Appunti per discutere sul DDL 409 (21 marzo 2017) della Regione Sardegna Disciplina generale per il governo del territorio [ di Pasquale Mistretta, Sonia Pintus, Ginevra Balletto, Chiara Garau]
SardegnaSoprattutto continua la sua azione di riflessione sulla cosiddetta Legge Urbanistica licenziata dalla giunta Pigliaru il 21 marzo 2017. L’obiettivo di quanti animano questo sito è che il Disegno di legge venga revocato in quanto è, a detta di tanti, inemendabile. Fin qui sono intervenuti i maggiori esperti sardi in materia paesaggistica ed urbanistica e le sigle più importanti del mondo ambientalistico: FAI, Italia Nostra, Gruppo di Intervento giuridico, WWF. Ospitiamo stavolta volentieri il contributo di Pasquale Mistretta, già Rettore dell’Università di Cagliari, e di una serie di Docenti tuttora operativi (mam per la Redazione). Indice: Introduzione 1 Il Titolo del disegno di Legge 3 PARTE PRIMA _ La politica di Piano 3 Capitolo 1. Il quadro di riferimento e la visione integrata 3 1.1 Le città e la fascia costiera 5 1.2 Le zone interne 5 Capitolo 2. Il Piano Regionale di Sviluppo (PRS) 6 2.1. I fattori strutturali 6 2.2 Il progetto urbanistico 7 Capitolo 3. I fattori demografici e i fabbisogni insediativi (Art. 89) 9 PARTE SECONDA – Gli strumenti di pianificazione e gli ambiti di intervento 10 Capitolo 4. Il contesto territoriale 10 4.1 Il Piano Paesaggistico Regionale 10 4.2 La pianificazione a scala locale 10 4.2.1 PUC 11 4.2.2 Piani Attuativi 12 4.2.3 VAS (Art. 58) 12 4.2.4 Proposta per Comuni al di sotto dei 1000 abitanti 13 4. 3. La Città metropolitana di Cagliari (Art.5) 15 Capitolo 5. Gli ambiti di intervento 16 5.1 Turistico – ricettivi 16 5.2 Rurali 16 5.3 Nuova urbanizzazione 18 5.4 Servizi di uso collettivo 18 Capitolo 6. Rapporti con il privato – Accordi di programma 19 Capitolo 7. Controllo amministrativo e atti sostitutivi degli Uffici RAS 19 RIEPILOGO 20 Introduzione- Dopo l’approvazione del Piano Paesaggistico Regionale (2006) la Regione Sardegna intende affrontare la regolamentazione urbanistica del territorio attraverso un percorso di consultazioni e di confronto con tutti i soggetti direttamente o indirettamente interessati (Enti Locali, organizzazione categoriali di impresa, organizzazioni sindacali, associazioni di salvaguardia ambientale e enti culturali per mettere ordine ad una materia che è stata più volte “manipolata” con scarsi risultati). Operazione meritoria, almeno a prima vista, per due motivi: il primo perché si mette in atto responsabilmente un processo di monitoraggio, per un riscontro degli effetti prodotti dai diversi strumenti urbanistici e dal Piano Paesaggistico, che consentirebbe di dare senso, anche pratico, al metodo della pianificazione continua, attraverso un “ciclo operativo” (come indicato nell’ Art. 18 del DDL che recita: la pianificazione territoriale e urbanistica è un processo ciclico e continuativo). Il secondo perché, riaprendo i documenti cartografici e normativi, peraltro non da tutti condivisibili, si intende prospettare un modello interpretativo sull’uso del territorio (fermi restando gli obiettivi e i contenuti del PPR) attraverso una sintesi di ampio consenso delle popolazioni. Esiste però un terzo motivo (che non condividiamo) perché il DDL prospetta una ridefinizione della competenza della gerarchia amministrativa per il controllo del territorio che di fatto “esautora” la politica regionale e soprattutto quella degli Enti Locali attraverso una esasperata burocratizzazione dei procedimenti di pianificazione. Questa linea comportamentale, che delega a soggetti non elettivi (uffici degli assessorati, enti ministeriali e territoriali con amministratori unici etc.) con poteri non controllabili, le attività che la Costituzione e lo Statuto Regionale attribuiscono ai Sindaci, sembra studiata per rafforzare una concezione centralistica del governo del territorio con la scusa di “proteggere” lo stesso dalle incursioni della speculazione sfrenata, soprattutto quando la “politica” non è in grado di farlo. Dietro questi “sani intendimenti” il DDL sottrae agli organi elettivi, con norme generali derogatorie e senza limiti di tempo, molte attività in materia di urbanistica e di gestione del territorio. Inoltre, attraverso la Conferenza di copianificazione (Art. 10) dà la possibilità agli uffici preposti di “condizionare” gli indirizzi di piano assunti dai Consigli Comunali. In ogni caso bisogna prendere atto che l’urbanistica, come disciplina di programmazione e di futuri assetti di un territorio, mai come ora, si è trovata a disagio nell’interpretare i contesti di riferimento a causa dell’evoluzione sempre più rapida della società con i fermenti politici internazionali e le “guerre di posizione” per il controllo delle risorse nel mondo. In Italia questi fattori di cambiamento destano incertezza, non solo per la problematicità delle grandi scelte sul territorio nazionale condizionate dalla dinamica finanziaria e da eventi imprevedibili, ma in particolare a causa della esasperata litigiosità delle forze politiche che, anche a livello regionale, rallenta e porta ad annullare molti atti di programmazione finalizzati a migliorare gli assetti strutturali ed infrastrutturali delle diverse parti del Paese. In questo contesto estremamente complesso, si tende a sottovalutare la centralità del cittadino nel suo territorio di residenza e dei suoi problemi, ancorché sul rapporto tra i fattori demografici e lo stato di benessere delle popolazioni si misuri il livello di sviluppo in ogni parte del mondo. Potremmo dire che è ancor più difficile costruire progetti condivisibili dall’alto, con riferimento agli organismi di governo del territorio, e dal basso, coinvolgendo le collettività insediate, perché ormai da tempo è in atto un processo di revisione delle regole istituzionali che guardano ai poteri, piuttosto che alle politiche, per efficaci formule di governance territoriale organizzate in modo democratico dentro il sistema Regione, Province e Comuni. È da auspicare, una nuova visione correlata delle città e delle campagne che rendano quanto mai stringente una interazione semplificata tra gli strumenti di pianificazione e le strutture di government per rendere più concreto il consenso delle popolazioni interessate. Occorre essere ottimisti per credere che la ricerca di nuovi strumenti di elaborazione e di confronto della materia con le altre discipline che studiano le problematiche territoriali, possa determinare nuovi interessi culturali ed operativi per aprire altri spazi, indubbiamente stimolanti, sia dal punto di vista scientifico, sia formativo che professionale. Tuttavia, non è sufficiente contare sul “ciclo operativo” per modificare in modo univoco la realtà di studio in quanto essa sente l’influenza dei fattori mobili e dei loro rapporti con i fattori compositi di scala locale, regionale e nazionale. In questo quadro è particolarmente delicato perché incide sulla libertà urbanistica e sulla libertà dello spazio che la società moderna, con il diritto di interloquire nella modificazione della realtà, contestualizza per indirizzare le scelte politiche. Per concludere questa introduzione, vale la pena di ricordare che in Sardegna, nei settant’anni di autonomia statutaria, non sono mancati i provvedimenti sull’uso del territorio, con particolare riferimento alle destinazioni d’uso e alle normative di intervento (come pure i complessi dibattiti circa la forma-dimensione geografica ottimale del governo del territorio: comunità montane, comprensori, super zone di gravitazione). Alcuni di questi hanno avuto risalto oltre i confini isolani per l’intelligente valutazione dei contesti territoriali e per i principi di salvaguardia dell’ambiente e dei paesaggi. Una competenza primaria della Regione