Quei 57 giorni tra Falcone e Borsellino che cambiarono una generazione [di Nicola Lagioia]
Internazionale 23 maggio 2015. Per gli sguardi consapevoli, la morte di Giovanni Falcone fu l’ennesimo capitolo del romanzo delle stragi. Uno dei più dolorosi, eppure scritto nello stile (inchiostro simpatico compreso) che caratterizza altri disastri nazionali. I distratti quel giorno caddero dalle nuvole. I volenterosi carnefici della repubblica cominciarono a insabbiare. Le prefiche in gessato strepitarono per coprire certi rivelatori rumori di fondo. I veri uomini di stato cercarono al contrario di arrestare disperatamente una macchina narrativa ormai più grande di loro. Gli altri adulti responsabili presero atto con contrizione di ciò che, a saper leggere i segnali, era nell’aria già da mesi. Ma per la generazione che nel 1992 si affacciava alla vita, nei cinquantasette giorni che separarono Capaci da via D’Amelio si consumò la fiducia nelle istituzioni che la scuola, la televisione – e per i più fortunati la famiglia – avevano provato a inculcare in chi, da lì a poco, avrebbe cominciato a scorticarsi le nocche bussando alla porta dell’età adulta. All’epoca avevo diciannove anni. “Lo stato si è estinto”, titolava un numero del Male nel 1978. In Italia lo stato esiste quando esiste. È una luminaria a corrente alternata. Una commedia teatrale in cui certi personaggi, per rimanere se stessi, sono costretti a saltare da un ruolo all’altro di continuo. Tutto ciò è faticoso. I cambi di costume sono frequenti e concitati, le maestranze non sempre tengono il passo, e certi attori rischiano di essere sorpresi nella loro nudità di carni in movimento. Tra il 23 maggio e il 19 luglio del 1992, in Italia il cambio di scena si consumò a sipario spalancato. Il che fu orribile, perché la flaccida e sconcia debolezza di ciò che avrebbe dovuto rappresentarci fu sotto gli occhi di tutti. Non bisogna smettere di ricordare che Falcone e Borsellino diventarono eroi nazionali soltanto dopo la loro morte. Prima, erano stati continuo oggetto di veleni, sospetti, maldicenze che, tutte insieme, rafforzarono l’intreccio che portò alla loro fine. Vennero accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello stato. Quando, il 21 giugno del 1989 (il cosiddetto attentato dell’Addaura) la polizia ritrovò 58 cartucce di esplosivo in un borsone lasciato nella spiaggetta antistante la villa che Falcone aveva preso in affitto, ci fu chi disse che l’attentato il magistrato se lo era organizzato da solo per farsi pubblicità. Molti ricordano la puntata del Maurizio Costanzo Show (gemellata per l’occasione con Samarcanda di Michele Santoro) in cui, alla presenza di Giovanni Falcone, un giovane Totò Cuffaro inveì scompostamente sostenendo che i discorsi sulla mafia che si stavano facendo quella sera erano lesivi della dignità della Sicilia: “C’è in atto una volgare aggressione alla classe dirigente migliore che abbia la Democrazia Cristiana in Sicilia! L’avete costruita sapientemente!”, sbraitò. Non accusava in via diretta Falcone, ma la cattiva rifrittura del discorso sui “professionisti dell’antimafia” era lampante. Meno ricordata è un’intervista di Corrado Augias a Falcone nel corso della trasmissione Babele, nel 1992, pochi mesi prima della morte del magistrato. A un certo punto, una delle ospiti in studio ritiene di poter chiedere candidamente al magistrato: “Lei dice che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei è fortunatamente ancora tra noi, chi la protegge?” E Falcone, sconsolato: “Questo significa che per essere credibili bisogna essere ammazzati, in questo paese?”. Ci fu l’articolo di Sandro Viola sulla Repubblica del 9 gennaio del 1992: Da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone con il rispetto che s’era guadagnato. Egli è stato preso infatti da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare che oggi sembra il più indecente dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi che divora tanti personaggi della vita nazionale (…) spingendoli a gareggiare con i comici del sabato sera. Sono alcuni tra i tanti esempi che si possono fare, e non sono garanzia di malafede, ma del clima che si respirava allora. Soltanto all’indomani del 23 maggio si cominciarono a leggere sotto una luce completamente diversa gli snodi narrativi che portavano a Capaci. Apparve incredibile ciò che fino al giorno prima era stato per molti normale. Per esempio, la mancata nomina di Falcone, dopo le dimissioni di Antonino Caponnetto, a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Il consiglio superiore della magistratura gli preferì Antonino Meli. Il che era legittimo. Ma sconcertante non con il senno del poi, ma già con quello