Sciopero generale del voto [di Marco Revelli]
Doppiozero, 27 giugno 2017. Uno sciopero generale del voto. Non trovo altra espressione per descrivere queste amministrative d’inizio estate. Sciopero generale dell’elettorato nel suo complesso, col livello record dell’astensione schizzata quasi ovunque sotto la dead line del 50%. E sciopero generale dell’elettorato PD in particolare, con una vera e propria fuga di massa dal partito di Matteo Renzi pressoché ovunque, a cominciare dalle sue tradizionali roccaforti. Il PD – e con lui il centro-sinistra – perde male Genova (più di dieci punti di distacco). Perde male – malissimo – La Spezia (venti punti di distacco). Cade Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”, con 15 punti di distacco. E, analogamente, il “feudo” di Pistoia ritenuto sicuro (ancora 10 punti). Nemmeno L’Aquila, dove pure al primo turno si era sfiorato il successo, resiste (e il volto sconcertato di Cialente testimonia di uno shock difficile da elaborare). E poi Alessandria, Asti, Piacenza, Carrara (quest’ultima passata agli odiati 5Stelle)… Su 25 capoluoghi di provincia in cui si rinnovava il sindaco, il centro-sinistra resiste solo in cinque! È però Genova la città simbolo di questa débacle. Genova la “Superba”. La città di Mazzini e di De André, dei Mille e di don Gallo, dei camalli e delle magliette a strisce. Genova che resistette ai Savoia e ai Tedeschi, che diede vita nel 1904 al primo sciopero generale del lavoro, quella del luglio ’60 contro i fascisti e del luglio 2001 contro gli oligarchi della cattiva globalizzazione. Genova repubblicana e democratica, anticonformista libertaria e “di sinistra”. Genova se l’è presa Marco Bucci, manager in quota Salvini, ex guida boy scout e poi CEO in società internazionali, protagonista di una campagna elettorale all’insegna di Paolo Del Debbio e della “città che conta” (si ricorda la cena nella lussuosa villa Lo Zerbino – nomen omen – con un paio di centinaia di armatori, industriali, maggiorenti)… Bucci si porta in Consiglio 9 leghisti, 5 forzisti, 3 post-fascisti di Fratelli d’Italia, una composizione che mai si era data a Genova da quando si vota. Il passaggio di mano è avvenuto in una sorta di deserto elettorale, con la maggioranza della città rimasta a bordo campo, delusa, distratta, scettica: ha votato appena il 42% degli aventi diritto, poco più di 200.000 elettori su oltre 500.000 iscritti alle liste elettorali, con punte particolarmente basse nella città di Ponente (Municipi V VI e VII), quella “rossa”, dei portuali e dei siderurgici, dove l’exit è particolarmente evidente e brucia di più a confronto con la Genova di Levante, i quartieri del Centro e del Bisagno, tradizionalmente “blu”, dove la partecipazione sta qualche punto percentuale più sopra… Non è un fatto locale. È il dato generale nazionale, dove anche il voto di protesta sembra essersi arreso, persino quello “di vendetta”, che nell’intero Occidente ha sostenuto il vento impetuoso dei cosiddetti “populismi” (da Trump alla Brexit), sostituiti tutti, ora, da un atteggiamento di delusione e abbandono del campo, ben visibile nei numeri: in quel 54% di astenuti che una classe politica minimamente responsabile e consapevole dovrebbe guardare con terrore (è la misura di una de-legittimazione gigantesca). E che invece occhieggia appena nei sottotitoli dei giornali, quasi una curiosità (una nuova lineetta nel Guinness dei primati) ma sta fuori dai pensieri dei politici e degli opinionisti che fanno coro, occupati solo a misurare il risultato in termini di seggi, posti, percentuali (i valori assoluti sempre più striminziti che stanno dietro quelle ripartizioni relative non interessano). Quello che interessa è solo la resa dei conti nel campo stretto dei pochi sopravvissuti in un’arena elettorale rarefatta: quanti sindaci a me a quanti a te. Quanti consiglieri, assessori, presidenti di partecipate, fedeli da accontentare, amici politici da sistemare… È così che si isteriliscono le democrazie contemporanee, transitando senza quasi soluzione di continuità nella categoria-limbo della “post-democrazia” (messa a fuoco già una quindicina di anni or sono da Colin Crouch) e poi, a poco a poco, nella democrazia del leader (Ilvo Diamanti) e nell’oligarchia esecutoria, che sono, tutte, varianti di quella “democrazia senza popolo” di cui ha parlato, di recente, Carlo Galli: una forma ossimorica, auto-contraddittoria, che sintetizza bene la crisi di senso, oltre che di legittimazione e di autorevolezza, della funzione di governo in società che hanno fatto della “governabilità” il proprio mito e dogma. Per questo appaiono in buona misura fuori luogo i toni di trionfo del centro-destra, sicuramente vincitore formale di questo round (se si considera appunto il numero di sindaci, maggioranze comunali, duelli vinti), ma galleggiante, anch’esso, su un vuoto di reale consenso, appeso a segmenti di società volatili e volubili, soprattutto privo di una qualche prospettiva credibile in rapporto alle incombenti elezioni