Sardegna, quella dell’urbanistica, che ha consentito di svolgere la mediazione per lo sviluppo sociale ed economico tra i fattori culturali ed identitari degli habitat e i fattori tipici degli insediamenti industriali. Inoltre, ha consentito di contenere entro i limiti possibili l’edificazione lungo le coste di seconde case, dapprima con gli standard urbanistici poi con il vigente PPR. * * * Il Titolo del disegno di Legge Il titolo del disegno di legge: “disciplina generale per il governo del territorio” secondo noi è da modificare per mettere in evidenza prima delle azioni di governance, il contesto territoriale sul quale dovrà agire la stessa governance. Infatti, senza una definizione delle diverse realtà territoriali, con le dotazioni e le sofferenze ambientali sociali ed economiche, non si può “progettare” una Urbanistica coerente e chiara negli obiettivi da raggiungere, in tempi e fasi da definire. In sintesi, la tecnica urbanistica non è praticabile senza una politica urbanistica. Solo dopo questo importante momento di progettualità finalizzata allo sviluppo e alla crescita del territorio nelle sue articolazioni, si può avviare, e dunque regolamentare l’attività di governo del territorio con gli strumenti giuridici (leggi, decreti attuativi, linee di indirizzo della giunta regionale, etc.) e le risorse finanziarie. Tali strumenti sono determinanti per definire il portafoglio di garanzia progettuale, nell’ambito di un “progetto urbanistico” da condividere con le realtà locali. Per aprire una discussione sul DDL, riteniamo utile soffermare l’attenzione sui temi più significativi e delicati trattati nei diversi articoli, che raggruppiamo per argomenti chiave, anche se alcuni sono citati più volte, per dare compiutezza alla discussione avviata. PARTE PRIMA _ La politica di Piano Capitolo 1. Il quadro di riferimento e la visione integrata La storia degli ultimi settant’anni è di segno positivo per la crescita socioeconomica e culturale dell’Isola, attraverso la quale è possibile cogliere cambiamenti strutturali rilevanti e buone prospettive di ulteriore crescita. Purtroppo la realtà attuale presenta segni contrari e, per molti aspetti, irreversibili in quanto la contrazione demografica prevista per tutta la popolazione dell’Isola costituisce un indicatore pregiudiziale di cui la pianificazione regionale non può sottovalutare gli effetti di medio periodo. I segni sono già molto evidenti nel “disarmo” territoriale delle zone interne e nel grande esodo dei giovani dai paesi della montagna che stanno “pesando” in modo consistente sulla dotazione dei servizi di scala urbana e d’ambito (scolastici, sanitari, giudiziari, amministrativi) giustificati da una spending review, che non tiene conto della diversificazione degli habitat e della bassa densità di popolazione nel territorio e delle impedenze geografiche che si ripercuotono sulla rete di comunicazione. Quindi, tutta la normativa che riguarda la pianificazione a scala locale (Art. 46) e i fabbisogni quantitativi (Art. 89) vanno rivisti e resi compatibili con “cosa vogliamo dietro l’angolo” per ogni Comune e per ogni area di aggregazione economica. Una politica di programmazione che ha anche il compito di “guardare nella palla di vetro del futuro”, deve prendere in considerazione l’evolversi della società nel medio e nel lungo periodo per anticipare, se possibile gli eventi, piuttosto che inseguirli con sofferenza. Infatti, occorre fare chiarezza almeno su alcuni punti: il primo, in che misura la Sardegna può essere autosufficiente, in sé e come interlocutrice internazionale; il secondo, in che misura i fattori di identità antropologici e culturali possano dialogare con le pressioni della globalizzazione; il terzo, con quali iniziative e strategie si possono affrontare i mercati esterni. Queste riflessioni di politica economica sono necessarie per capire con quale modello di sviluppo si possono affrontare le crescenti difficoltà insite nella dimensione, nella densità della popolazione e nella morfologia dei contesti. Il DDL in esame si aggancia prevalentemente alle invarianti storiche e, per effetto della carenza di indirizzi strategici ed allo stesso tempo per effetto della fitta maglia di procedure, limita la creatività nelle scelte fino a livello comunale. Infatti, gli indirizzi strategici scalari, dal livello nazionale a quello regionale, costituiscono i presupposti della progettualità riferita allo sviluppo ed alla crescita, in coerenza con le importanti invarianti ambientali che in particolare caratterizzano lo scenario sardo. Un contributo sostanziale viene dalla programmazione europea, sostenuta da importanti dotazioni finanziarie, che la Sardegna utilizza soprattutto per il sistema infrastrutturale e per azioni finalizzate all’agricoltura, alla formazione e alla ricerca. Tra le strategie che perseguono un riequilibrio numerico, di composizione della popolazione, nonché di riduzione di dipendenza da terzi, assume una dimensione determinante l’approvvigionamento energetico, che alcuni sostengono possa costituire il primo focus sul quale ragionare per una nuova idea di Sardegna. Gli strumenti per la pianificazione del territorio sono una conseguenza insieme ai tempi e le procedure d’intervento, che per i “vantaggi” dell’ insularità meritano una particolare attenzione. Sussiste dunque l’esigenza di affrontare i problemi con una visione strategica e integrata, che consenta di perseguire obiettivi di sviluppo mirati e nello specifico, di ruolo e di funzione; obiettivi di dimensione insediativa con il supporto infrastrutturale e dei servizi, obiettivi di assetto territoriale e di interazione con le aree di frangia, obiettivi di architettura di paesaggio e di salvaguardia del patrimonio ambientale e storico-culturale. Ciò implica di procedere con azioni propulsive e non come siamo abituati, con interventi di assestamento, che possano dare risposta alle mutevoli esigenze della società e del territorio vissuto. Perciò senza una programmazione dei ruoli, che le diverse realtà dell’Isola possono svolgere nella politica di sviluppo assunta dalla Regione per bilanciare gli effetti attrattivi delle città e conseguentemente il peso delle infrastrutture puntuali, non si può adottare una normativa di governo del territorio burocraticamente uguale per tutti, mimetizzata dai diversi indici di fabbricazione territoriale e da diversi standard di servizi (Allegato A – parametri urbanistico-edilizi). Anzi, potrebbe essere necessario utilizzare questi indicatori parametrici in senso inverso per incentivare le potenzialità edificatorie e dei Centri più deboli rispetto a quelli più forti e per invogliare molti operatori ad investire, scommettendo, sulle zone e sui centri che oggi sono senza alcuna prospettiva. Anche su questo punto non si può simulare un interesse politico, promettendo masterplan e risorse finanziarie difficilmente spendibili senza una visione di insieme supportata da idee-progetto coerenti con gli strumenti della pianificazione. 