Ecco chi sono i giganti che inquinano l’ambiente [di Nello Trocchia]

ENI

Tiscali.it 11/07/2017 [Esclusiva] “Ecco chi sono i giganti che inquinano l’ambiente“. Le accuse choc della procura nazionale antimafia. Nella relazione annuale della Dna del procuratore Franco Roberti vengono citate due grandi inchieste che riguardano due gruppi energetici di primo piano: l’Eni e la Q8. Con un colpo di scena, l’ecomafia non esiste più.

L’ecomafia non esiste più. La frase potrebbe suscitare proteste e sbigottimento, ma è la realtà che da anni viene fotografata dalle inchieste e da chi si occupa della questione. Certo il termine, introdotto nei primi anni novanta da Legambiente, è stato efficace, in quella stagione, per indicare le infiltrazioni dei clan nei crimini ambientali, ma oggi è desueto oltre che fuorviante perché tende a immortalare una realtà criminale che ha assunto aspetti, connotati e tratti del tutto diversi.

Basta ecomafia, è criminalità ambientale.La conferma arriva dalla relazione della direzione nazionale antimafia nel capitolo dedicato all’argomento criminalità ambientale, firmato dal magistrato Roberto Pennisi. Ancor più degli anni scorsi, la relazione è chiarissima precisando che l’essenza del fenomeno non deve essere cercata: “nelle ingerenze della criminalità mafiosa nello specifico settore, bensì nelle deviazioni dal solco della legalità, per puro e vile scopo utilitaristico”.

Nel settore del crimine ambientale bisogna parlare di delitti di impresa, continuare a parlare di ecomafia, tra l’altro, produce due effetti negativi. Da un lato continua ad assegnare al crimine organizzato un ruolo che non ha più se non marginalmente, ma soprattutto non indica la vera responsabile dei disastri consumati in questi anni e scoperti dagli inquirenti: l’impresa italiana.

Eni e Q8. E nella relazione vengono citate due grandi inchieste che riguardano imprese di primo piano: l’Eni e la Q8. Nel primo caso il riferimento è all’inchiesta della Procura di Potenza che contesta il traffico illecito di rifiuti ad alcuni dirigenti dell’azienda e nella relazione si legge: “L’impresa dopo aver tentato neutralizzare l’intervento repressivo con un tanto infondato quanto vano ricorso per riesame, ha alla fine manifestato la disponibilità ad effettuare interventi di adeguamento degli impianti, in termini tali da far sì che lo svolgimento della attività produttiva non si sostanziasse nella violazione della normativa ambientale”.

Nel secondo caso il riferimento è all’inchiesta della Procura di Napoli per la stessa tipologia di reato che ha portato anche al decreto di sequestro preventivo per equivalente della somma di euro 326.279.779,00 emesso dal Tribunale partenopeo.

Le conclusioni della relazione sono nette: “Come può notarsi dalla lettura dei capi di accusa dell’una e dell’altra indagine si è trattata di aperta violazione della normativa ambientale da parte di veri e propri “giganti” nel settore delle fonti energetiche i quali, a dispetto del prestigio connesso alla loro posizione, non hanno esitato a porre in essere quelle condotte al solo scopo utilitaristico, ovverosia di risparmiare sulle spese per il corretto smaltimento dei loro rifiuti”. 

Una storia di soldi e corruzione. Tutta la storia della gestione illegale dei rifiuti, della devastazione ambientale anche riferibile al caso campano e anche in presenza di infiltrazione dei clan è una faccenda di soldi.

Se si torna indietro tutto iniziò con le dazioni di denaro a politici e funzionari compiacenti, corrotti in cambio delle autorizzazioni a scaricare. Allora come oggi. Nella relazione si legge: “Accanto a quello della corruzione, si utilizza il canale del riciclaggio che, insieme con quella, dà corpo all’ulteriore lato del “triangolo maledetto” (consorterie-corruzione-riciclaggio) che oggi caratterizza ogni seria attività criminale organizzata”.

Nella relazione si ricorda un particolare singolare che troppo spesso sfugge: il ritorno dei trafficanti di veleni, protagonisti del saccheggio campano, con nuovi abiti e completamente ripuliti. “In una situazione del genere non potrà né dovrà sembrare strano che al vertice di importanti realtà imprenditoriali – scrive il magistrato Pennisi – proclivi alla sistematica violazione delle norme ambientali, e che godono della simpatia di influenti potentati politici, compaiano personaggi allenatisi nella palestra campana degli anni ’80-90, che vide il ruolo attivo delle più agguerrite organizzazioni camorristiche”.

Un aspetto che imporrebbe alla commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti di scrivere un documento dettagliato sulle imprese che inquinarono e si arricchirono in quegli anni e capire quali continuano, oggi, a operare in questo settore. Documento che, nonostante l’importanza del tema, viene sempre rimandato. I clan ci sono ancora nel settore, soprattutto in Calabria e in Sicilia, ma con l’inserimento nel settore legale gestendo, attraverso aziende collegate, i servizi di raccolta dei rifiuti.

I reati aumentano al Nord. Anche il numero delle iscrizioni nel registro degli indagati per traffico illecito di rifiuti spiega bene le caratteristiche del fenomeno. I dati sono chiari: aumentano le iscrizioni nel nord del paese e restano invariate al sud. Il ciclo illegale, quindi, resta nellostesso territorio di produzione dei rifiuti.

I rifiuti vengono prodotti al nord e smaltiti illegalmente al nord. Il finale è sconfortante, ma fotografa il disastro: “Cresce, quindi, la patologia delle imprese deviate, ma anche quella connessa alla scarsa attività di prevenzione, quando addirittura non si verifichino connivenze tra imprese ed organi preposti alla vigilanza”.

 

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