Che cos’è che non va? [di Guido Pegna]
Enrico Persico è uno degli uomini che fece grande la fisica italiana insieme a Fermi, a Pontecorvo, a Segré. Nel 1956 pubblicò sul neonato Giornale di Fisica un articolo, di cui gli rubo il titolo “Che cos’è che non va?”, riprodotto qui di seguito, che lascia stupefatti. Infatti dopo quasi sessant’anni, dopo che il mondo grazie alle conquiste della fisica è stato invaso da oggetti tecnologici a quel tempo inimmaginabili – personal computer, telefonini, televisori a colori da appendere alla parete come quadri, i laser, il GPS – dopo lo sbarco degli uomini sulla luna, dopo la risonanza magnetica, dopo la PET, malgrado tutto ciò i micidiali guasti dell’insegnamento della fisica nell’università italiana permangono inalterati: la mancanza di concretezza, la non attenzione alle applicazioni, la mania per il formalismo fine a sé stesso, la paralisi dell’immaginazione, l’atteggiamento di sprezzante indifferenza nei confronti degli oggetti tecnici di cui ci serviamo tutti i giorni. La situazione descritta così bene da Persico è tanto più preoccupante oggi, in quanto quel male, secondo l’opinione di molti osservatori e secondo le valutazioni oggettive oggi così di moda è ora diffuso a tutta l’università; quindi complessivamente oggi molto peggio che nel 1956. Né vale l’argomento autoconsolatorio (ma tragicamente miope) che i nostri giovani sono molto apprezzati all’estero, e che quindi per questo molti di loro possono abbandonare l’Italia per trovare la loro giusta realizzazione all’estero. Come dice Persico, si tratta in realtà di una esigua minoranza – una esigua minoranza – che per particolari attitudini o favorevoli condizioni ambientali sono riusciti a farsi una preparazione adeguata alle esigenze del mondo scientifico ed economico contemporaneo. Ecco lo scritto originale del grande Enrico Persico, un esempio di chiarezza, di lucidità e anche di buona scrittura. “Mi dica almeno qualcosa sulle onde elettromagnetiche”. La candidata, che poco fa non aveva saputo dire perché i fili della luce elettrica sono rivestiti di isolante, appare ora visibilmente sollevata e comincia ad allineare sulla lavagna in bell’ordine le equazioni di Maxwell nella loro elegante forma vettoriale. Finalmente una domanda facile! “Considero ora il caso che sia ρ = j = 0. . .”Cancellati i dovuti termini, le equazioni si semplificano e dopo pochi secondi la candidata (che poco prima era stata incapace di indicare una sola applicazione pratica delle correnti alternate) può procedere all’eliminazione di H e avviarsi con disinvoltura alla equazione differenziale di d’Alembert. Quivi giunta, la stessa persona che voleva far passare 20000 ampere in una comune lampadina elettrica, osserva saggiamente che se E non dipende da y né da z, l’equazione rappresenta onde piane normali all’asse x, e si accinge a dimostrarne le proprietà. Confesso (inutile dire che “ogni eventuale riferimento a fatti o persone reali è del tutto casuale”), confesso che, anziché seguire l’impeccabile ragionamento della signorina, mi sono un poco distratto e abbandonato a malinconiche riflessioni generali, mentre la lavagna continuava a riempirsi di equazioni eleganti e generalissime. Perché questa ragazza, che non è stupida, ma che trova tanto difficile descrivere un condensatore, una volta messa sul binario delle formule corre come una locomotiva? Sono sicuro che era in buona fede quando, avendo scritto E = Ri, sosteneva di conoscere la legge di Ohm, ma perché poi non ha saputo calcolare la corrente in quella tale lampadina? E perché non trovava nulla di strano nell’inverosimile risultato? E quello sgorbio informe che era stata la stentata rispostaalla richiesta di disegnare un elettroscopio a foglie, era proprio dovuto a inesperienza del disegno, come lei sosteneva, o a mancanza di qualsiasi immagine mentale dell’oggetto da disegnare? Il guaio è (pensavo tra me, mentre le onde piane continuavano a propagarsi