1.1 Le città e la fascia costiera La dimensione delle città in Sardegna è condizionata dalla dimensione demografica complessiva regionale, tanto che si considerano città quelle che in altri contesti sarebbero invece chiamati suburbi. Nel recente passato le principali città di Cagliari, Sassari, Olbia, Quartu S. Elena, Nuoro e Oristano hanno contribuito ad accentuare i vuoti delle zone interne e contestualmente si sono configurate in cluster di comuni per garantire massa critica. I più significativi sono quello di Cagliari e di Olbia. Dove Cagliari (indipendentemente dai 17 comuni della città metropolitana) assume una dimensione lineare costiera che va da Sarroch al Margine Rosso di Quartu S. Elena; mentre Olbia condivide il fronte mare da San Teodoro, Golfo Aranci e Arzachena, caratterizzati dal susseguirsi degli insediamenti turistici, da quelli sparsi e diffusi delle seconde case a quelli concentrati delle strutture ricettive. Ciò accade anche per gli insediamenti industriali, anch’essi sempre in continuità con la linearità urbana costiera. Tanto più perché lo sviluppo del sistema lineare lungo le coste, e fuori dagli insediamenti storici e tradizionali, è la causa prima del disastro delle zone interne poiché, non avendo consentito alcuna forma di integrazione tra i sistemi di produzione territoriali e i sistemi culturali ha, nei fatti, escluso decisioni coerenti con i propri valori, finalizzate ad obiettivi strategici di lungo periodo. La sequenza di funzioni urbane disposte lungo la costa rappresenta lo scenario ricorrente in tutta l’Italia. Le motivazioni sono tante ed anche interrelate; certo è che il DDL della Regione, decantato come innovativo perché vorrebbe spalmare le azioni nei 377 comuni della Sardegna, di fatto, senza riconoscere i diversi scenari che concorrono a definire l’insieme, dimostra di cambiare quasi niente rispetto all’attuale e complesso disposto normativo, e tra l’altro, sottovalutando l’incidenza delle seconde case non più competitive per il turismo. 1.2 Le zone interne Sono una realtà insediativa molto particolare che nei decenni trascorsi ha sofferto una contrazione demografica soprattutto in danno dei paesi più piccoli e lontani dagli effetti prodotti dalle città del nord e del sud della regione. Sotto questo aspetto, poiché il livello di criticità insediativa è preoccupante si pone il problema del cosa fare: prima di tutto intervenire sui fattori economici per contrastare l’esodo continuo delle nuove generazioni; e non secondariamente, sull’“appetibilità” dei luoghi che si percepisce attraverso le strade, le case, gli arredi, la campagna circostante. Per questo motivo la Sardegna avrebbe bisogno di strumenti di pianificazione misurati per cogliere, non soltanto le diversità strutturali e morfologiche degli insediamenti e delle possibili mutazioni, ma soprattutto le differenze di prospettiva sociale ed economica nel sistema regionale, che ogni singola entità vuole rappresentare per mantenere il grado di libertà gestionale dei propri ambiti. Se si tiene conto di questa importante valutazione che si traduce in “senso di appartenenza” delle popolazioni ai propri Comuni, si può dedurre che qualsiasi ipotesi di “fusione” (pur giustificabile dall’economia di scala) diventi improponibile. Ciò non esclude che la Regione debba garantire un livello di coordinamento sovraordinato per accreditare le diverse proposte progettuali, singole e di gruppo, con i successivi processi attuativi, per realizzare modelli di comportamento e di governance più aperti e collaborativi oltre i confini amministrativi delle Unioni di Comuni già formalizzate. In questo quadro è diseconomico trattare il territorio per suscettività produttiva, riferita alla fascia dei litorali, ai parchi e alle riserve naturali, alle fasce di rispetto dei corpi idrici, alle aree industriali, agli ambiti rurali e ovviamente ai centri abitati. Sarebbe invece opportuno tenere conto delle connessioni in atto e da incentivare tra la linea costiera, i parchi, le colture agricole e i centri abitati per una integrazione dei fattori produttivi che possono esprimere più soggetti amministrativi (autonomie locali) in forma consortile o di Unione di Comuni rafforzati da concretezze progettuali e gestionali. Capitolo 2. Il Piano Regionale di Sviluppo (PRS) 2.1. I fattori strutturali Nel quadro delineato, non bisogna sottovalutare l’influenza che esercitano sul modello di sviluppo alcuni fattori strutturali e storici: la geografia dei luoghi, la diversità degli habitat, in merito alla ridefinizione finalizzata degli assetti provinciali e territoriali. Perciò, dietro le verità, peraltro inconsce, sulle impedenze fisiche, strutturali e infrastrutturali che condizionano il sistema dell’intera regione e delle quattro province, il Piano Regionale di Sviluppo (PRS) (Artt. 5 e 35) dovrebbe rappresentare la politica degli investimenti e delle azioni per raggiungere obiettivi possibili, indicando cartograficamente gli effetti indotti dalle diverse opzioni. Perciò non bisogna assecondare progetti illusori, oppure credere che la delega ai Comuni, di fare proiezioni di medio termine sul proprio territorio, sia sufficiente per incidere sui problemi che la politica regionale non vuole o non sa affrontare. Inoltre, il PRS, chiamato ad indicare linee di indirizzo di medio e di lungo periodo, deve tener conto del fattore tempo che in Sardegna purtroppo è considerato una variabile indipendente per lo sviluppo. Di quest’ultimo, infatti, si tiene poco conto nelle fasi dell’elaborazione politica e della formulazione delle leggi, fino a sottovalutarne gli effetti diretti e indotti sulle azioni da programmare. E su questo punto il DDL è emblematico. Infatti, se il rapporto tra le fasi di progetto e i tempi di attuazione non è rigorosamente monitorato, garantendone l’allineamento, può accadere che, nell’evolversi del tempo, la società “più viva”, degli abitanti, dei lavoratori, dei giovani laureati, si renda partecipe della modificazione dei contesti, prescindendo dai progetti enunciati ovvero, come sta accadendo, decida di emigrare, lasciando ai vecchi la “custodia” del borgo, tanto da vanificare qualsiasi proposta di Piano. Un’altra osservazione va fatta in merito agli “ulteriori atti di governo del territorio” (Artt. da 99 a 104) in quanto i contesti e le attività che riguardano aeroporti, porti, aree industriali, parchi non trovano posto nel Piano Regionale nonostante le connessioni economiche e infrastrutturali siano tali da influire su qualsiasi scelta di destinazione e di gestione nell’intero territorio isolano, ed in particolare, degli specifici ambiti insediativi. Al PRS possono essere ricondotti anche interventi di media e di grande dimensione nei settori di industria, agricoltura e turismo purché l’obiettivo di risollevare l’economia delle aree deboli dell’Isola, non interferisca sulla sostenibilità ambientale e paesaggistica. In ogni caso le nuove esperienze potranno dare risultati positivi se verranno inquadrate in una cultura del lavoro e della produzione, intrinsecamente legate alla capacità di tutti di essere interpreti attivi della necessaria trasformazione strutturale. 2.2 Il progetto urbanistico La pianificazione urbanistica regionale degli ultimi 20 anni (quella nata sull’onda lunga della L.R. 45/89) ha favorito, anche senza volerlo, gli ambiti urbani in crescita socio-economica senza contrastare attivamente il disarmo delle zone interne. Numerosi sono stati i progetti di riqualificazione dei centri storici (L.R. 29/98) anche con significative opere pubbliche che tuttavia non hanno frenato l’esodo dei giovani. Il DDL non cambia questo approccio, perché si affida prevalentemente sulla caratterizzazione degli insediamenti come fattore di ripresa economica. Inoltre l’approccio urbanistico indistinto nei differenti habitat della Sardegna non ha consentito di esprimere le potenzialità derivanti dall’esterno, come quelle endogene della mobilità, da e per la Sardegna (navale ed aeroportuale). Il perdurare di condizioni tutte uguali, non solo non risponde ad una reale esigenza, ma alimenta sempre più il disinteresse verso un’equilibrata urbanistica regionale che invece dovrebbe delineare un orizzonte credibile ed aderente con la realtà dei luoghi, pena l’infittirsi di azioni di deregulation (condoni edilizi, sblocca e salva Italia, piano casa) provenienti dal governo centrale come toccasana per le criticità. Ed in particolare oggi, che l’attenzione ed il focus urbanistico è prevalentemente riferito al nuovo assetto geografico della città