che avrebbe dovuto guardare ai risultati del maxiprocesso. Il passato, che il 23 maggio assunse all’improvviso le dimensioni dell’assurdo, non fu sufficiente (ancora una volta!) per leggere il presente, giorno per giorno – da fine maggio a giugno, da lì ai primi di luglio – fino alla strage di via D’Amelio. Dall’assurdo all’osceno. Se la morte di Falcone fu la cartina di tornasole per i dieci anni precedenti, quella di Paolo Borsellino fu in un certo senso ancora peggio: una tragedia annunciata con chiarezza abbacinante. Il giorno di Capaci rimanemmo scioccati. Ma il 19 luglio smettemo in maniera legittima di credere nello stato. In quei 57 giorni Borsellino fu un dead man walking, e lo fu pubblicamente, alla luce del sole, in modo orrendo. “Borsellino sapeva di essere ormai nel mirino”, disse Antonino Caponnetto in un’intervista con Gianni Minà nel 1996, “soprattutto lo seppe negli ultimi giorni prima della sua morte. Il giovedì ebbe la comunicazione indubitabile… la certezza assoluta che il tritolo per lui era già arrivato a Palermo. Per prima cosa si attaccò al telefono, chiamò il suo confessore. Disse: puoi farmi la cortesia di venire subito? E appena quello lo raggiunse nel suo studio, disse: senti, per cortesia, confessami e impartiscimi la comunione”. Alla domanda di Minà: “Non si poteva fare niente per evitare la sua morte?”, Caponnetto rispose: “Qualcosa si poteva fare. Qualcosa che Paolo aveva chiesto già da venti giorni alla questura. Una domanda rimasta inevasa: disporre la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante l’abitazione della madre. Io tutt’oggi sono incredulo su questo fatto. E tutt’oggi aspetto di sapere chi era il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si è proceduto nei suoi confronti disciplinarmente. Io spero di riuscire a saperlo prima di chiudere gli occhi”. La domenica della sua morte (disse ancora Caponnetto in quell’intervista), Paolo Borsellino ricevette in mattinata una telefonata dal procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco: “Credo che gli comunicasse che aveva deciso finalmente di accogliere la sua richiesta di avere la delega per altre procure della repubblica. Insisteva da tanto tempo con Giammanco senza riuscire a ottenere la delega per indagare su fatti criminosi verificatisi anche in altre circoscrizioni. La decisione gli parve molto strana. La commentò in casa dicendo: ma guarda che strano, proprio di domenica mattina si sveglia all’improvviso e mi viene a fare questa comunicazione…”. Io sto con Piero Gobetti. Credo sia sempre l’autobiografia della nazione. Gobetti lo diceva riferendosi al fascismo. Ma io ritengo valga anche per la mafia. Non voglio dire che abbiamo tutti una mentalità mafiosa. Ma tutti, prima o poi, ci ritroviamo al centro o (molto più spesso) ai margini di narrazioni fatte di snodi che il senso comune porta a interpretare in maniera dissennata. Non di rado in Italia il senso comune è prodotto dalla combinazione di bassi istinti, emotività sfrenata e convenienza personale. La capacità analitica ci fa difetto, l’illuminismo non ci appartiene mai abbastanza, e una parte della passione con cui abbiamo trasformato Falcone e Borsellino in due santi assoluti potrebbe essere fatta della stessa sostanza che ci portò a diffidare di loro mentre erano in vita. Inutile, il sospetto che qualche contemporaneo sia migliore di noi ci annebbia la vista, ci rovina il sonno. Il presente ci appare sempre più povero di ciò che è. Assurdamente, temiamo che gli uomini di grande valore, per il semplice fatto di essere tra noi, ci tolgano spazio vitale. Ecco perché siamo un paese di eroi postumi. In vita preferiamo i falsi profeti: la loro mediocrità e doppiezza ci rassicura. A questo si aggiunge l’antico amore per il particulare. Lasciamo che siano circondati di un’aura sospetta eventi e situazioni che più lucidità e coraggio farebbero leggere in modo diverso. Come fu possibile sbagliarsi così tanto su Falcone e Borsellino mentre erano vivi? La colpa più diffusa non sta nel violare la legge. La colpa se si vuole ancora più grave (perché priva di sanzione) in questi casi si consuma quando, senza bisogno di forzare alcuna norma, lasciamo che si interpreti un fatto, o un insieme di fatti, alla maniera che (ci fanno capire, quando non lo capiamo benissimo da soli) risulta per noi più conveniente. Iniziamo ad accalorarci per le cause sbagliate. A una certa temperatura certi confini si fanno meno chiari, e così, persino senza bisogno di averne piena consapevolezza, ci troviamo a scambiare la passione per noi stessi col sacro fuoco della verità. Fino a quando queste passioni tristi prevarranno sulla ragione hp?wp-post-new-reload=true *Scrittore |