nel verso dell’asse x con velocità v), il guaio è che questo sarà, sì, un caso estremo, ma la stessa malattia, in forma più o meno grave, è diffusissima in quasi tutti i nostri studenti universitari di Fisica e di Matematica e Fisica. È una malattia che ha diversi aspetti, così che è difficile designarla con una sola parola, ma che in sostanza denota tutto un atteggiamento errato e innaturale dell’allievo di fronte alla Fisica. L’aspetto più evidente di questa malattia è uno strano disinteresse per il fenomeno fisico (e ancor più per le sue applicazioni pratiche) congiunto a una lodevole, ma sproporzionata, attenzione rivolta alla formulazione matematica delle leggi, la quale diventa fine a se stessa anziché strumento di rappresentazione e di indagine del mondo fisico. E le formule, si badi bene, sono considerate solo nel loro aspetto algebrico: mai si pensa alla possibilità di sostituire quelle lettere con dei numeri, e a tenerne presenti gli ordini di grandezza che intervengono nei fenomeni reali. Vi è poi una inesplicabile difficoltà a descrivere anche il più semplice oggetto o fenomeno, sia con la parola, sia, ancor più, col disegno. Il disegno (schematico beninteso) che sembrerebbe in molti casi un mezzo spontaneo, quasi quanto il gesto, per aiutare la parola ad esprimere ciò che si ha in mente, non viene per lo più nemmeno preso in considerazione dall’esaminando, e ogni invito a servirsene viene considerato come un crudele aggravamento di pena. Si ha l’impressione che il candidato non abbia un’immagine mentale da tradurre in parole o in linee, ma piuttosto da ripetere un discorso quanto più fedelmente è possibile. E ciò che è più strano è che la maggior parte degli studenti considera facile la parte descrittiva del corso, e difficile invece la parte matematica. È difficile la Fisica? Se si interroga l’uomo della strada, o anche l’avvocato, il medico o l’uomo colto in genere, nove volte su dieci risponde: “Certo! è piena di formule!” Bisogna invece concludere, a giudicare dagli esami, che pei nostri studenti la Fisica è difficile, ma non a causa delle formule. Probabilmente è difficile perché essi non si accorgono che in essa c’è molto di più delle formule, e qualcosa di diverso da esse. Questo “qualcosa”, e cioè il fatto fisico, in molti casi sarebbe facile da comprendere e ritenere, pur di rivolgervi la necessaria attenzione, e dovrebbe anche essere pieno di interesse e di fascino per un giovane moderno, in quanto ricollega la Fisica al mondo della natura, della tecnica, della scienza, e magari della fantascienza. Invece, molti dei nostri studenti non vedono nella Fisica che una materia scolastica, che poco ha che fare col mondo reale: i migliori tra essi ne apprezzano soprattutto l’eleganza della formulazione matematica, ma tengono in dispregio (e talvolta lo dichiarano apertamente) i fatti fisici che quelle formule dovrebbero rappresentare. Certo, la descrizione matematica dei fenomeni fisici presenta, oltre alla incontestabile utilità pratica, un grandissimo valore estetico. E chissà, forse questa fanciulla, che ha disdegnato di fissare la sua attenzione sui volgari fenomeni che si utilizzano negli elettrodomestici, è stata invece affascinata dalla magica potenza di quelle formule, che in pochi segni racchiudono i miracoli delle radiocomunicazioni, lo splendore della luce solare, il tepore del caminetto e tante altre cose ancora. Forse, dopotutto, questa figliola è un’entusiasta. . . Proviamo. “Vuol dirmi, signorina, che interesse ha questa teoria, e a quali fenomeni si applica?” La domanda è subito classificata (lo leggo negli occhi della candidata) tra quelle malvagie e non “pertinenti” al programma. Bisogna spiegarla e riformularla in diversi modi. Infine la esaminanda crede di capire che cosa si vuole da lei, e recita: “Maxwell avendo notato che la velocità della luce coincideva numericamente etc. etc.” Si potrebbe pensare che l’inconveniente che lamentiamo in tanti