metropolitana e alle sue proiezioni sul territorio, non si discute dei rischi e delle ricadute positive e negative che coinvolgono le zone interne, mentre invece si rende quanto mai necessario delineare politiche urbane di riequilibrio demografico di valenza regionale, in una Sardegna dove quattro città superano i 100 mila abitanti (Cagliari e Sassari) e altre due i 50 mila (Quartu Sant’Elena e Olbia). Dei restanti 373 comuni, 3 città superano i 30 mila abitanti (Alghero, Nuoro e Oristano). É però importante considerare che oltre 47 Comuni, che sono nella fascia da 5 a 15 mila, ben 314 sono sotto la fascia dei 5 mila, dei quali 122 addirittura sotto i mille (cfr. 4.2.4 di questi appunti). Per inciso, la questione è tanto importante che anche a livello nazionale è in discussione in parlamento il disegno di legge dal titolo “Misure per il sostegno e la valorizzazione dei comuni con popolazione pari o inferiore a 5.000 abitanti e dei territori montani e rurali” nonché “disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici”. Paradossalmente si tratta di una lettura tra estremi che deve consentire di “calibrare” le ipotesi di sviluppo e la crescita sociale ed economica concretamente, anche prescindendo dalla contrazione demografica che penalizza in modo particolare i paesi con una popolazione inferiore ai 1000 e ai 1500 abitanti. Purtroppo, anche quella che di recente è stata chiamata pianificazione strategica comunale non presenta proposte di sviluppo a lungo termine, proprio per la debolezza e inconsistenza di indirizzi credibili provenienti dalla politica regionale. Infatti, sono tante le zone che, indebolite dal progressivo calo demografico, non troverebbero una reale via di fuga con la pianificazione urbanistica comunale proposta nel DDL, in quanto la dimensione del disarmo è tale che il solo livello attuativo urbanistico non è in grado di scardinare. D’altra parte anche le quattro Province, per le competenze abbastanza circoscritte ad esse attribuite, non hanno determinato particolari sconvolgimenti nell’assetto regionale. Ciò che, invece, potrebbe accadere quando venissero definiti i poteri in materia di programmazione e di strategia di sviluppo, coinvolgendo il territorio e tenendo conto che la dimensione degli spazi in cui si esprimono i fattori di produzione è variabile: da molto piccoli, nei quali le funzioni economiche sono fra loro elementari; a medi, quando si complica l’interdipendenza tra le diverse funzioni economiche anche sotto il profilo della localizzazione; a decisamente grandi, nei casi in cui l’autonomia e l’organizzazione funzionale consentono una gerarchizzazione dei fattori fisici, sociali ed economici fra loro direttamente legati. Per questo diventa determinante il ruolo del “centro”, per coordinare le attività degli spazi così definiti, e i diversi livelli di centralità. Capitolo 3. I fattori demografici e i fabbisogni insediativi (Art. 89) In Sardegna sembra quasi irreale che la dimensione demografica venga assunta come il principale indicatore per intervenire sulla dimensione territoriale, dando scarso rilievo agli altri indicatori, che sono più significativi per proporre nuovi ambiti equilibrati di gravitazione. Si assiste alla scena dei piani urbanistici secondo l’approccio drammaturgico del “teatro dell’assurdo” che rifiuta il linguaggio logico-consequenziale e, nello specifico, non in favore della risata, ma del solo senso tragico. Da troppo tempo prevale l’urbanistica drammaturgica, quando invece sono richieste rinnovate e semplici gestualità. Infatti non ci sembra che il DDL su cui discutiamo possa da solo, per i limiti che hanno tutte le norme giuridiche, ridurre gli effetti del disarmo delle aree di montagna rispetto alla concentrazione delle opportunità economiche delle aree urbane, in quanto agli estensori dei processi di pianificazione (soprattutto a livello comunale) è mancata la sensibilità necessaria per capire quanto la “persona”e il suo habitat identitario siano determinanti per giustificare nel DDL diverse tipologie di azione e di burocrazia repressiva. Ci troviamo infatti davanti ad una scelta che sarà decisiva per la cosiddetta “inversione di tendenza” dello sviluppo nell’Isola: accettare l’integrazione di aree più rappresentative della ricchezza con altre della non ricchezza attraverso una politica di infrastrutture e di investimenti garantita da regole semplici e di rapida applicazione. Oppure, confermare le matrici insediative attuali che dividono la Sardegna in due fasce ben precise caratterizzate dai fattori fisici e strutturali. Infatti, la scelta delle geografie urbane e territoriali che hanno caratterizzato tutte le regioni d’Italia, compresa la Sardegna, è sempre strettamente legata alla relativa governabilità con il presupposto che vi siano analoghe condizioni e analoghi obiettivi, trascurando invece le palesi differenze e gli habitat delineate dai bacini territoriali di elettorato e meno da un’organica governabilità. Per intervenire in modo concreto sulle attuali disomogeneità dello sviluppo regionale e sui problemi dello spopolamento è quindi necessario percepire le diverse potenzialità di crescita, attraverso l’analisi dei punti di forza e di debolezza, anche delle zone più disagiate. Si tratta di operare una lettura dei fattori socio-economici che metta a confronto trasversalmente, quelli più importanti che agiscono sugli attuali assetti e che possano costituire volano per nuovi equilibri, più coerenti con gli obiettivi dell’intero sistema. In questo contesto, occorre fare una approfondita riflessione anche sull’immigrazione con una maggiore apertura per interpretare e vivere i cambiamenti positivi, anche in chiave demografica. Superare l’endemica diffidenza che connota tutti i comuni della Sardegna già costituisce un primo passo, ed in questo senso l’informazione assume un ruolo fondamentale per la costruzione del consenso e della predisposizione positiva al cambiamento. Infatti la questione dell’immigrazione prima ancora di essere ricondotta alle tante procedure che caratterizzano i processi di pianificazione solca aspetti sociali, culturali e religiosi, che con le procedure non hanno niente a che vedere. La costruzione di atteggiamenti positivi richiede uno sforzo interno notevole e forse sarà la vera ed unica occasione per la Sardegna per aprirsi anche al Mediterraneo e non solo all’Europa. PARTE SECONDA – Gli strumenti di pianificazione e gli ambiti di intervento. Capitolo 4. Il contesto territoriale 4.1 Il Piano Paesaggistico Regionale Sull’importante strumento non interveniamo perché il PPR è un documento acquisito e confermativo. Tuttavia, viene spontaneo porre qualche domanda in merito alla ridefinizione degli obiettivi e del contesto, e alle procedure di approvazione e di modifiche richiamate negli Artt. 39, 40. Nello specifico vengono indicate con molta chiarezza le azioni orientate alla congruità alla coerenza con il PPR ed in generale ai Piani sovraordinati, anche se non risulta chiaro chi siano i destinatari delle articolate e complesse procedure e soprattutto a quale progetto-obiettivo si riferiscano. Inoltre, qualche perplessità deriva dall’interpretazione dell’ Art. 41 in quanto non è ben definito il margine di discrezionalità della Giunta regionale che può adottare modifiche «connesse all’attuazione delle politiche di sviluppo regionale» le quali, secondo noi, dovrebbero trovare recapito privilegiato, se ci fosse, nel Piano Territoriale Regionale per valutarne meglio i rischi e i vantaggi. Inoltre, è importante riflettere sull’ Art. 31 che si riferisce agli incrementi volumetrici per interventi turistico – ricettivi che sconfinano nella fascia dei 300 metri e sull’ Art. 43 che demanda alla Giunta Regionale il potere autorizzativo sui programmi e i progetti ecosostenibili di grande interesse sociale ed economico. Su questi due articoli non ci soffermiamo perché condividiamo tutti i rischi che denunciano le Associazioni ambientaliste, giustamente impegnate a difendere i vincoli dei 300 metri nella linea di battigia marina, piuttosto che intervenire con deroghe giustificabili con «un piano d’impresa, asseverato da professionista abilitato». 