguardi dei suoi abitanti, o dai cammini che la attraversano? Dalle strategie matrimoniali o correntizie interne, o dai traffici con altri luoghi, e dalle relazioni stabili che questo luogo instaura con altri luoghi? Se io considero Cagliari, nel suo sviluppo urbano, nella sua cultura, nelle soggettività che predominano al suo interno, io non ho dubbi: più del Massone che accorre alla sua Loggia poté il suo essere Snodo, incrocio, porto, punto di passaggio obbligato. In una disordinata e ingenua trasmissione televisiva (FuoriRoma), fra il pettegolezzo avanzato e le idee scadute, mancava ogni riflessione seria sulla nostra città. Eppure, da qualche anno, Maria Antonietta Mongiu, sul quotidiano di Cagliari, ci mostra ogni settimana che cosa si nasconde dietro le fattezze odierne, in termini di durata, per cui il nostro sguardo avrebbe dovuto educarsi a questa dimensione meno superficiale, e spingerci a ragionare verso ciò che infrastruttura la nostra vita ordinaria, più che verso le apparenze e il cràstulu. Questa pedagogia non ha avuto effetto, e siamo fermi alle tre M, che colgono solo un effetto – per quanto importante – di un rapporto cruciale per capire che città sia Cagliari. E sia detto, si trattava del punto più elevato di astrazione concettuale nella trasmissione in oggetto, visto che per il resto siamo rimasti fermi alle pivelle di Massi. Il rapporto cruciale è sicuramente quello di dipendenza della Sardegna da potenze esterne, e dal ruolo che Cagliari ha giocato in questo assetto di potere. Nel 1258 il centro di Cagliari ebbe una modifica spettacolare. La cattedrale e il Palazzo giudicale, con la città fortificata in riva allo stagno di Santa Gilla, vennero rasi al suolo dai Pisani e i suoi abitanti deportati, forse, a Stampace. Fino al ‘500, ai Sardi era vietato passare la notte in Castello, pena la morte. Da allora, ininterrottamente e in modo assolutamente stabile, Cagliari è lo snodo del dominio della Sardegna. Contrariamente alle affermazioni ingenue e assurde di molti indipendentisti, Cagliari è proprio il centro della Sardegna, perché il potere della Sardegna e le stesse ragioni della sua possibile rifioritura non sono al suo interno barbaricino mitizzato e auto-mitizzato, ma nel suo intessersi con l’esterno in una molteplicità di scambi. Oggi disuguali, nel futuro, come nei momenti più floridi della nostra storia, speriamo paritari. Chi pensa che il centro sia Bauladu, si vota alla sconfitta, perché a Bauladu c’è una pompa di benzina, e a Cagliari c’è invece la nostra storia e lo snodo del nostro stesso futuro collettivo. Chi non lo capisce ha problemi con il carattere del mondo in cui viviamo. Cagliari è più porta e crocevia che la Dominante, è il punto di passaggio obbligato più che la Capitale. E’ peraltro proprio il dominio della Sardegna che crea una tensione costante e essenziale nella vita cagliaritana, e che la rende così viva. La mediazione di interessi stranieri, l’imitazione pedissequa e talvolta barocca – nella moda, nella lingua, nello stile di consumi, nelle appartenenze politiche – rende simili Zedda e Pintoreddu, Bacallar e Berlinguer, Brotzu e Bacaredda, Cocco-Ortu e Paci, i nobili ìs de nosu che si batterono spada in mano per i primi posti alle prime stagioni liriche settecentesche, gli organizzatori di festival pseudo-letterari odierni scatenati intorno agli ospiti importanti, e altri organizzatori di eventi, anche minori, tutti accomunati dal disprezzo e dall’irrisione per le classi popolari e la loro cultura, cioè per se stessi. E rispetto a questo versante servile che si stagliano invece Lussu e Gramsci, Giovanni Maria Angioy e Brancaleone Doria, tutti personaggi resi significativi dal loro passaggio in questa città, e cruciali per la storia sarda. Con la tensione imitativa e servile, così visibile anche solo passeggiando per le vie commerciali e osservando i giovani, sempre pressati a essere alla moda per essere accettati, contrasta, in un modo che non potrebbe essere più spettacolare, Sant’Efisio, il tifo viscerale per la squadra locale di calcio, il cibo, la mensa e la sua condivisione, il racconto di sé e della storia collettiva dei suoi abitanti, che si configura sempre con una storia profondamente sarda, europea, mediterranea, e pochissimo italiana, occorre dire, se non perché il dominante di turno è italiano e l’imitazione e l’inchino servile deve rivolgersi verso di esso. Nel momento in cui ogni anno il Santo passa di fronte al Municipio e le navi dal porto suonano all’unisono le loro sirene, un’ondata di commozione tocca tutti i cagliaritani, anche non credenti. Un sogno di liberazione e di gratitudine, un momento di appartenenza civica, ma che più sarda non si potrebbe, scardina i luoghi comuni della Cagliari non sarda e dei piccoli giochetti del tempo presente, in un battibaleno. Ci ricorda il nostro essere sardi, la nostra oppressione, e il desiderio di essere liberi, rispettati, uguali. E questa tensione opposta all’omologazione e all’imitazione esplode anche con il ribellismo e il disagio che talvolta esplode in modo drammatico e autodistruttivo, con l’ondata di eroina qualche decennio fa, con l’ondata di psicofarmaci e di suicidi, oggi. Più costruttivamente, con l’innovazione e il cambiamento in ogni campo, anch’essa risposta a questa tensione insostenibile per le persone indipendenti che popolano la nostra città (“pazzi”, nella vulgata concitiana), dalla creazione della LSC e di una lingua nazionale sarda a quella del suo competitor, dalla nascita di Internet al miscuglio linguistico, dalla creazione artistica alla scrittura, dal consumo musicale elevato alla creazione e al rilancio della stessa musica sarda e di una molteplicità incredibile di tipi di musica, dal display dei corpi e dalla loro cura alla passione per lo sport, sino a una certa disordinata ma vivace passione per il sesso piuttosto che per i matrimoni e per le famiglie. La rimozione del rapporto di potere fondamentale, intorno al quale tutto il resto si incardina, è tipico di una mentalità da dominati, abituati a non vedere quello che a qualsiasi sguardo esterno è visibile a occhio nudo. Ed è normale che venga trascurato da chi considera questo dominio normale e moderno, e chi vi si oppone un fondamentalista o un pazzo. |
Mi sono venuti i brividi a leggere questo pezzo, e non so neanche perché ma mi sono venuti. Forse perché a tutti quelli che mi chiedevano se avevo visto la trasmissione Fuori Roma (che pare sia stato l’evento dell’anno e l’unico a non averla vista) ho sempre risposto di no, non l’ho vista perché non ho più alcuna curiosità e interesse a vedere spot pubblicitari vuoti di contenuti come sono oramai questi servizi. Magari mi sono sbagliato, e non avendo visto la trasmissione ho semplicemente espresso un pregiudizio. Ma chissà perché ho il sospetto che il pezzo che ha scritto il Dott. Mongili sia agli antipodi di ciò che avrei potuto vedere e sentire alla RAI. Grazie Dott. Mongili abbiamo bisogno come il pane di ragionamenti profondi come questi e grazie, come sempre, a Maria Antonietta scrittrice e ispiratrice di questi temi.