nostri studenti dipenda da una reale, intrinseca difficoltà dei concetti fisici, sia pure elementari. Ma non credo che sia così. Ho avuto occasione di istruire e di esaminare molti studenti di un altro Paese, che non erano in media né più né meno intelligenti dei nostri, ma che avevano, di fronte alla fisica, un atteggiamento tutto diverso e che mi sembra molto più naturale. Non voglio parlare del loro vivo o magari esagerato interesse per le applicazioni tecniche, ma soprattutto della parte preponderante che mostravano di dare nella loro mente alla immagine del fenomeno reale più che alla sua rappresentazione analitica. Ciò si rivelava non solo negli esami buoni, ma anche, e forse in modo più sintomatico, in quelli mediocri. Per spiegarmi con un esempio, immaginerò di aver domandato ad uno di quei ragazzi, non tanto ben preparato, le leggi della rifrazione. Egli comincerà col disegnare una vaschetta d’acqua, una lampadina, un raggio incidente e uno rifratto, e poi forse annasperà per ricordare come si fa a calcolare la direzione di questo, data quella del raggio incidente, magari senza riuscirvi. A me sembra che sia sempre meglio che scrivere sin i = n sin r, senza avere una chiara idea del fenomeno a cui questa formula si riferisce: comunque, ciò prova che non è più difficile capire il fenomeno che ricordare la formula. Si potrà obiettare che, nonostante la mancanza di concretezza così diffusa nelle nostre scuole, l’Italia ha prodotto e produce eccellenti fisici sia teorici che sperimentali (sempre però pochi in rapporto alla popolazione e alle necessità attuali). Ma il nostro discorso non si riferisce alle minoranze che, per particolari attitudini o per favorevoli circostanze d’ambiente, riescono a farsi una solida ed equilibrata mentalità e cultura fisica. Si riferisce invece alla media degli studenti, alla gran massa da cui il Paese deve trarre i suoi ingegneri, i suoi professori, i fisici dei suoi laboratori industriali che occorreranno in numero sempre maggiore nei prossimi anni. Si riferisce anche, e soprattutto, a coloro che uscendo dal Liceo non si iscrivono nella Facoltà di Scienze, ma diverranno avvocati o giornalisti o uomini politici, e non avranno mai più occasione di sentirsi spiegare che cosa è la Fisica. Essi formeranno la classe dirigente di un mondo sempre più dominato dalle applicazioni della Fisica, ma conserveranno di questa scienza una idea stramba e nebulosa, non disgiunta da una certa avversione, spesso vantata con aria di superiorità. Quali sono le cause dello strano atteggiamento di tanti nostri studenti nei riguardi della Fisica? Alcune spiegazioni vengono subito in mente, ma vorremmo che voi, lettori che avete quotidiana esperienza dell’insegnamento, e specialmente di quello secondario, ci aiutaste a individuarle e discuterle. È colpa dei programmi e del famoso abbinamento? O dipende dal fatto che la matematica accompagna il ragazzo ininterrottamente dalle elementari alla Università, mentre, dopo le elementari, non si parla più di fatti fisici fino agli ultimi due anni di Liceo? E colpa degli insegnanti? O degli insegnanti degli insegnanti? Queste e tante altre possono essere le ragioni, e vorremmo che voi ci scriveste il vostro pensiero in proposito. Diteci, per favore, che cos’è che non va? *Emilio Segré, Enrico Persico e Enrico Fermi sulla spiaggia di Ostia nel 1927 |
Gentilissimo professore, buonasera e ancora buon anno. Vedo che il nostro scambio di pensieri sulle condizioni dell’insegnamento delle materie scientifiche, e in particolare di quello della fisica, nelle nostre scuole superiori e nelle nostre università ha lasciato in lei delle tracce! Ho letto con piacere le sue considerazioni e rilettto con altrettanto piacere l’articolo del professor Persico, che, come le ho scritto in precedenza, ho ritenuto utile inviare ad alcuni giovani rappresentanti degli studenti in seno al Consiglio di Istituto dell’Istituto Superiore Angioy di Carbonia.