4.2 La pianificazione a scala locale Dall’analisi del DDL sembra che la redazione del PUC scaturisca dal crocevia tra trend e previsioni, da quelle demografiche a quelle dei servizi nella logica del botton-up, che in generale trova un buon risultato in condizioni di vivacità e creatività sociale. Tuttavia, questa non è la condizione delle zone interne della Sardegna, se non per pochi episodi; la forza motrice (demografica ed economica) ha “fatto la valigia”, lasciando anziani e un sistema economico sociale dalla forte dipendenza pubblica, sia in termini di assistenza sanitaria e sia pensionistica. In altri termini, la pianificazione dal basso e la copianificazione sono di tipo ibrido. Infatti, è delegata alle amministrazioni la responsabilità della pianificazione locale (PUC) e dei relativi piani attuativi, quale frutto della mediazione che scaturisce dalla Valutazione Ambientale Strategica (VAS), senza tuttavia declinare delle politiche di governo del territorio in grado di contrastare realmente i grandi problemi: della demografia, dell’immigrazione, dei vuoti urbani, etc. Infatti, le nuove tensioni urbane (multi-etnie, lavoro, casa, servizi) unite con le debolezze extraurbane (demografie ed aree produttive dismesse) richiedono una rinnovata attenzione, perché sono sempre più ricorrenti e di dimensioni preoccupanti. Sottovalutare questi fenomeni amplierebbe ulteriormente il distacco tra le amministrazioni forti (comuni privilegiati, città d’area vasta, unioni di comuni) e quelle più deboli perché lontane dalle facilities di scala regionale (cfr. i problemi della rete ospedaliera). Sulla questione sembra quasi provocatoria la concessione ai Comuni di contributi regionali (Art. 16) e la disponibilità della stessa Regione a coadiuvare i Comuni che ne facciano richiesta per la redazione degli atti di governo del territorio (Art. 17). Un’altra riflessione riguarda l’ Art. 20 sugli strumenti di pianificazione ed in particolare sul Regolamento Edilizio Unico perché questa scelta non consentirebbe di valutare le diversità tra gli insediamenti di pianura e i centri di montagna che esprimono tipologie molto diverse tra loro, accentuate: le prime da linee orizzontali e le seconde da linee verticali. 4.2.1 PUC Il PUC così come delineato dal DDL (Art. 46 e seguenti) unitamente al buon esito della procedura VAS, presenta infatti tutti i caratteri di coerenza con l’ambiente nel senso più ampio del termine, individuando le precondizioni per imbastire scenari di sviluppo. Tuttavia nel DDL sono presenti degli elementi che destano preoccupazione, come in particolare l’ Art. 89 che obbliga i Comuni a dimensionare il PUC attraverso «un’accurata analisi demografica e socio economica retrospettiva, riferita ad un periodo di almeno vent’anni» per «definire i fabbisogni quantitativi e qualitativi delle varie tipologie di intervento con proiezione su un arco temporale non inferiore a dieci anni, supportata da un’analisi che debba essere in grado di mettere in relazione le dinamiche del numero di abitanti presenti e potenziali, del numero e della dimensione media delle famiglie e la disponibilità di alloggi non occupati». A costo di ripeterci, siamo convinti che il disarmo demografico (ormai consolidato e preoccupante di tantissimi Comuni) e queste richieste di burocrazia fuori contesto accentuino ulteriormente l’incompatibilità tra il DDL e il territorio. Inoltre, il mancato allineamento tra risultati attesi e il crono-programma proposto rende poco credibile il processo dello stesso “ciclo operativo” proposto dal DDL che di fatto comprime la tanto enfatizzata partecipazionecondivisione (Art. 48) in quanto prefigura un percorso teorico di 36 mesi scandito da 3 conferenze di copianificazione per approvare un PUC. Si tratta di un iter defatigante e assurdo nel gioco delle parti, perché il Sindaco (rappresentante politico e amministrativo del territorio) si troverebbe isolato e costretto ad accogliere le “correzioni” al documento di piano, imposte in nome e per conto degli Enti, che parteciperebbero di diritto alle conferenze. È facile capire quanto questo pesante percorso sia di ostacolo alla ricerca sempre più difficile per i singoli Comuni di avviare iniziative strategiche con cui attrarre investimenti avanzati di qualità e nuovi posti di lavoro. Quindi la partecipazione-condivisione (Comune-Regione) sebbene possa costituire una parte delle azioni per facilitare governo locale al raggiungere gli obiettivi di piano, va comunque riesaminata perché assume una diversa incisività in relazione agli ambiti territoriali. In quello metropolitano infatti la complessità dei temi da trattare e dei fattori che concorrono alla pianificazione di un territorio sono ben superiori rispetto a quelli in capo ad un piccolo Comune dell’intera regione che si sente meno attrezzato per misurarsi su problemi rilevanti e sovraordinati. Ci rimane un dubbio finale sulla redazione dei PUC (Artt. 46 e 47) in merito all’incarico che i Comuni dovrebbero affidare a professionisti qualificati: per esperienza, per credibilità in campo interdisciplinare, per le responsabilità amministrative e penali a cui si espone e per i tempi che superassero i 36 mesi per l’approvazione. Un incarico quindi di ampio spettro (di ingegneri, architetti, geologi, idraulici, trasportisti, sociologi, etc.) che tra l’altro meriterebbe un adeguamento del budget. 4.2.2 Piani Attuativi Nell’Art. 54 si esamina l’alternativa pubblico-privato per l’attuazione dei PUC: ciò che emerge subito, anche leggendo l’ Art. 57 (possono presentare proposte di piano mediante bando di gara (Art. 56) i proprietari di almeno il 70% di aree necessarie) è l’atteggiamento “di benevolenza” della mano pubblica nei confronti della mano privata, in quanto continua a prevalere la “diffidenza” sulle motivazioni speculative che possono giustificare l’intervento; quindi oltre «la stipula di una convenzione urbanistica che regola gli obblighi e le garanzie», per altro doverosa e necessaria, si elencano nell’ Art. 56 prescrizioni a nostro parere esagerate e disincentivanti per chiunque. Un’altra considerazione ci sentiamo di farla sull’ Art. 55, sui contenuti dei piani attuativi e sull’ Art. 58, sulle procedure della loro formazione. Non vogliamo ripeterci su quanto abbiamo già scritto in merito alla pesante presenza della burocrazia regionale in tutta la materia del DDL, che, in questo caso, rasenta la “paranoia amministrativa”. 4.2.3 VAS (Artt. 19 – 48 ) La pianificazione urbana a scala locale, che scaturisce dalla procedura VAS, presenta tutti i caratteri di coerenza con l’ambiente nel senso più ampio del termine, quali precondizioni per imbastire scenari di sviluppo. La VAS che è richiesta come importante indicatore del territorio per guidare la pianificazione comunale, presuppone come è noto una sequenza di esami con il range di fascia per ogni voce importante. In queste osservazioni, vogliamo mettere in evidenza la difficoltà di attivare la procedura VAS, e perfino “l’inutilità”, quando il Comune, “obbligato” a pianificare, si trovasse a districarsi in un “mondo di numeri e di tabelle” che gli uffici regionali dovrebbero mettere a disposizione in anticipo, con i diversi livelli di valutazione da tener conto in sede di pianificazione locale. Anche in questa materia bisogna distinguere tra la VAS per l’area metropolitana di Cagliari e quella, all’opposto, per il comune ad esempio di Sarule, perché la VAS (effettuata su un territorio che si estende dal monte Gonare al lago di Gusana) dovrebbe essere identica alla VAS necessaria almeno per Gavoi e Orani. Ogni altra considerazione per riflettere sul DDL ci sembra superflua. 