politiche nazionali, dove le maggioranze che hanno conquistato i comuni non sono riproducibili, e le fratture interne alla coalizione sono sicuramente più profonde e tendenzialmente più forti dei comuni interessi. E a maggior ragione sembrano fuori luogo – anzi fuori senno – le reazioni a caldo del Segretario del PD: di Matteo Renzi che appare a qualunque sguardo non appannato il vero perdente della partita. Quello che, celiando e twittando, ha portato il proprio esercito a una disfatta storica e che invece, a notte inoltrata, parla di risultati “a macchia di leopardo”, s’interroga garrulo sui “campanelli d’allarme” (“non si capisce per cosa e perché”: testuale), chiama i pochi sindaci “suoi” eletti per nome come fossero boy scout della propria sestiglia, e invita a “lasciar stare le chiacchiere”… È sua, senza alcun dubbio, la firma sul disastro che ha travolto il centro-sinistra. Perché è vero che lo tsunami è passato su tutte le sue possibili varianti e combinazioni: quelle in cui il Pd si presentava solo, con candidati di stretta osservanza, e quelle dove era stata assemblata una coalizione da “campo largo”, le liste “renziane” e quelle mediate con Bersani, o anche con Pisapia, o con tutte le sinistre ulteriori (come a Genova, appunto). Ma è altrettanto vero che il denominatore comune in tutto questo variegato arcipelago è stata l’antipatia per il leader del partito maggiore. La fuga da Renzi, appunto, sia nelle casematte del partito che nelle sue appendici periferiche, tra i “militanti provati” e i simpatizzanti occasionali, i voti d’opinione e quelli di tradizione. Matteo Renzi ha funzionato, per tutti, come un potente repellente, per la sua vocazione divisiva, il compulsivo bisogno di offendere e umiliare, i vorticosi voltafaccia e giri di valzer con troppi partner, le insistite menzogne o le verità negate, tra babbi, banche, appalti, commissioni d’inchiesta (promesse e affossate) e commissari europei (blanditi o sbertucciati), e l’insopportabile ostentazione di ottimismo in un Paese che diffusamente soffre. Certo, sarebbe impietoso ridurre il problema alla sua persona. Si sono concentrate nella sconfitta del Pd tutte le sue “tare storiche”: gli equivoci della nascita, con Veltroni, in quella fusione fredda che mai ha funzionato, l’impotenza e la resa bersaniana agli idola fori del neo-liberismo e delle privatizzazioni, l’impotenza della parentesi montiana dei “tecnici”, sostenuti nella loro politica lacrime e sangue con un’ossequenza neppur richiesta (si ricordi l’equilibrio di bilancio scolpito in Costituzione) fino agli orrori del 2013, la frantumazione del partito divenuta evidente con i 101 fucilatori di Prodi all’elezione presidenziale, i trasformismi, le congiure di palazzo… E su tutto, la tendenza terribilmente distruttiva – “tossica” potremmo dire – a ignorare ogni segnale provenga “dal basso” e “da fuori”, ogni espressione di volontà popolare, sia l’esito referendario sull’acqua e i beni comuni (umiliato da una serie di provvedimenti legislativi in clamorosa opposta direzione) sia il risultato perentorio del referendum costituzionale: il segnala assordante del 4 dicembre a cui il Palazzo – sia Chigi che Nazareno – è rimasto ostinatamente sordo e cieco, facendo come se nulla fosse successo, e provocando appunto l’exit tumultuoso e massiccio a cui oggi assistiamo. Come in un gioco di matriosche tutti questi strati sovrapposti si sono accumulati. E tutte queste contraddizioni si sono sintetizzate in una figura sola, che le ha assorbite, senza neutralizzarle, tutte, e che ora finisce per pagare, per tutti, lasciandoci di fronte un quadro senza soluzioni possibili. Nel quale ogni possibile alternativa appare bruciata in partenza, sia essa quella – sciagurata – dell’autosufficienza o quella, simmetrica e opposta, della coalizione larga, la costruzione forzosa di un PD sempre più strettamente renziano o quella di un “campo democratico” allargato ai figlioli prodighi da riportare al tavolo paterno, la costruzione di un centro non più di sinistra da coniugare con una scheggia di berlusconismo rimodernata e ri-moderata, o la riedizione di una sinistra pre-Lingotto (pre-Veltroni del 2007) rilanciata ma non ringiovanita. Comunque si rimescolino i fattori il risultato non cambia: nessuna delle diverse combinazioni può sperare di aver credibili possibilità di successo alle politiche prossime, sia che per un picco di masochismo Renzi forzi per il voto anticipato, sia che si aspetti la fine naturale della legislatura. In ogni caso sembra non esserci più tempo per nulla. E a un certo punto la pallina si fermerà su una casella della roulette, rossa o nera chissà. E l’emorragia di elettori, di fiducia, di legittimazione e di autorevolezza delle nostre istituzioni continuerà, se un soprassalto di orgoglio, o di razionalità, non interverrà a interromperne il processo, dall’interno (per un ritorno di auto-riflessione) o dall’esterno (per la perentorietà di una qualche costrizione).
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