Il fascino discreto del generale Pinochietti [di Nicolò Migheli]
Affari Italiani è un sito populista, definizione che ormai contempla il tutto e il suo contrario. Il 20 di giugno pone questa domanda ai suoi lettori: Vi piacerebbe un bel golpe militare, nella consapevolezza che il governo Gentiloni si regge sul consenso di una minoranza e non è stato eletto da nessuno? Applaudireste un atto di forza possibilmente senza sangue che rimedi al disastro attuale e al vuoto di qualsiasi capacità del governo di difendere gli interessi italiani? Il 71% di chi risponde al sondaggio si mostra d’accordo. Solo un 8% dichiara che scenderebbe in piazza a fermare i carri armati. Un sondaggio di questo tipo non ha nessuna valenza scientifica, non si sanno i criteri, non si conosce il campione, è puramente volontario e rispecchia i lettori del sito. Quindi non ci si dovrebbe preoccupare? Invece sì. Perché coglie una disaffezione verso la democrazia che sta diventando sempre più estesa. I dati dell’astensione alla elezioni sono una conferma drammatica. Nel web da anni assistiamo quasi impotenti al proliferare di teorie che rimandano al nazismo e fascismo degli anni Trenta riveduto per questo inizio secolo. Teorie come il piano Kalegi della sostituzione etnica; filosofi da talk show come Diego Fusaro, costruiscono immaginari autoritari che i movimenti della nuova destra usano a piene mani. E di questi giorni la notizia che un militante di un movimento neonazista è diventato assessore in una città come Monza. Tutti segni di disagio profondo dentro una società che ha perso gli anticorpi. Se negli anni Sessanta-Settanta fu possibile bloccare i tentativi di golpe dei Pinochet nostrani, lo fu perché allora esistevano corpi intermedi come i sindacati operai, partiti di solida tradizione antifascista. Donne e uomini che avevano fatto la Resistenza in età ancora giovane ed attivi, ma oggi? Nella società della folla solitaria, sempre più divisa tra inclusi e marginali, dove si è persa ogni sicurezza del lavoro, e quel che rimane diventa sempre di più precario e sottopagato, il fascino della soluzione autoritaria, di un etnocentrismo totalizzante ed escludente trova sempre più consensi. La retro-utopia è in atto. Una società rancorosa che vede in ogni vicino un competitore pronto a togliere ogni opportunità personale. La politica di governo è impotente e terrorizzata. Renzi nel suo libro blandisce la tesi leghista dell’aiutiamoli a casa loro, e il senatore del PD Fiano, forse per far dimenticare la sbandata del suo segretario, concepisce un articolo di legge contro la propaganda fascista che se applicato, proibirebbe le collezioni di soldatini, di decorazioni, di militaria, solo perché in esse vi è la simbologia nazi-fascista. Gli stessi musei sarebbero a rischio. Come se bastasse solo questo per bloccare una ideologia. L’Italia non ha mai fatto autocritica sul proprio passato coloniale e fascista, sulle stragi compiute. Ancora oggi gli statini militari di molti protagonisti delle guerre coloniali e di quelle fasciste sono coperti da omissis. Un popolo che non ha introiettato le leggi razziali del 1938 come colpa collettiva, dove la morte di Mussolini e dei suoi gerarchi è stata vissuta come lavacro per l’innocenza di tutti. Un clima culturale che ammira i presidenti autoritari di Polonia, Ungheria, Russia e Turchia. Perché loro sì, loro decidono, si oppongono allo strapotere della finanza, identificano l’interesse nazionale come difesa dalla società meticcia. Il fascismo come esclusivismo etnico è alla base dell’unità d’Italia, ha le radici in quella affermazione di Massimo D’Azeglio: Abbiamo fatto l’Italia ed ora facciamo gli italiani. Fare gli italiani ha significato dividere in due il Paese, reprimere le istanze regionali, imporre una sola lingua, creare un ethos in cui l’italianità è il solo valore possibile, escludendo ogni altra possibilità che non fosse quella delle sorti progressive a spese degli altri. Il razzismo italiano, – prima interno vedi Lombroso e seguaci –, ha avuto come fattore di massa l’avventura coloniale dove anche le classi popolari, i meridionali e i sardi, potevano sentire e cullare il proprio falso senso di superiorità. Una condizione culturale di ritorno che sta tracimando anche dentro l’area identitaria. Fascisti che si travestono da indipendentisti. Il senatore della Lega Borghezio, l’aveva teorizzato in una conferenza fatta a dei neonazisti francesi- il video è reperibile su You Tube- dove sosteneva che bisognava infiltrare i movimenti delle nazioni senza stato, calcare la mano sulle identità trasformandole in esclusive. Scriveva Placido Cherchi: Fissare lo sguardo sull’etnocentrismo significa mirare direttamente al cuore della falsa coscienza, o –più esattamente- alla condizione fondamentale da cui procedono in forma più o meno mediata un po’ tutte le varianti di quanto si presenta come arrogante presunzione culturale o come reificante fissazione in una qualche particolarità ipervalorizzata e fraintesa come assoluto. [Etnos e apocalisse, Cagliari 1999]. Cherchi in poche parole dense di significato descrive la realtà schizofrenica della Sardegna, costretta dentro l’etnocentrismo escludente italiano a cui ne corrisponde uno sardo, ben più debole però. Una apocalisse che è contemporaneamente catastrofe e rivelazione. Un popolo che non crede più in sé stesso. La controprova è la tradizione trasformata nel Rito del Cargo degli antropologi, folklorizzata, adattata all’occhio straniero e alla sua visione esotica di noi, e nello stesso tempo creduta immutabile; i-dentica a quella degli avi, non comprendendone più il senso intimo. Una sorta di orientalismo in salsa sarda: il sardinialism. A cui corrisponde il dispregio della propria lingua, il dileggio dell’accento. Una concezione del mondo dipendente, molto più di quanto non voglia ammettere, dai modelli etnocentrici italiani. Sardi posseduti da una scala di valori che li vedrà sempre perdenti, fuori moda, puzzanti di pecora e latte acido, dove l’uso del sardo debba essere relegato nel privato e nel folk. Come in un gioco di specchi si crede di superare la vergogna di sé con il dispregio dello straniero povero. Una condizione di minorità che ha introiettato la categoria dominante di questi tempi: il rifiuto del migrante economico, quasi che il bisogno dell’altro fosse un insulto a quello proprio. L’unica salvezza: l’etnocentrismo critico, ma è pratica impegnativa. Per ora resta una considerazione amara: se le prossime elezioni del parlamento italiano daranno luce ad un governo autoritario troveranno anche nei sardi molti volontari collaboratori. È stato così con il fascismo, non si vede diversità.
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Ottimo e interessante articolo di Nicolò Migheli.
Consiglio di leggerlo con grande attenzione, soprattutto ai miei conterranei sardi.