4.2.4 Proposta per Comuni al di sotto dei 1000 abitanti Un’ipotesi di regole per “l’urbanistica” dei centri minori (cfr. Giulia Desogus, 2017) potrebbe agire su tre livelli di applicazione: il primo, con valore giuridico di piano di coordinamento, predisposto e adottato da ogni Unione dei Comuni come strumento quadro per governare in modo condiviso le linee di sviluppo di medio periodo senza trascurare le connessioni funzionali con altre Unioni di Comuni al fine di concertare con la Regione i progetti strategici con i corrispettivi finanziamenti. Tali progetti, per velocizzare la disponibilità dei siti da pianificare, dovrebbero comprendere eventuali incentivi per i proprietari delle aree destinate alle attività produttive e altrettanti indennizzi compensativi per i proprietari delle superfici correlate e però soggette a vincolo di salvaguardia ambientale e paesaggistica. Un secondo livello, decisamente più flessibile, con valore di strumento di pianificazione urbana, per consentire ad ogni Comune dell’Unione di ordinare i propri scenari insediativi (numero di abitanti, case vuote riconvertibili, prospettive di acquisizione di nuovi abitanti anche non sardi); questo strumento può acquistare valore attuativo senza le verifiche di adeguamento ai piani regionali sovraordinati qualora l’amministrazione comunale attesti che non sussistano difformità sostanziali. Il terzo livello, con il valore di regolamento edilizio autorizzativo, predisposto e gestito in proprio da ogni Comune, senza l’obbligo di far riferimento ad un piano particolareggiato se non si interviene con modifiche plano volumetrico nel tessuto edilizio. Con questa procedura si possono incentivare i cittadini interessati all’edificazione e al recupero edilizio innovato nei fattori energetici e di gestione. Inoltre, quando l’habitat lo suggerisca, il regolamento può chiedere maggiore attenzione ai caratteri identitari dell’architettura minore (pietre, mattoni, coppi, legni, etc.). Non soltanto non ci sarebbe nessuna giustificazione per il decremento e per l’invecchiamento della popolazione, tanto più se, come il DDL auspica, vengano rimessi in gioco con priorità i vuoti urbani dei “centri di antica e prima formazione”. Il discorso ovviamente si riflette anche sul dimensionamento dei servizi di scala (ospedalieri, scolastici, giudiziari e amministrativi sacrificati dalla spending review). Bisogna anche tener conto che le lungaggini burocratiche giustificate dalla trasparenza degli atti e dalla partecipazione democratica di tutti gli Enti interessati ai processi di piano e di tutti i cittadini aventi titolo, non consentirebbero la certezza agli amministratori della politica “a livello regionale e a livello degli enti locali” di vedere i risultati delle scelte effettuate in sede di piano e soprattutto renderebbero impossibile l’attuazione delle opere infrastrutturali previste e degli insediamenti approvati. Quindi «diventa importante ragionare più sugli effetti diretti e indiretti che possono produrre nel territorio abitato e produttivo, piuttosto che puntare, come si è fatto nel passato, su direttive morfologiche e vincolistiche generalizzate senza distinzione dei luoghi e delle specificità “patologiche” che invece richiederebbero percorsi “terapeutici” intensivi. In altri termini bisogna evitare che l’articolato di legge che la Regione sta elaborando affidi lo sviluppo della Sardegna a strumenti tecnocratici di pianificazione, secondo i quali le modificazioni della realtà dovrebbero essere contenute in una cornice di salvaguardia diffusa della natura, dei paesaggi, dei centri storici, senza però l’anima dei cittadini che li interpreta. È facile comprendere quanto questo procedere sia complesso ed oneroso per i municipi che non dispongono a tempo pieno di tecnici e di amministrativi e soprattutto disincentivante per coloro che intendono investire con opere di riqualificazione edilizia. Tutto ciò senza tener conto che i nuovi ordinamenti sulle autonomie locali impongono ai comuni oneri amministrativi molto gravosi per dare servizi adeguati alla popolazione. Su questo bisogna riflettere perché è storia e letteratura che negli ambienti sottosviluppati il peso dei vincoli urbanistici non ponderati acceleri il definitivo decadimento fisico, in contrasto con i principi della conservazione, che tendono a prospettare le alternative per rivitalizzare l’aggregato,rilanciando le attività tradizionali dell’agricoltura con altre più attuali di settore turistico,artigianale, commerciale. Questo, però non sarebbe ancora sufficiente se non dessimo risposte moderne (che ad alcuni potrebbero anche apparire spregiudicate) sugli standard abitativi e su quelli dei servizi, che sono ormai indispensabili per garantire la vivibilità dei Centri più lontani da quegli effetti che interagiscono sulla crescita sociale ed economica. Per intervenire in modo corretto caso per caso è importante, in via prioritaria, valutare la “dimensione” dei Piani e dei Regolamenti Edilizi Comunali senza escludere la reale portata urbanistica delle disposizioni in essi contenute. Non si deve, infatti, dimenticare che nei centri minori il regolamento edilizio era accettato come l’unico strumento di controllo dell’attività edilizia, anche quando le disposizioni generali formulate per le grandi città erano fuori scala per i piccoli paesi, dove la diversa dimensione dei problemi avrebbe richiesto qualcosa di più semplice ed appropriato. 4.3. La Città metropolitana di Cagliari (Art.5) La tendenza internazionale, relativamente agli assetti urbani, evidenzia come le città siano attrattive proprio per il dinamismo dei fenomeni che al proprio interno si sviluppano, dalla mobilità all’accesso ai servizi. Infatti, le città rispetto al contesto territoriale di riferimento, e quindi anche quelle di piccola dimensione producono ed alimentano relazioni ed opportunità riferite a tutte le componenti in cui si articola la società. Nello specifico, anche in Sardegna le città determinano fattori attrattivi in funzione della loro dimensione e ubicazione, legati al terziario pubblico, ai servizi e alla mobilità in base alla rete stradale ed inoltre si caratterizzano per effetto del network di prossimità. La città di Cagliari, per la sua storia e per le funzioni di capoluogo di Regione può contare sugli effetti centrali ai diversi livelli di scala tanto che è stata investita di ruolo guida della nuova Città metropolitana, e perciò investita di nuovi impegni e di nuove responsabilità di pianificazione e di gestione dell’Area Vasta comprendente 17 Comuni per complessivi 450.000 abitanti. La fluidità degli effetti indotti dal continuum urbano – dove le forme della gravitazione dell’area metropolitana possono essere più dirette e immediate – devono tener ben presenti alcuni obiettivi prioritari: rafforzare il sistema intermodale (porti, aeroporti, ferrovie); migliorare le interconnessioni tra i sistemi urbani regionali; sostenere la centralità urbana di Cagliari, come “risorsa differenziale” della Sardegna, ampliandone la dotazione dei servizi rari; accrescere la valorizzazione delle risorse naturali con particolare riferimento al bilancio ambientale al quale concorrono i fattori tangibili come le reti irrigue e di depurazione e le aree di rilevante pregio ambientale e naturalistico. Perché la città Metropolitana funzioni, diventa necessario allargare i contatti oltre i confini dell’Area per attivare una collaborazione di intenti che consenta di studiare la dinamica dei flussi, interni