Come lei ben sa la mia associazione si è fatta promotrice del progetto “Idee per la cultura e per la scienza”, che ha l’onore di avvalersi anche della sua prestigiosa collaborazione, per una conferenza in programma all’Istituto Superiore Amaldi per il 15 gennaio.
Io ritenevo, in perfetta buona fede, che un progetto del genere avrebbe suscitato l’interesse di tutti gli Istituti Superiori del nostro territorio, ma non avrei potuto immaginare niente di più sbagliato.
Le nostre scuole non dispongono di fondi per attività extracurricolari, ma purtroppo non sono disponibili a inserire nel loro POF nemmeno attività che vengono generosamente proposte in modo assolutamente gratuito.
L’obiettivo prioritario è per ciascuno dei docenti lo svolgimento del programma e tutto ciò che interferisce o potrebbe minacciare di interferire con questo programma, e sottrarre quindi tempo prezioso alla didattica, tutto ciò è visto con sospetto e giudicato aprioristicamente superfluo.
La scuola soffre ancora. e sempre peggio, del vizio antico di non voler nè provvedere in proprio a verificare l’efficacia del proprio metodo di lavoro, nè accettare che siano altri a farlo.
La scuola, e quella superiore in particolare, non ha minimamente la capacità di mettere in dubbio la validità reale della preparazione che viene fatta acquisire agli studenti. Si dà per scontato che dopo aver seguito diligentemente il proprio corso di studi, ciascuno studente sia per ciò stesso in grado di affrontare gli studi universitari disponendo in modo completo di tutti gli strumenti necessari e indispensabili.
E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Dice bene. Certo i nostri giovani sono molto apprezzati all’estero. Ma quanti sono quelli che riescono a emergere? Perchè non si prova a quantificarli e a fare le debite proporzioni, tenendo adeguatamente conto di quelli che si sono persi per strada senza concludere gli studi, e di quelli che pur avendo terminato il loro corso di studi senza infamia e senza lode faticheranno comunque a trovarsi una sistemazione appropriata?
Anche un mio nipote, laureato a Cagliari in chimica, ha girato mezzo mondo partecipando ai più svariati progetti di ricerca e ora lavora in Francia all’Università di Rennes. Anche il dottor Andrea Mameli ha scritto un libro sui “Cervelli in fuga”, dove si parla di sardi che si sono fatti onore nel mondo. D’accordo. Ma di quanti laureati stiamo parlando in rapporto alla massa che rimane a vivacchiare nel più assoluto anonimato?
Le cose che non vanno sono tante. Troppe.
Un caro saluto, caro professore e a presto.
Nino Dejosso.
Le colpe sono distribuite in più ambiti, è un sistema sociale che porta a questo..
http://www.webalice.it/crapellavittorio/pensieri_parole.html#frulla
Quando lo studente è immerso in un bombardamento di imput consumistici vive lo studio fine a se stesso e pensa poco ai fenomeni fisici legati ai prodotti tecnologici di cui è circondato ma diventa un bravo utilizzatore e consumatore come le regole di un commercio sfrenato impongono. Anche le realtà scolastiche a partire dai programmi fanno la loro parte. A chiacchiere è più facile e si riesce a spiegare tutto anche quelle cose che messe in pratica sperimentalmente hanno bisogno di materiali, strumenti e manualità e non sempre funzionano al primo colpo con matematica certezza come vorrebbe la formula.
Nel 2006, sull’argomento scuola, scrivevo:
http://digilander.libero.it/i2viu/penso.html