“Il Tar è una garanzia certe sentenze sono colpa dei politici” [di Liana Milella]
la Repubblica, 31 maggio 2017. «La politica deve occuparsi degli indirizzi generali del Paese e i giudici, quando sono chiamati in causa, devono vegliare che le politiche pubbliche siano attuate nel rispetto di tutti i cittadini». Tono e linguaggio soft, ma il presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno, a una settimana dall’affaire dei direttori dei musei, pianta molti paletti. Renzi ha detto di aver sbagliato a non riformare i Tar. Era una pressione? «La questione di fondo non riguarda solo i tribunali amministrativi, ma la tutela giurisdizionale nei confronti dell’esercizio del potere pubblico. Ammettiamo per un momento che i Tar potessero essere aboliti con un tratto di penna, e non consideriamo che dovremmo cambiare la Costituzione, e forse anche le norme della Carta dei diritti dell’uomo e della Convenzione europea. Se i Tar fossero aboliti dovrebbe necessariamente esserci un altro giudice che esercita il controllo esercitato prima dai tribunali amministrativi». E quindi? «Questo giudice potrebbe essere quello civile, il quale provvederebbe con i suoi modi e i suoi tempi di intervento. Giusto per citare un episodio di questi giorni il giudice del lavoro di Firenze ha sospeso il concorso per l’assunzione di 800 assistenti giudiziari, un concorso con 300mila domande, perché ha ritenuto discriminatoria la clausola di cittadinanza contenuta nel bando». Repubblica, in un’inchiesta tra Affari e Finanze, parla di «gigantesco labirinto di sospensioni e annullamenti». «Credo che la giustizia amministrativa non si riconosca in queste parole. Non siamo “i giudici del no”. Sono tanti i casi di rigetto delle domande di sospensione di opere o investimenti pubblici. Vogliamo che le riforme trovino piena attuazione nel rispetto dei diritti dei cittadini. Questo vale anche per l’attività consultiva: i pareri del Consiglio di stato mirano ad attuare le riforme eliminando i possibili contrasti con le leggi e con i principi costituzionali. Possono esserci sentenze discutibili, come talvolta accade. Ed è per questo che esiste l’appello». Vede un’insofferenza della politica verso i controlli? «Osservo che talvolta si confonde il medico con la malattia. Si pensa che sia meglio intervenire sulla giustizia amministrativa, mentre la malattia sta soprattutto nella complicazione delle leggi, nella loro farraginosità, nella mancanza di qualità dell’amministrazione e talvolta nella difficoltà delle imprese ad accettare le regole di concorrenza negli appalti. Queste sono le vere patologie che andrebbero curate a monte». Le leggi sono fatte male e la politica se la prenda coi giudici quando passano i ricorsi? «Certamente non tutte le leggi sono ben fatte e lo ricorda anche Repubblica quando richiama i cambiamenti continui di quelle sugli appalti. C’è un problema di chiarezza, ma anche delle scelte di indirizzo generale che deve fare la politica. Il giudice amministrativo si occupa solo di atti e di provvedimenti. Che talvolta riguardano l’attuazione di scelte politiche. Il rischio è che il dibattito sulla giurisdizione sia la prosecuzione del dibattito politico, per cui ognuno richiama la propria posizione e non si esamina più la sentenza, bensì la scelta politica a monte. È successo per i musei, ma anche per gli appalti. Ci possono essere illegittimità, il che non significa che si neghi la necessità delle infrastrutture, ma solo che i diritti devono andare d’accordo con le procedure». Sì, ma attenzione al “formalismo giuridico”e al “bizantinismo”. Per citare la battuta di Cottarelli “non si può morire di diritto amministrativo”. «Non si muore di diritto amministrativo, si muore di bizantinismo. Bisanzio può riguardare sia la legge che le sentenze di qualsiasi giudice ordinario, amministrativo, contabile, il rischio c’è sempre. Il diritto amministrativo assicura di poter realizzare grandi servizi pubblici, interventi per sanità, istruzione e accoglienza, senza che i diritti dei cittadini restino sulla carta». Le inchieste giudiziarie non rivelano una colpevole disinvoltura nei comportamenti di alcuni giudici? «Il dovere di tutti è difendere le istituzioni, che si difendono anche facendo in modo che le inchieste abbiano il loro corso, vadano in fondo e lo facciano velocemente. Però bisogna evitare di mettere sotto processo le intere istituzioni accanto ai singoli casi. C’è bisogno di una riforma disciplinare, e lo dico da molto tempo. Ne vorremmo una più semplice, più efficace e norme che tipizzino gli illeciti. Comunque, non appena gli uffici inquirenti ci trasmetteranno le informazioni non coperte da segreto istruttorio eserciteremo l’azione disciplinare».
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