e di origine esterna, con le motivazioni sociali ed economiche che possano influenzare i futuri assetti urbani e territoriali. In questo scenario assume sempre più importanza la tutela e la valorizzazione della “città pubblica” con il suo patrimonio materiale e immateriale; tale concetto merita particolare attenzione nel momento in cui i flussi migratori investono gran parte dei Paesi sviluppati, richiedendo alle nostre città di adottare politiche che le rendano più ospitali, capaci di contrastare le disuguaglianze tra la città dei ricchi e la città dei poveri. Infatti, il patrimonio immobiliare pubblico in disuso può rappresentare una grande occasione per contrastare fenomeni di disagio sociale, dando risposta alla crescente domanda di servizi e di alloggio, garantendo in questo modo il “diritto all’abitare”. Inoltre, la Città non può trascurare importanti segmenti di popolazione (studenti, uomini d’affari, turisti in tutte le declinazioni) in quanto rappresentano una perdita secca per la Città che si traduce in costi sociali sempre meno sostenibili e definitivamente improponibili anche a causa della progressiva riduzione del grande apporto delle buste paga del terziario pubblico statale e regionale. Per Cagliari, questo procedere può segnare una svolta nella politica urbanistica ed edilizia, perché le opere di riconversione funzionale dei singoli edifici e delle aree disponibili possono consentire una importante azione occupazionale, in diversi settori, per i giovani e per le maestranze qualificate di cui la città dispone. Questi obiettivi generali, in base agli Artt. 5 e 36 del DDL, sono affidati al Piano Strategico Territoriale della Città Metropolitana (PSTCM) che viene assunto tra gli Atti di programmazione come riferimento di competenza per i Comuni dell’area. Questa impegnativa formulazione (che condividiamo) dovrebbe dare concretezza al Piano Strategico del territorio e della comunità metropolitana costituisce atto fondamentale dell’Ente (Art. 3 Punto 1 dello Statuto della Città Metropolitana). Capitolo 5. Gli ambiti di intervento 5.1 Turistico – ricettivi Questa voce rappresenta lo spartiacque tra una politica di salvaguardia del territorio e quella delle deroghe possibili. I riferimenti sono alla fascia costiera, ai 300 metri dalla battigia (Art. 31), e ai “progetti di grande interesse sociale ed economico” (Art. 43). Ci siamo già espressi al 4.1 di questi appunti per condividere i contenuti della discussione promossa dalle Associazioni Ambientaliste. 5.2 Rurali Un altro tema di importanza strategica per l’uso produttivo del territorio è quello che riguarda la pianificazione agricola (Art. 73 e seguenti) in un quadro di programmazione finalizzata dello sviluppo regionale. Argomento già discusso nel passato per definire una mediazione tra le coltivazioni dei terreni rurali e le costruzioni per la lavorazione e per lo stoccaggio dei prodotti. La valutazione dei problemi connessi con la pianificazione delle campagne comporta una serie di interrogativi che dalla fase di previsione e di studio dei modelli si accentuano sempre più fino al piano e alla sua attuazione. In particolare, la natura e la consistenza degli strumenti di intervento (leggi e finanziamenti), risultano deboli e inadatti per soddisfare le richieste della base contadina più evoluta. Il significato di questo discorso, per essere più chiari, al fine di valutare attentamente le diverse interpretazioni che vengono date o si possono dare alla politica di Piano per l’agricoltura, comporta la necessaria definizione dell’assetto di un territorio di vasta dimensione. Anche per effetto di questa mancata definizione, continuano a persistere gli equivoci tra città e campagna: la prima vista come area fortemente urbanizzata ricca di contenuti e di prospettive, la seconda intesa come zona di basso reddito priva di interesse al di fuori di quello paesaggistico. Il declassamento delle campagne, che si constata anche nelle leggi urbanistiche, facilità l’interesse del territorio rurale per attività paraturistiche, che danneggiano le prospettive agricole e interferiscono con l’ambiente paesaggistico. Diventa pertanto inderogabile affrontare l’attuale conflitto di vocazione delle aree, con destinazioni d’uso flessibili, supportate da una idonea maglia infrastrutturale, che consenta la contestualizzazione delle stesse aree agricole con gli insediamenti residenziali, turistici e industriali. Ed è in questo contesto che i diversi aspetti del problema caratterizzati da: la dimensione degli appezzamenti e il regime delle proprietà; la scelta dei prodotti e la competitività internazionale; la tecnicizzazione del lavoro e le opere infrastrutturali; l’adattabilità e la specializzazione del fattore umano; la conservazione dei vecchi centri rurali e l’insediamento di nuove forme accentrate o sparse più rispondenti alle nuove dimensioni territoriali e al nuovo lavoro; la dimensione delle aree di attrezzatura e di servizio, possono trovare una sintesi economica e di valore sociale da trasferire sul territorio. È importante però valutarli nella giusta dimensione, senza atteggiamenti semplicistici o rigidi per eludere la vera soluzione. Soltanto il piano territoriale può essere lo strumento tecnico e giuridico per metterli a fuoco, indicare le scelte prioritarie e le forme più adatte. Pensare perciò di risolvere questi problemi con interventi settoriali – da affidare alla “competenza” territoriale dei Comuni e ai PUC come strumenti di incentivo e di controllo sul migliore uso del territorio rurale – contribuisce a radicalizzare la separazione tra l’uso del suolo da coltivare e l’uso del suolo per le attività di industrializzazione e di commercializzazione del settore produttivo. Questo rischio è confermato da tutte le leggi in cui si parla di provvedimenti per incentivare lo sviluppo dell’agricoltura, attraverso interventi diretti della pubblica amministrazione o indiretti affidati ai privati. In nessuna si fa il benché minimo accenno ad una pianificazione degli stessi interventi nel settore agricolo e ancor meno all’eventualità di un coordinamento con i programmi degli altri settori di competenza pubblica e privata. Inoltre, in quasi tutte permane fortemente accentuato l’aspetto tecnicistico, sia negli articoli dedicati agli interventi, sia in quelli in cui vengono “responsabilizzate” le autorità degli organismi preposti al controllo della realtà. Quindi, gli articoli del DDL che trattano della classificazione dei suoli (Art. 75), e quelli che riguardano la destinazione residenziale nell’ambito rurale (Art. 79, che viene vista come zizzania infestante anche nei Comuni lontani dal mare con pochissima o nessuna appetibilità turistica) da gestire attraverso la pianificazione comunale sono da rivedere tenendo conto, tra l’altro, che i confini amministrativi del singolo Comune non sempre coincidono con i confini delle aziende agrarie nelle quali si avrebbe la necessità di costruire i fabbricati per la produzione e per le abitazioni dei lavoratori. 5.3 Nuova urbanizzazione Il DDL (Art. 85) definisce le funzioni insediabili nel territorio rinviando al piano urbanistico comunale o intercomunale, la valutazione d’uso e le proposte di localizzazione (tra queste le funzioni: residenziale, turistico – ricettiva, artigianale, industriale, commerciale, direzionale, socio-sanitaria). Nello specifico non si tiene conto della connessione complessa che può esistere tra talune funzioni e gli ambiti di competenza dell’organo decisionale. 5.4 Servizi di uso collettivo Il Centro regionale di programmazione ha approfondito gli studi sui trend demografici, facendo previsioni sulla distribuzione della popolazione fino al 2021, con l’intento di dare una maggiore solidità al sistema, e di rafforzare la struttura urbana delle zone economicamente più deboli, attraverso un miglioramento delle dotazioni territoriali essenziali (Art. 90) e delle attività terziarie che notoriamente agiscono sui livelli di “centralità” e sull’occupazione. Inoltre, l’Ente dispone di un’articolata organizzazione e competenza in grado di esprimere valutazioni storiche e previsionali, sulla demografia e sugli aspetti ambientali (geologici, idraulici, botanici, etc.), e sulla mobilità interna dà e per la Sardegna. Dispone anche di centri in grado di captare i cambiamenti di scala regionale e provinciale con particolare attenzione agli aspetti ambientali che costituiscono le invarianti della pianificazione urbanistica. Con questi riferimenti è più facile per l’economia di Piano considerare le attrezzature di uso collettivo esistenti come risorse ubicate, di cui valutare l’efficienza e la flessibilità rispetto agli obiettivi da raggiungere. In termini operativi, non si può prescindere dal considerare alcune determinanti fondamentali che sono: il margine di utilità sociale derivante dalla sostituzione di un’offerta pubblica di servizio ad una privata; il limite tecnico di soglia per ogni categoria di servizio; la dimensione finanziaria del piano; gli indirizzi di politica economica nazionale risultanti dal contesto legislativo e dalla mediazione politica. È altrettanto importante tener conto che il servizio di uso collettivo mantiene la duplice natura di mezzo a disposizione dell’autorità amministrativa, per garantire la dotazione standard in funzione della popolazione, nonché di fine, per garantire il tenore di vita degli abitanti nelle aree meno dotate. Questo è uno degli aspetti dell’interdipendenza generale dei fenomeni socioeconomici tipici dei servizi collettivi, tanto da suggerire una politica urbanistica diversificata con le relative tecniche, compatibile con le esigenze di rinnovamento urbano e di conservazione dei centri antichi, anche “forzando” se occorre le regole dei livelli di scala (ad esempio per i servizi ospedalieri). Capitolo 6. Rapporti con il privato – Accordi di programma La partecipazione di soggetti privati (Art. 23) nell’economia del Piano di Sviluppo dell’Isola deve assumere una dimensione straordinaria e non confinata ad una eventuale partecipazione da regolamentare attraverso Accordi di Programma previa approvazione in sede di Conferenza di Servizi (Artt. 11, 71). Ci sembra una linea di collaborazione estremamente debole e poco incentivante, perché oltre la parola “eventuale” che presuppone un atteggiamento non interlocutorio tra il privato e la pubblica amministrazione, non sembra voglia stimolare la presenza di capitali privati per attivare processi di sviluppo, con ricadute anche sui posti di lavoro. In altri termini occorre aprire al privato tutti i canali possibili nei luoghi in cui le criticità economiche attuali stanno procurando contrazione demografica e abbandono dei siti. Pertanto, istintivamente verrebbe da suggerire una politica di incentivi per attività di impresa (commerciale, di piccole e medie industrie, di ricettività alberghiera, etc), compatibili con il tessuto urbano esistente, sostenute da norme urbanistiche flessibili, in grado di rispondere alla tipologia delle opere da realizzare, fermo restando la valutazione di impatto ambientale e paesaggistico. Capitolo 7. Controllo amministrativo e atti sostitutivi degli Uffici RAS Nel trattare questo aspetto, molto delicato, perché non si vuole mettere in discussione il controllo amministrativo sulle “forzature” che gli enti di pianificazione possono proporre, vogliamo però osservare che l’approccio tra i due soggetti è soltanto conformativo alle procedure attente alla forma e molto meno alla sostanza. Questo può vanificare gli obiettivi ritenuti determinanti anche per un rilancio dei centri urbani più piccoli; inoltre (come già detto nelle righe precedenti) può indebolire il ruolo dei Sindaci nelle conferenze di copianificazione, in quanto gli stessi, si troverebbero in netta minoranza tra tutti i partecipanti, tecnici e gli amministrativi, delegati dagli organismi convocati. Per chiarire questo concetto, invitiamo a leggere gli articoli che definiscono le regole tra organo politico dell’Ente Locale e l’organo amministrativo di competenza, della Regione Sardegna. ● Art. 2 Pianificazione condivisa tra i diversi livelli ● Art. 9 Accordi di pianificazione ● Art. 10 Conferenza di copianificazione, nel quale i verbi “verificare e valutare in merito” prevalgono pesantemente rispetto a qualsiasi ottimistico scenario di piano. ● Art. 11 Accordi di programma e Conferenza di Servizi che di fatto vengono “governati dall’autorità amministrativa regionale”. ● Art. 37 L’intervento sostitutivo per la Città Metropolitana Art. 48 Procedure di approvazione del PUC con tre conferenze di copianificazione, di fatto gestite dall’autorità amministrativa regionale. ● Art. 52 Intervento sostitutivo promosso dalla Regione ● Art. 64 Commissari ad acta per “Comuni inadempienti” con la specifica nell’Art. 65 per l’Albo dei Commissari. ● Art. 103 Copianificazione industriale ● Art.107 Altro intervento sostitutivo ● Art. 25 Dibattito pubblico opere di rilevante impatto. In particolare l’ Articolo 25 che prevede il dibattito pubblico per opere di rilevante impatto (nel Comma d del Punto 7) è di particolare effetto populista, perché il momento partecipativo della popolazione per il relativo parere è affidato al 10% dei residenti del territorio interessato dall’iniziativa, che abbiano compiuto 18 anni. Anche in questo caso, tralasciando la praticabilità della disposizione, non può sfuggire il ruolo dell’Amministrazione regionale competente che dovrebbe indire e gestire la fase di consultazione popolare. ****************************************************************************** RIEPILOGO Concludiamo questa “prima lettura” del Disegno di Legge, che vorremmo stimolasse momenti di discussione non soltanto tra addetti ai lavori, ma tra tutti coloro che saranno chiamati a leggere e a interpretare i diversi articoli in funzione della loro applicazione agli ambiti territoriali di riferimento. Ci proponiamo di riprendere l’argomento in una successiva fase e dopo aver valutato tutti gli interventi critici, sui ragionamenti da noi fatti. Per intanto, riteniamo che non sia utile il modello del DDL come «Testo Unico nel quale accorpare tutta la disciplina di governo del territorio» perché, ad esempio, le regole giuridiche e pianificatorie del Piano Paesaggistico meriterebbero un loro autonomo riconoscimento; e così per altre disposizioni generali. Non ci sembra, inoltre, che il testo con i suoi 113 articoli più gli allegati, possa considerarsi uno strumento di facile memorizzazione e applicazione, tanto più che non «semplifica le procedure di elaborazione, di verifica e di approvazione degli strumenti urbanistici». Infine, contiamo di ritornare su alcuni articoli tra i quali certamente quelli che si riferiscono alla pianificazione urbanistica a scala locale in quanto emblematici per chiarire il concetto che abbiamo espresso nell’introduzione di questi appunti, con riferimento al ruolo ed alle responsabilità del “politico – decisore” rispetto alle Direzione Regionale competente in materia di governo del territorio.
**** DICAAR _ Università di Cagliari _ maggio 2017
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Proprio l’art.25 non ha alcun particolare efffetto populista, infatti oramai il cosiddetto popolo è piu`avanti, forgiato dagli innumerevoli progetti che inondano il territorio, discuttibili e deleteri, e quindi hanno già intravisto la non applicabilità dell’art. menzionato anzi si intravvede la volontà di forgiare il pensiero per le varie proposte d’intervento, evidenziando l’esclusione dalla reale partecipazione.